In una conversazione telefonica ricca di intuizioni e riflessioni personali, abbiamo avuto il piacere di incontrare Manuela Villa, un'icona poliedrica nel panorama artistico italiano, nota per il suo impegno nel teatro, nella musica e, negli ultimi anni, anche nella letteratura. Mentre discutiamo del suo ultimo libro, Le note ballerine (Armando Curcio Editore), Manuela Villa condivide con noi il processo creativo e le motivazioni profonde che hanno guidato la scrittura dell’opera.
"Nei miei libri c'è sempre una parte di me: sono racconti di fantasia, ma intrisi delle mie esperienze personali, di ciò che ho visto e sentito", inizia Manuela Villa, introducendoci nel mondo di Le note ballerine. Il romanzo nasce dall'esperienza diretta di Manuela Villa come madre, attenta alle dinamiche scolastiche contemporanee e alle sfide quotidiane che i giovani devono affrontare.
Ripensando alle proprie difficoltà scolastiche con la matematica, Manuela Villa racconta di come la diagnosi tardiva di disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) l'abbia spinta a indagare questi temi più a fondo. "Ho deciso di fare i test e, scoprendo di avere anche io questa problematica, è nato in me il desiderio di aiutare gli altri", confida con sincerità.
Attraverso la storia di Alessia, una giovane protagonista che lotta il DSA, il libro si propone di sensibilizzare su un argomento spesso sottovalutato o frainteso. "Ho voluto offrire una mano a quegli adolescenti che si sentono frustrati, che vogliono arrendersi perché pensano di non essere all'altezza", afferma Manuela Villa. L'apporto del dottor Ettore D’Aleo, psicoterapeuta, arricchisce il romanzo di dettagli preziosi sulla natura del disturbo, trasformandolo in uno strumento di comprensione e supporto.
Le note ballerine non solo discute il DSA attraverso la narrativa, ma utilizza anche la musica come metafora e rifugio per la protagonista, riflettendo le personali esperienze di bullismo e di sentirsi diversi vissute dall'autrice. "Il romanzo è partito da ciò che ho vissuto e visto con i miei occhi", rivela Manuela Villa, sottolineando come il racconto possa essere un potente mezzo per affrontare e elaborare questioni sociali complesse.
Intervista esclusiva a Manuela Villa
“In tutti i miei libri c’è sempre qualcosa di mio: sono sì dei romanzi di fantasia ma dentro ci sono tante cose che riguardano la mia vita, le mie esperienze, quello che ho visto e quello che ho sentito”, esordisce Manuela Villa quando le chiedo a inizio intervista di spiegarmi com’è nato Le note ballerine, il suo ultimo libro.
“Essendo una mamma, sono stata a contatto con l’ambiente scolastico e ho visto che c’erano tante situazioni in cui tanti ragazzi avevano bisogno di studiare con delle dispense e delle mappe concettuali, tutto un altro sistema rispetto a quando eravamo piccolo noi adulti di oggi. Poiché anch’io da ragazzina avevo dei problemi con la matematica e con i calcoli, mi sono chiesta se il il DSA riguardasse anche me. Ho deciso allora di fare i test e fondamentalmente ho scoperto che avevo anch’io questa problematica. Un po’ come fanno tutti, l’ho compensata ed è allora che è nato il desiderio di mettermi in gioco per aiutare gli altri”.
“In molti hanno bisogno di aiuto perché è una diagnosi che spesso non si accetta molto facilmente. Le persone non conoscono bene cosa significa e quindi il romanzo nasce per dare modo alle persone di capire che cos’è. Nella scrittura sono stata coadiuvata da uno psicoterapeuta, che spiega nei dettagli di cosa si tratta. Così facendo, vorrei dare una mano soprattutto a tutti quegli adolescenti che si sentono frustrati o che vogliono mollare perché pensano di non farcela o di non essere all’altezza. Forse vedendo me che, comunque, sono un’artista, una che sta in televisione o che fa tournée possono incoraggiarsi e non demordere”.
Forse è proprio questo il punto da cui partire: non mollare.
