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Marcello Cesena: “Il mio luogo sicuro” – Intervista esclusiva

marcello cesena
The Wom incontra oggi Marcello Cesena, regista, attore, sceneggiatore, comico e ora scrittore che si cela dietro Jean-Claude, il mitico protagonista di Sensibilità a corte. Al suo esordio letterario, si sottopone a un gioco inedito in cui il suo primo romanzo, Un luogo sicuro, fa da tramite per entrare nella sua vita.
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Nel parlare con Marcello Cesena non puoi fare a meno che pensare a Jean-Claude, l’incredibile personaggio che è nato dalla sua penna e alle disavventure con Madre nella mitica Sensualità a corte (i nuovi appuntamenti del GialappaShow sono previsti ad aprile su Tv8). Nel ridere di fronte al suo disparato ma pur sempre ingenuo “Madre” non si può non riflettere su come un personaggio nato vent’anni fa sia stato in grado di accompagnare l’evoluzione del costume italiano ma, soprattutto, di anticipare tematiche che sarebbero nel tempo diventate di importante discussione pubblica.

“Quando scrivevo le sceneggiature e le proponevo, mi guadavano tutti sbigottiti. E invece ha funzionato”, mi risponde Marcello Cesena quando brevemente mi complimento con lui per l’avanguardia di un personaggio che ancora oggi non smette di stupirci. Ma la nostra conversazione cambia subito binari: l’obiettivo di chi scrive è di non fargli parlare quasi mai di Jean-Claude o di realizzare come spesso accade un coccodrillo in vita, ripercorrendo passo dopo passo quella sua carriera di attore, regista, sceneggiatore, comico e imitatore, che lo ha reso famoso.

Lo scopo è più ambizioso: prendere Un luogo sicuro, il primo romanzo che Marcello Cesena ha pubblicato per Sperling & Kupfer, e traslarlo nella sua vita privata. Del resto, che sia nato a Genova, che abbia abbandonato la facoltà di Architettura per studiare al Teatro Stabile di Genova e che abbia esordito al cinema grazie a Pupi Avati è cosa nota: basta aprire la pagina Wikipedia a lui dedicata per scorrere l’elenco della sua sfera professionale.

Ciò che è più interessante, per me, è l’uomo che si cela dietro l’artista, il Marcello Cesena di tutti i giorni e nella propria zona comfort, la stessa che scoprirò avere un risvolto per lui del tutto particolare. Per giocare a carte scoperte, dobbiamo però partire dalla trama di Un luogo sicuro, un affascinante thriller dell’anima di cui sono protagoniste due donne: Geneviéve e Azadeh. La prima è una nota regista e sceneggiatrice, dura, istintiva, intransigente con se stessa e pasionaria. La seconda, invece, è una giovane profuga fuggita dagli orrori in guerra con il suo bambino, Adam.

Si incontrano per caso in un cimitero. Hanno percorsi ed esperienze diverse alle spalle, eppure qualcosa agli occhi di Geneviéve la accomuna a lei: la storia che si porta dietro e che, secondo il suo intuito, merita di essere raccontata. Negli occhi della giovane c’è una disperazione che non essere solo legata alla perdita del marito: e il suo fiuto non sbaglia. Azadeh con il suo passato diventerà il soggetto del suo prossimo film ma, affinché sia così, deve conoscere meglio i dettagli di un passato che fa male e che può destabilizzare. Decide allora Geneviéve e suo figlio Adam in casa sua mentre la Francia è ancora segnata dagli attacchi di matrice terroristica.

Marcello Cesena.
Marcello Cesena.

Intervista esclusiva a Marcello Cesena

“Non ci ho pensato mai, però ha un senso”, controbatte Marcello Cesena quando, immaginando il suo romanzo Un luogo sicuro come un film, gli propongo il nome di Jasmine Trinca per il personaggio di Azadeh, la giovane rifugiata su cui la regista Geneviéve (per cui immagina invece Isabelle Huppert), al centro della trama, vorrebbe incentrare la sua prossima fatica cinematografica. “In verità, ho sempre pensato a un’attrice iraniana naturalizzata francese dal nome impronunciabile, Golsfifteh Farahani: anche se ormai non avrebbe più l’età del personaggio, la amo tantissimo”.

