Manuela Zero è la protagonista insieme a Maurizio Tesei del cortometraggio Cinquantadue che, diretto dall’esordiente Andrea Bernardini insieme a Sebastiano Casella con la direzione artistica di Tommaso Agnese, affronta un argomento delicato quanto mai urgente come la violenza contro le donne. Manuela Zero interpreta Adele, una giovane donna che si muove alla periferia sud di Roma, in un quartiere difficile fatto di caseggiati popolari e cieli grigi, un sottobosco ai margini della società. La convivenza con un uomo violento la porterà a prendere una decisione drammatica che non le permetterà più di tornare indietro.
La decisione che prende Adele, al centro di una storia drammatica di violenza di genere, ci pone tutti di fronte a un quesito: fino a che punto è lecito spingersi quando la disperazione prende il sopravvento? Adele trova una soluzione al buio che vive. Seppur paralizzata dalla paura, all’improvviso trova dentro di sé la forza necessaria a rompere il meccanismo che la tiene imprigionata.
Di Cinquantadue, di violenza di genere e di etichette abbiamo parlato direttamente con Manuela Zero. Nonostante non abbia mai vissuto una situazione simile alla sua Adele, Manuela Zero sa quante siano le pressioni che la nostra società, fin troppo maschilista, esercita sulle donne. Non è un caso, ad esempio, che molto spontaneamente ci dica di aver avuto nel suo lungo percorso di artista più problemi con gli uomini che con le donne.
In attesa di scoprire il progetto discografico, unico nel suo genere, che uscirà nel maggio del 2024, Manuela Zero si racconta sin da quando ragazzina ha cominciato a studiare teatro e ha mosso i primi passi verso quel cammino creativo che la vedrà, senza etichette alcune, muoversi dal canto al ballo, dalla televisione con Raffaella Carrà al cinema con Paolo Sorrentino, dal teatro alla serialità. Con coraggio, perché in molti hanno provato a farle fare una scelta che lei, invece, non ha mai voluto compiere.
Intervista esclusiva a Manuela Zero
“Interessante che tu chieda il pronome con il quale riferirti a me. Solitamente, non lo fa nessuno: per quanto non sia per le etichette, usa pure il femminile”, è la prima risposta che Manuela Zero mi dà all’inizio della nostra lunga conversazione.
Al Roma Indipendent Film Festival ti abbiamo vista protagonista del cortometraggio Cinquantadue, in cui interpreti Adele, una giovane vittima di violenze domestiche e al centro di una relazione con un uomo tossico (in tutti i sensi). Cosa ha suscitato in te calarti nei panni di una donna che vive una condizione così preoccupante?
Ho accettato sin da subito il progetto senza pormi molte domande. Da donna e da artista, volevo raccontare una storia così urgente ma ho sottovalutato ciò che comporta entrare nei panni di un personaggio come Adele e tutte le dinamiche che le ruotano intorno. Non ho mai vissuto una situazione come la sua e, quindi, è stato abbastanza impegnativo calarsi nella sua psiche e capirne gli stati d’animo. Lo è stato sia fisicamente sia psicologicamente: spero di essere riuscita a restituire in toto le sensazioni che si provano. Fa paura toccare con mano certe condizioni e rendersi conto che si tratta di realtà che, purtroppo, ancora oggi si vivono, totalmente nel buio. Ma sono felice di averlo fatto: mi piace nel mio percorso di artista poter raccontare storie vere e che trattano di argomenti importanti.
Per restituire certi stati d’animo mai vissuti bisogna inevitabilmente fare appello ai propri dolori.
Devi cercare dentro te stati d’animo che possano avvicinarsi a quelli reali. Ragione per cui occorre trovare anche degli appigli fisici. Abbiamo ad esempio provato in una stanza molto buia con pochissima luce per restituire la condizione di immobilità di Adele, che per fin troppo tempo è rimasta bloccata nel suo stesso corpo. Ho ricercato sì nei miei dolori ma non sono bastati: non ho mai vissuto una situazione così forte in cui sei in trappola e vittima di un’oppressione che ha a che fare con la morte e non di certo con la vita.
È questo il motivo per cui lo immaginata muoversi come se fosse sotto effetto di qualche sostanza alterante, di qualche psicofarmaco che la facesse sembrare quasi uno zombie, uno stato che viene maggiormente restituito sul finale. Tra l’altro, è una sensazione che mi sono portata dietro anche giorni dopo aver terminato le riprese, come se non volesse andare via.
Tra l’altro, Cinquantadue è uno dei progetti a cui hai preso parte che ti fa tornare a essere Manuela Zero e non più La Zero, come ti si conosceva in ambito musicale.