Non ho mollato mai ma è statisticamente provato che la maggior parte dei ragazzi che hanno problematiche legate al DSA tendono, per non viverne gli effetti, a lasciare la scuola, soprattutto quella di secondo grado. Io, per esempio, avrei potuto continuare e fatto tanto altro: fortunatamente, sono stata catturata da altri stimoli ma chi non lo è tenta di risolvere il tutto togliendosi il problema alla radice.
Nel romanzo, c’è una descrizione dettagliata di quella che è la vita scolastica della protagonista Alessia, a confronto sia con gli insegnanti sia con il gruppo dei pari.
Sono partita da ciò che ho vissuto e ho visto con i miei occhi. Ho cambiato situazioni, location e nomi ma ho visto molti di quegli atteggiamenti, soprattutto di disprezzo e derisione. Ma chi non le vede determinate cose? Si può fingere che non esistono ma le abbiamo vissute un po’ tutti per un motivo o per un altro e ben descrivono la difficoltà e il bullismo che spesso vive chi ha un DSA.
In cosa ti rifugiavi quando gli altri ti facevano sentire diversa?
Mangiare per me era diventato un rifugio: o non mangi e ti deprimi o mangi troppo. Ci sono dei meccanismi che purtroppo scattano nella mente e che sono soggettivi per ognuno di noi: nel mio caso mi rifugiavo nel cibo. Adesso che sono adulta gestisco le cose in maniera differente ma è stata dura pure in quel caso: il mio primo romanzo, L’alimentatore, racconta proprio di quello… se unissimo tutti i miei libri, si troverebbe tutta la storia di Manuela e tutti i tratti che l’hanno caratterizzata.
Alessia, la protagonista, trova il suo rifugio nella musica…
Ma ha un problema: la musica è quello che ama più di ogni altra cosa ma non riesce a leggerla. La ama, però, talmente tanto da avere l’occasione per capire che può leggerla in un’altra maniera, non tradizionale. È lì che emerge la vera natura della persona che comunque riesce a vincere tutto.
Non era la musica un rifugio anche per te?
La verità? La musica, nel mio caso, mi faceva soffrire perché inevitabilmente mi riportava a mio padre. Non era, quindi, molto semplice per me rifugiarmi nella musica… e forse non ho ancora smesso di soffrire per la musica. Evito ad esempio di andare ai concerti perché soffro: li faccio ma non riesco ad ascoltarli. Ai miei concerti do tutta me stessa, vivo una grande emozione e la regalo agli altri, ma se qualcuno mi chiede di andare a sentire qualcun altro mi spavento proprio perché soffro. Di conseguenza, faccio e ascolto musica ma tendo a non andare ai concerti a logorarmi l’anima: quelle poche volte che capita di farlo, ascolto quel tanto che mi basta ma non mi lascio trasportare mai fino in fondo.
Nel romanzo, c’è un momento particolarmente emozionante, un Natale in cui Alessia rivede la sua famiglia unita. Come sono stati i Natali di Manuela bambina?
Ho vissuto tutti i miei Natali da bambina con felicità, fino a quando non ho saputo la verità su mio padre: ho vissuto l’infanzia tranquillamente ed è solo quando sono emerse alcune cose che è diventato tutto un inferno. Prima, però, ho vissuto serenamente in famiglia con mia mamma, con quello che credevo mia papà, mia sorella e mio fratello. Ho avuto una famiglia tradizionale, ragione per cui i miei Natali sono cambiati quando mia madre non c’è più stata e con lei se n’è andato il fulcro della famiglia. Da allora, è diventato tutto diverso: si smette di essere figli quando i genitori vengono a mancare e tutto cambia.
In cosa somigli a tua madre?
Mia madre era una donna che aggregava molto, cercando di tenere uniti tutti quanti: ricordo le belle tavolate della domenica o delle festività in cui eravamo tutti da lei. Ed è in questo che le somiglio molto: anch’io provo ad aggregare tutti, sebbene oggi siano cambiati i tempi e le modalità per cui tutto è diventato molto più complicato. Sull’aggregare e mantenere le tradizioni ci somigliamo molto, oltre al fatto di avere entrambe un’onestà intellettuale su cui non si discute.