Da dove nasce l’esigenza di scrivere un romanzo e di intitolarlo Un luogo sicuro?

Il mio afflato artistico mi ha sempre portato a raccontare storie e, spesso, anche gli sketch di cui sono protagonista sono molto narrativi. Per una volta, avevo il desiderio di non lasciare mediare dal mezzo, dal filtro cinematografico o da quello televisivo, una mia storia e di arrivare direttamente al pubblico senza quegli intermediari che possono essere un produttore, le riprese o gli attori stessi: solitamente, prima che le storie arrivino agli spettatori, se ne perde la padronanza e al pubblico arriva qualcosa di diverso da quello che erano inizialmente. Con un libro, ho scoperto che ciò non avviene: scrivere è come parlare direttamente all’orecchio del potenziale lettore.

Il romanzo nasce dunque dal mio desiderio di sperimentare un rapporto più diretto con il pubblico. Dal momento che con la scrittura ho da sempre una certa confidenza, più che un’esigenza a spingermi a scrivere è stata la curiosità di vedere cosa succedeva.

Il titolo è stato scelto da me e, non come solitamente accade, dall’editore. Ed è legato al momento in cui l’ho scritto: era il 2015, vivevo a Parigi e l’attacco terroristico al Bataclan restituiva in quel periodo a tutti quanti gli abitanti della città la sensazione di essere in pericolo. Una sensazione che ancora oggi io conservo: c’è persino un’app attraverso cui la gendarmeria diffonde un allarme su eventuali attentati in modo da trovare rifugio, appunto, in “un luogo sicuro”, un posto al di là della propria abitazione. Parigi è una città in cui tutto ti viene in mente meno di stare a casa e la domanda che spontaneamente nasceva e nasce è “esiste un luogo sicuro in cui posso andare a fare una passeggiata o una chiacchierata senza essere in pericolo?”.

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Il luogo sicuro è anche una comfort zone, metaforicamente, dalla quale non vorremmo mai allontanarci. Qual è il luogo sicuro in tal senso di Marcello Cesena?

D’istinto, sono una persona molto pigra: pensare di cominciare un film o un lavoro complicato mi mette leggermente in ansia. Se fosse per il mio istinto, la mia comfort zone sarebbe farmi i fatti miei in casa mia, senza infilarmi in situazioni in cui devo essere responsabile di qualcosa. Eppure, mi caccio continuamente in tali situazioni: potrei fare ad esempio semplicemente l’attore in uno studio televisivo, tornare a casa la sera, rilassarmi e vedere cosa va in onda in tv ma non ci riesco… Alla recitazione, da sempre affianco la regia o la sceneggiatura, creandomi da solo dei casini, andando in antitesi a ciò che ritengo la mia comfort zone e finendo con il non frequentarla mai.

Non saresti un vergine, altrimenti.

Esatto. Non volevo tirare in ballo l’astrologia ma i vergine non solo si gettano a capofitto in situazioni complicatissime solo per vedere cosa succede ma pretendono anche che tutto vada secondo i loro piani. Non credo molto allo zodiaco ma è incredibile con quanta accuratezza chirurgica venga spiegato il mio segno.

Geneviéve, la protagonista di Un luogo sicuro, è una regista, una professione sicuramente non scelta a caso: all’interno della storia, sono presenti diverse pagine del lavoro che fa sulla storia di Azadeh, un espediente che rasenta il soggetto cinematografico. Hai pensato al romanzo come a una sceneggiatura?