Sono nuovamente soltanto io, non c’è più alcun sdoppiamento. La Zero era stata un escamotage del mio agente, Francesco Facchinetti, per dividere il mio percorso da attrice da quello di cantante. Mi è però bastato poco per capire che non c’è bisogno di tale scissione: sono sempre io, qualsiasi cosa io faccia.
E hai fatto molto negli anni, da Domenica in con Pippo Baudo a Sanremo Giovani, passando per Forte forte forte con Raffaella Carrà.
È vero. Ci riflettevo qualche giorno fa. Mi sono trasferita da poco e nel rimettere in ordine le cose ho trovato una serie di Polaroid che avevo deciso di realizzare sulla mia vita, sulle mie amicizie e sulle persone per me importanti. A parte l’aver cambiato un centinaio di tagli di capelli, ho realizzato di aver fatto esperienze che nemmeno ricordavo e che, in qualche modo, mi hanno traghettata verso quel lavoro definitivo che vedrà la luce il prossimo anno. Si tratta di un progetto che mi rappresenta al massimo e che contiene tutte le mie sfumature d’artista, dalla recitazione al canto. Uscirà infatti un album a cui seguirà il mio primo spettacolo, uno show in cui sono da sola sul palco.
È facile essere un’artista a tutto tondo in Italia, un Paese dove si va avanti per etichette e categorie stagne?
Non lo è ma bisogna credere di poter abbattere le etichette: nonostante abbia fatto la showgirl a Domenica in, recito oggi nel cinema indipendente. È segno, quindi, che si può andare oltre le categorie. Negli Stati Uniti, un attore deve sapere recitare, cantare e ballare, mentre in Italia siamo rimasti indietro nel tempo, per cui se hai rappresentato il prototipo di donna appariscente che canta e che balla la domenica pomeriggio ti si precludono quasi le porte del cinema.
Il segreto per non rimanere intrappolati rimane sempre lo stesso: studiare e cercare di essere credibile come artista in tutto ciò che si fa. Ed è studiando che ho potuto vincere quegli stereotipi per cui, ad esempio, non avrei secondo molti mai recitato in un film di Sorrentino. Eppure, con Sorrentino ho poi recitato, in Loro. Ecco perché non vedo l’ora che esca il mio spettacolo, scritto da me e con musiche inedite, in cui mi cimenterò in tutto quello che so e che mi piace fare e in cui sarò io.
Hai sofferto per il pregiudizio?
Adesso non più, è come se la gente avesse capito realmente chi sono. Non sento più il peso addosso ma da giovanissima sì, avevo sempre bisogno di dimostrare chi fossi. Mi faceva soffrire lo scegliere tra una categoria e l’altra e non poter fluire liberamente e naturalmente in tutto ciò che ero io. Dopo aver fatto teatro, televisione, musica e cinema, ho smesso di fare una guerra che mi ha comunque tolto possibilità.
In Italia, non essere conforme alle regole genera diversità: la creatività fa molta paura per cui si cerca sempre qualcuno o qualcosa che sia uguale a ciò o a chi c’era prima di te. Per scrivere il mio nuovo progetto lavorativo come volevo io, mi sono dovuta rinchiudere in una villa sul Lago d’Iseo con i musicisti che volevo io e con le idee che avevo io: nessun produttore ci avrebbe investito nel sapere che volevo andare oltre le regole imposte.
E le regole, mi sa tanto, che non ti sono mai piaciute…
Tra sfera privata e sfera professionale, c’è una bella differenza. Per formarmi, mi sono attenuta alla regola dello studio, in cui credo fortemente. Ho studiato al San Carlo di Napoli e ne ho sposato le regole ferree, quelle che insegnano veramente cosa sia questo mestiere: è solo quando ne conosci i punti fermi che puoi destrutturarli per creare qualcosa di nuovo. Tutto ciò a cui sto lavorando in questo periodo parte da questo presupposto: attingo al mio bagaglio, distruggo le regole e le ricompongo a modo mio.
Negli ultimi anni vige quasi l’idea per cui chiunque, senza studio, possa cimentarsi con l’arte: va bene il talento ma esistono anche delle basi fondamentali che, come un mare impazzito, sei chiamato a infrangere in nome della creatività stessa. Per rimanere in ambito musicale, è incredibile come ci ritrovi spesso ad avere a che fare con produttori o anche artisti che non sanno nemmeno chi è Battisti, ad esempio.
Cinquantadue: Le foto del film
1 / 4Il progetto a cui stai lavorando è un audiofilm vero e proprio, a cui seguirà dopo lo spettacolo teatrale. Ti ha richiesto molto tempo, oltre tre anni e mezzo. Non ti ha allontanata dal cinema?