Vincere le sfide aiuta a realizzare i propri sogni. Hai realizzato i tuoi?
Non li ho realizzati perché fondamentalmente credo che, facendolo, non avrei più niente da fare dopo. Vorrei sempre sognare e vorrei sempre riuscire a fare di tutto per raggiungere la meta: da una parte mi piacerebbe dunque arrivarci ma dall’altra parte ho paura di farlo… sono stata spesso a un passo dal raggiungere quella meta che mi ero prefissata ma è stato in quel momento che ho avuto paura: che sarebbe successo dopo? Non avrei sognato più? Non avrei lottato più? E, quindi, va bene così: sogniamo sempre di raggiungere qualcosa di grande.
Sei felice Manuela?
Ma chi lo è? Chi è felice adesso? La felicità sono gocce di vita belle, di cose belle che accadono, arrivano come linfa vitale e poi spariscono. Sono momenti da cogliere e vivere fino in fondo. Al di là delle circostanze personali che ho vissuto in quel determinato periodo per via di un matrimonio saltato in aria, la mia felicità è stata la nascita di mio figlio, un figlio d’oro che non cambierei mai con nessun altro al mondo.
Un figlio che hai sempre voluto preservare e mai esporre ai media…
Non lo farei mai: non ama questo mondo o certi meccanismi. Ho sempre rispettato la volontà di mio figlio: io l’ho messo al mondo ma le decisioni e le scelte sono sue, spetta a lui farle e non a me. Il mio compito è pensare al suo bene e non a ciò che può fargli male.
E tu sei stata libera di scegliere come figlia?
Ho avuto abbastanza libertà in casa. Tutto ciò che decidevo di fare lo facevo senza avere nessuno contro. Ma ricordiamoci sempre che la libertà di scelta è qualcosa che ti puoi godere fino a quando non distrugge, rovina o mette in difficoltà un’altra persona. Non può la libertà di uno danneggiare quella dell’altro.
Per me, la libertà è il rispetto, il sapere vivere con gli altri, la condivisione e la scelta di poter fare le cose. Anche se mi sono sempre sacrificata: tante volte ho detto ad esempio di no a delle proposte lavorative per amore della famiglia. Se è quella la tua priorità, ci sono casi in cui non ti puoi permettere di scegliere.
Ha cambiato il tuo diventare madre la tua percezione della genitorialità?
Il mio è un caso personale strana: sono diventata prima madre e poi figlia. Ho avuto mio figlio prima di vincere la causa che ha stabilito chi fosse mio padre. Detto ciò, la percezione del passaggio da figlia a madre la si ha nel momento in cui si diventa responsabile di un’altra creatura che devi crescere nel migliore dei modi. È un passaggio quasi automatico: non dico che ti annulli ma dai sicuramente la precedenza a quella creatura.
Hai citato la causa che ha inevitabilmente segnato gran parte della tua vita. Come ti sei sentita quando è finita? Non è stato un modo per affermare definitivamente la tua identità?
Allora tutti mi dicevano che dovevo essere contenta del risultato ma non era così. È durata ventuno anni durante i quali mi hanno tolto tutto: non potevo essere felice… ho vinto, non mi hanno nemmeno chiesto scusa e mia madre è morta prima che tutto finisse e, quindi, no, non ero contenta. Con la vittoria, ho soltanto dimostrato che non eravamo dei bugiardi ma tutto il lavorio interiore non ha nulla a che vedere con qualcosa di terreno. L’identità, in quel senso, è qualcosa che serviva agli altri, io sapevo chi ero: l’identità ce l’avevo, erano gli altri che cercavano di togliermela o di cambiarmela. Ognuno di noi nasce con la propria identità, sa chi è: sono semmai li altri che mettono le pezze in faccia, che danno nomignoli o appiccicano appellativi.
E qual è la tua identità?