Assolutamente sì, tanto che per ritornare al discorso che facevamo all’inizio non mi dispiacerebbe trarne un film: è uno di quei progetti nel cassetto che mi allontanerebbero dalla mia comfort zone! La sceneggiatura è una scrittura tecnica che ha in sé il senso della storia che sarà poi sviluppata attraverso gli attori ma che in sé contiene anche tutti gli elementi visivi necessari al racconto. Un romanzo è meno tecnico ma è molto più figo!

All’inizio della storia, Geneviéve ha appena scritto un libro dal titolo “Niente rimpianti”. Niente rimpianti anche per Marcello Cesena?

Non so se ci sono significati reconditi in quel titolo, non ci ho mai riflettuto. L’idea di quel libro nel libro nasceva da qualcosa che non mi piace e che vedo spopolare ultimamente: i libri scritti su commissione da altri ma firmati da nomi altisonanti. Anche a me in passato è stato chiesto di scrivere un libro su Jean-Claude, volevano due paginette da cui poi il resto si sarebbe scritto da “solo”. Ovviamente, ho detto no. Un episodio simile avvenne anche anni fa, con il mio primo film: una sera incontrai a teatro una persona che mi riconobbe e che mi disse che gli avevano appena commissionato un buon romanzo tratto dalla mia sceneggiatura… feci causa al produttore e il romanzo non uscì mai.

Odio questo mercato di finte verità, che falsano anche il senso di arrivare a scrivere un libro. Sarà che ho una mia visione poetica della scrittura ma per me il libro non dovrebbe essere un prodotto di mercato che, al pari di uno cosmetico, punta sul testimonial famoso. In più, sono contento che il mio romanzo sia uscito indenne dal passaggio con gli editor di Sperling & Kupfer: avevo il terrore di cosa potesse capitargli o dei tagli ma invece nulla. Almeno così, pur non se potesse funzionare o meno ciò che ho scritto, ho perlomeno la consapevolezza che quel qualcosa sia veramente mio.

Marcello Cesena.
Marcello Cesena.

Nella prima parte di Un luogo sicuro, Geneviéve ripercorre anche il suo rapporto con la madre Edith, fatto di odio e di amore contemporaneamente. Anche Jean-Claude, il tuo personaggio più iconico, si confronta costantemente con una madre che definire poco amorevole è un eufemismo. C’è qualcosa di irrisolto delle relazioni madre-figlio che vuoi forse dirci?

Mia madre è a tre metri da me, è venuta a stare a casa mia a Roma per un mese e ogni tanto mi chiede cosa scrivo sui personaggi materni. Le rispondo ovviamente che non sono ispirati a lei, che non è come le madri che racconto. Al di là della violenza della madre di Jean-Claude, c’è sempre dietro la volontà di raccontare come una madre possa condizionare la vita di un figlio pur non essendo violenta.

Mia madre, ad esempio, è colei che non si è mai opposta quando da ragazzo le ho comunicato il desiderio di voler studiare recitazione al Teatro Stabile di Genova, non mi ha mai detto di non mollare l’università e che non sarei mai stato felice con questo lavoro. Se ci riflettiamo, è stato il suo un modo tutt’altro che violento di condizionare (tra l’altro, in bene) la mia vita. Se non l’avesse fatto, magari oggi sarei un architetto, per dire.

Di conseguenza, credo che la mia voglia di raccontare legami tra madri e figli nasca dall’esperienza personale, anche se la mia non è così negativa come quella dei miei personaggi. L’influenza dei nostri genitori ha un peso enorme su noi stessi e chi siamo: lo capiamo solo con il passare degli anni. A me è successo di recente: nel rivedere e pensare a determinate cose che mi sono accadute, a certi miei punti di vista e a determinati periodi della mia vita, mi sono reso conto di quanto impatto abbia avuto la personalità di mia madre rispetto a quella di mio padre (pur adorando entrambi). Il personaggio di Edith è quindi in qualche modo ricucinato e tramutato dalla mia esperienza autobiografica. Per fortuna, adesso non mi sente, è in cucina: non facciamole leggere quest’intervista (ride, ndr).