No, perché comunque ho scritto tanta musica nel periodo in cui non ho fatto cinema, non solo per me ma anche per altri artisti. Avevo bisogno di ritrovare la mia penna, la mia strada e la mia storia. E un grazie particolare va a Niccolò Fabi, che in un certo periodo della mia vita mi ha fatto capire molto. Mi sono allontanata per un po’ io dal cinema perché avevo bisogno di raccontare qualcosa di veramente mio. Solo dopo esserci riuscita, sono tornata alla recitazione con due progetti molto diversi, un film per il cinema di cui non posso ancora dire nulla, e una serie per Canale 5, diretta da Ricky Tognazzi e Simona Izzo, Se potessi dirti addio, con Gabriel Garko e Anna Safroncik.
Ovviamente, negli anni sei cresciuta molto come donna. Ti avvicini alla soglia dei quarant’anni. Reputi di aver raggiunto la maturità?
Mi sono resa conto di essere una donna adulta quando ho dovuto accettare il fatto che c’era qualcuno della mia famiglia che stava male, quando mi sono dovuta preoccupare di qualcosa di importante che andava a toccare i miei valori più profondi. Mi sono sentita adulta quando ho dovuto confrontarmi con la potenziale perdita di qualcuno a cui voglio bene. Professionalmente, mi sento invece adulta oggi: sono perfettamente a mio agio quando in passato non è stato così, accettando compromessi tra ciò che sono e ciò che facevo. Mi fa sentire adulta il sentirmi al posto giusto e il raccontare ciò che mi piace e mi fa vibrare.
Sto vivendo, grazie a Dio, una fase lavorativa felice in cui mi sembra di vedere la me bambina che mi osserva e sorride. Ho avuto parecchie difficoltà a portare avanti le mie idee, la mia creatività e anche la mia dignità, in un ambiente in cui non sempre le persone sono così come appaio e spesso mostrano una facciata diversa da quella reale. Hanno provato a cambiarmi ma vengo da Sorrento: non sono disposta a sorridere per finta. Ho preferito allora fare un passo indietro per poi poter farne uno in avanti, come oggi.
Ed è stato un piacere l’attesa, tanto per giocare con il titolo dello spettacolo teatrale che ti ha vista di recente protagonista al fianco di Michele La Ginestra?
L’attesa mi ha permesso di far pace con la rabbia che avevo accumulato negli anni. Scrivere mi è servito anche a smaltirla ma non è stato semplice, soprattutto quando ti rendi conto che il sogno da te tanto inseguito ti ha mostrato un’altra faccia, diversa da quella che pensavi.
Cresciuta a Sorrento, che bambina sei stata?
Sempre in fervore. Sono figlia di un padre che ha svolto anche sette lavori differenti per permettermi di dare ciò che volevo e di una madre che si è dovuta impegnare al massimo. Provengo da una famiglia che è sempre stata abituata a lottare per i propri sogni. Sono stata una bambina che doveva correre e impegnarsi più degli altri per agguantare i propri obiettivi ma che non ha mai perso la voglia di sognare. In paese, erano in pochi a credere in me ma i miei genitori mi hanno dato la possibilità di andare avanti, con grandissimi sacrifici e con un esempio di amore vero che va avanti da oltre quarant’anni.
Lo ricordavamo prima: hai lavorato con Raffaella Carrà in uno dei suoi ultimi show in prima serata su Rai 1. Cosa ti ha insegnato stare al suo fianco?
Avevo con Raffaella Carrà un bellissimo rapporto personale di cui non ho mai voluto parlare: non mi andava di finire nel calderone di coloro che parlano di una persona quando questa non c’è più. Raffaella mi ha regalato tantissimo: l’ho conosciuta da piccolissima per un altro programma ed è stata lei a chiamarmi per Forte forte forte, show che ha consolidato il nostro legame. Mi ha insegnato a non puntare sulla bellezza ma sull’ironia, su quella leggerezza fondamentale per riuscire a sopravvivere.
E mi ha insegnato cosa sia la gratitudine, una caratteristica che manca in quest’ambiente, oltre al fatto che non sempre Eva sia contro Eva. Di mio, non lo sarebbe mai: tendo per carattere a collaborare con tutti, sono abbastanza atipica da questo punto di vista. Anzi, mi verrebbe da aggiungere che è con gli uomini che ho avuto le esperienze più difficili e non con le donne: mai provata gelosia per le altre e mai vissuta sulla mia pelle. Ho visto grandi donne aiutarmi nella mia carriera mentre ho visto uomini tenere atteggiamenti misogini.