Devo ancora diventare tante cose: ogni giorno mi scopro, sono diversa e trovo qualcosa di nuovo o di vecchio da buttare. Dentro di me sono in continua evoluzione, non mi piace l’idea di fermarmi e di fossilizzarmi, ragione per cui sono in continuo movimento con la testa e per cui, se non c’è una novità all’orizzonte, me la invento: dentro di me devo trovare sempre qualcosa di nuovo da fare perché altrimenti vado in paranoia. Sto ad esempio già pensando al prossimo libro…
…perché in fondo scrivere è terapeutico.
Non c’è psicologo che ti aiuti quanto lo scrivere di te stesso: quando leggi quanto scritto, hai davanti ciò che sei e il tuo percorso, scopre aspetti di te che non conoscevi e che non pensavi ti appartenessero. Io ho scoperto ad esempio proprio scrivendo L’Alimentatore di essere un alimentatore di me stessa.
Non riesco a leggere più di tanto per via del DSA ma riesco a scrivere. E ho sempre scritto tanto, anche da ragazzina. Il mio primo libro, L’obbligo del silenzio, autobiografico, è frutto di tutti gli appunti che prendevo giornalmente. Il diario era il mio unico compagno ed è lì dentro che ho trovato tutto: segnavo gli orari, quello che facevo, cosa provavo e ciò che sentivo in ogni minimo particolare. Ed è da lì che sono partita per quel libro, un libro che iniziavo e che mettevo ogni volta da parte proprio perché tutte le volte che lo prendevo in mano era diverso da come lo sentivo: nel frattempo, crescevo, maturavo rancore e poi lo toglievo.
Ho lavorato molto sul rancore: mia madre mi ha insegnato a non avere rancore nei confronti né di mio padre né di nessuno perché il rancore logora. La ringrazierò tutta la vita per questo e per non essermi ammalata di fegato: ho amato e amo a prescindere.
In questo momento sei in tournée. Cosa ti restituisce il pubblico che viene a vederti cantare?
Mi da tantissimo perché io do tantissimo. Quando sto sul palco, non mi risparmio e automaticamente ricevo molto. Il pubblico è stato quello che mi ha sempre sostenuto, fondamentalmente: gli addetti ai lavori, invece, lasciamo perdere… Mi sono sempre ritrovata col pubblico, che non ha mai dubitato delle mie parole, non ha mai giudicato e non ha mai rotto le scatole perché comunque sapeva che ho sempre cercato di proteggere la figura di mio padre. Certo, se fosse stato vivo, sarebbe stata una bella guerra perché comunque avrebbe dovuto darmi delle risposte ma sono anche sicura che avremmo fatto tante cose insieme, che ci saremmo incontrati e che saremmo andati a mangiare la famosa pizza: il tempo, purtroppo, è l’unica cosa che non ci è concesso governare.
Cosa ti è mancato di più fino a oggi?
Una persona che mi abbia amato veramente al di là della mia famiglia. Tralasciando gli affetti, mi è mancato qualcuno che si prendesse cura di me nella maniera giusta. Ho sempre trovato gente che voleva appendere il cappello al chiodo e che spesso c’è riuscita anche. Sono talmente abituata a stare da sola che forse, in questo momento della mia vita, per me diventerebbe un impiccio trovare una persona a cui dover anche dare retta. Dovrebbe essere un amore folle ma quello, altro che sogno, è fantascienza pura (ride, ndr)…
Ci scherzo su ma la verità è che mi è mancato una persona che mi amasse a prescindere, così come ho amato io. In amore, mi sono sentita tradita, truffata, perché un amore, quando non è ricambiato o quando si finge di ricambiarlo, si chiama truffa. Non riesco a trovare un’altra parola: con le sue due “f”, la parola truffa ha un suono così doloroso che un’altra simile non riuscirei a scovarla.
Il dolore è anche non sentirsi compresi come la Alessia di Le note ballerine…
Io mi auguro che il romanzo porti un po’ di serenità a chi affronta il DSA. Che sia d’aiuto ai ragazzi che lo vivono in prima persona ma anche ai genitori che si trovano di fronte a una realtà inedita e ai docenti che, al di là dei molti preparati, pensano che sia solo un problema di svogliatezza.