È alla madre Edith che Geneviéve deve uno degli insegnamenti della sua vita di matrice cattolica: “se stai bene oggi, significherà che starai male domani”. Ci credi anche tu?

È un imprinting etico per cui si lavora per liberarsi dal timore di quello che può avvenire dopo il momento in cui siamo estremamente felici: è un insegnamento che ci è stato impartito non solo dalle madri. Se pensiamo al cinema, è tipico dei film: un incidente avviene sempre dopo che i due protagonisti sono in macchina a ridere spensierati. Segna tutti noi e in parte è anche autobiografico.

Tuttavia, la madre di Geneviéve da giovane non era quella che è diventata da adulta: lasciava le figlie in totale libertà perché presa da mille fattori esterni… quando questi non sono stati più una sua preoccupazione, si è rivolta verso le figlie, ha concentrato su di loro le sue attenzioni e ha cominciato a essere oppressiva. Non è raro che i genitori, una volta ritiratisi dai problemi di lavoro o della vita sociale, comincino a concentrarsi sui figli. E spesso non è un bene.

La relazione tra artista e musa che si crea tra Geneviéve e Azadeh ha un contraccolpo durissimo subito dopo il Natale. Qualcosa contro l’atmosfera gioiosa e spesso fastidiosa del Natale?

Non ho riflettuto sulle implicazioni del Natale. Ho scelto quel periodo dell’anno perché era il primo Natale che Geneviéve viveva con un bambino in casa: quella presenza aveva cambiato il suo status quo e l’ordine delle cose: abituata a stare senza figli, lo vive in un clima diverso rispetto al passato. Di mio, invece, il Natale è una festa che detesto: è la più piena di promesse e buoni propositi che non vengono mantenuti.

Il Natale ha ormai un senso solo se hai dei bambini in casa e Geneviéve lo sperimenta con il piccolo Adam. Quel momento dell’anno è stato per me un espediente per raccontare l’attaccamento che lei prova verso quel bambino, indispensabile poi per comprendere il finale del romanzo.

Con Adam, Geneviéve riscopre quell’istinto materno a lungo sopito. Un figlio è un figlio anche se non ti appartiene e l’istinto genitoriale non conosce distinzione di genere. Ti appartiene?

Adoro i bambini ma non mi sento un padre mancato. Mai dire mai ma sinceramente non sento un vuoto nella mia vita. Comprendo però l’attaccamento della mia protagonista: nell’economia della storia era necessario. Tra Geneviéve e Azadeh non avrebbe mai potuto nascere un attaccamento diretto, sarebbe stato sbagliato oltre che impossibile. Di base, Azadeh rimane una figura enigmatica e molto sospesa di cui non ci si può innamorare in senso affettivo. Occorreva dunque un trait d’union per creare un legame tra le due donne e l’ho trovato in Adam.

“Un figlio è un figlio anche se non ti appartiene” è un’implicazione che do per scontata: non ci sarebbe nemmeno bisogno di rimarcarlo in un mondo civile che non fa differenza tra genitori, biologici o meno che siano.

Marcello Cesena.
Marcello Cesena.

Azadeh significa “libera”. Ma lei è tutt’altro che libera…

Nel suo nome, sta tutta la contraddizione nella sua vita e il suo stesso fallimento come donna e madre. Quando legge la sceneggiatura di Geneviéve dice “no” al film che potrebbe trarne proprio perché racconterebbe agli occhi di Adam il fallimento del suo progetto di vita. Nel costruire la sua storia ho riportato una delle domande che mi sono spesso posto io dopo l’attentato al Bataclan: quale storia si cela dietro a una persona che sceglie di trasformarsi in un’arma, come è accaduto a Parigi, per uccidere altre persone? È una scelta libera o è il frutto di un fallimento? Non è forse la risposta sprezzante all’aver visto andare in frantumi il proprio progetto di vita?

E tu ti senti libero?

Quello di libertà non è un concetto assoluto. Non cerco come fanno in molti di sovvertire le regole, forse anche per via della mia provenienza borghese. Per rispondere alla domanda, io mi sento libero di poter intraprendere i percorsi che voglio, anche andando contro il mio stesso istinto. La mia vita è legata per buona parte al mio lavoro (non so se è bello o brutto dirlo), un lavoro in cui ci si può non sentire per niente liberi perché si dipende sempre da chi ci sceglie, da chi ci dirige o dai produttori. Nonostante ciò, ho sempre fatto quello che ho voluto e ciò che mi rispecchiava: una roba che non è affatto scontata e di cui sono abbastanza felice. Mi sono sempre messo in condizioni di essere l’artefice responsabile di quello che facevo, evitando di dover dipendere dai diktat di altre persone.

Un luogo sicuro si apre con una dedica: Ad Ale che mi legge ad alta voce.

Ale è mio marito, non è un mistero, e legge ad alta voce ciò che scrivo! Quando ho iniziato a scrivere il libro, per evitare di cadere nel tranello dell’abitudine della musica di ciò che hai scritto e che te lo fa sembrare sempre giusto, ho chiesto ad Ale di leggere quello che giornalmente producevo. La regola era che la sera o, meglio, quando smettevo di scrivere (non ho orari) venisse a leggermi ad alta voce quello che avevo prodotto affinché io capissi se funzionasse o se fosse armonico.

Si è rivelato un processo anche un po’ inquietante: non pensi mai di star scrivendo qualcosa che ti corrisponda ma, quando lo senti letto, ti rendi conto di come tra le parole riecheggino delle ritualità che ti appartengono e che hai riportato nella scrittura. Molto banalmente, la scrittura è come una seduta di psicanalisi.

Tu e Ale vi siete sposati in piena pandemia, in un’atmosfera in cui sembrava di essere sospesi tra la realtà e un sogno.

Una roba assurda. Avevamo preparato il matrimonio del secolo. Pur non volendolo né io né lui, ci siamo ritrovati con un’organizzazione che era tale, con una wedding planner a chiederci se volessimo i tavoli rivestiti di azzurro e tanti altri aspetti che ci facevano pensare di stare per scivolare verso un film dell’orrore. Poi, “per fortuna”, è arrivata la pandemia per cui hanno chiuso tutto… al matrimonio, eravamo io, Ale e i nostri due testimoni di nozze sullo sfondo di una Roma non vuota ma di più.

Quando ripenso a quella giornata non riesco a non farlo come a qualcosa di reale che ho vissuto: ci penso come a un film che ho visto di cui ero protagonista. Ci siamo sposati in Campidoglio nel più totale silenzio e, dopo la cerimonia, siamo rientrati a casa. Ed è lì, nella piazzetta sotto la nostra abitazione, che ci attendavano i nostri vicini: a nostra insaputa, avevano organizzato un’accoglienza altrettanto surreale. Devo guardare la vera al dito per capire che è stato tutto vero.

Cosa significa per te quella fede al dito?

Un progetto di vita andato a buon fine. Prima di sposarci, siamo stati insieme quindici anni e il matrimonio ha dato un nome a ciò che stavamo vivendo: so che suona mielosa in modo insopportabile come risposta ma è la verità. La fede al dito indica che non è stato il nostro un rapporto di passaggio, uno di quelli secondo me sempre un po’ frustranti e destinati a finire… è il simbolo di un progetto che abbiamo timbrato e che non sarà mai passeggero nelle nostre vite. Non rappresenta il bisogno di etichettare un qualcosa: è semplicemente un guardarsi in faccia e dirci che tutto ha avuto e ha un senso.

C’è qualcosa che avessi voluto che ti chiedessi e che invece non ho fatto?

Non ho mai fatto un’intervista così intima in vita mai. Mancano solo le mie misure sessuali (ride, ndr).

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