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Marco Bonadei: “Vivo di passioni trasformate in ossessioni” – Intervista esclusiva all’attore

Reduce dal successo del secondo capitolo di Diabolik, Marco Bonadei sta per tornare a teatro con Nel guscio, in cui interpreta un feto di nove mesi all’interno dell’utero materno alle prese con una rilettura della tragedia di Amleto. Lo abbiamo intervistato in esclusiva.
Nell'articolo:

Stiamo vedendo Marco Bonadei in questi giorni al cinema nel film dei fratelli Manetti Diabolik – Ginko all’attacco!, in cui interpreta l’agente Urban. Un ruolo che dimostra ancora una volta che non esistono piccoli ruoli per grandi attori quando anche per pochi minuti in scena si mette tutto se stesso al servizio del film.

E Marco Bonadei si è sempre messo al servizio di ciò che fa. La passione per la recitazione in lui nasce da adolescente quando tutti intorno a lui si son resi conto del talento innato che aveva nel calcare le scene. Ed è intorno alla parola passione che finisce per ruotare quest’intervista esclusiva che Marco Bonadei ci ha concesso in attesa di ritornare al Teatro dell’Elfo con lo spettacolo Nel guscio, tratto dal testo di Ian McEwan e con la regia di Cristina Crippa (dal 9 al 22 dicembre). Per lui, le passioni sono destinate a trasformarsi in ossessione. E non sempre l’ossessione ha una valenza negativa.

Reduce dal successo di Comedians, del programma tv FuoriTema con Ale e Franz e dello spettacolo Alla greca, Marco Bonadei tornerà al cinema il prossimo anno con Il ritorno di Casanova, il nuovo atteso film di Gabriele Salvatores con Toni Servillo protagonista. Perché Marco Bonadei non sa stare fermo, tanto che non lo è stato nemmeno durante i lockdown da CoVid come lo stesso ci racconta.

Marco Bonadei.
Marco Bonadei.

Intervista esclusiva a Marco Bonadei

Sei reduce da Alla greca e ti appresti a portare a teatro Nel guscio, spettacoli che hanno anche una forte connotazione femminile.

Già. Sono due spettacoli in cui si inneggia al femminile da diversi punti di vista. E in nessuno dei due in maniera piacente e ossequiosa o, comunque, senza alcuna forma di perbenismo e senza strizzare l’occhio al politically correct che oggi impera. Anche se in modo piuttosto ardito o come in Alla greca violento, il nostro intento è quello di elevare la donna quasi a forma divina, almeno nella sua accezione più antica: generatrice, utero dell’umanità e culla della nostra civiltà.

Prima di addentrarci nei due spettacoli che offrono interessanti spunti di riflessione, apriamo una piccola parentesi cinematografica. Ti stiamo vedendo in sala nei panni dell’agente Urban in Diabolik – Ginko all’attacco!. Hai girato il film con i fratelli Manetti quando eri reduce dalle riprese di Il ritorno di Casanova, il nuovo film di Gabriele Salvatores che vedremo il prossimo anno. Com’è stato il cambio di atmosfere?

Notevole. Ma semplicemente perché già conoscevo Salvatores: avevo girato con lui Comedians e, quindi, era un po’ come stare a casa. Salvatores ha l’abitudine di portarsi dietro sempre gli stessi collaboratori creando un gruppo di lavoro che è come una famiglia. Ritrovarsi su un suo set con gente che conosci e con cui si hanno anche legami d’affetto crea una bellissima energia: è meraviglioso.

Il mondo dei Mainetti, invece, era nuovo per me. Ed ero particolarmente curioso di lavorare con loro e mi sono trovato particolarmente bene. Essendo fratelli, sui loro set c’è ovviamente una dimensione familiare ma ciò che più mi ha colpito è il percepire ancora una certa artigianalità nel lavoro del cinema. In più, ci si sente protetti sui loro set. Loro sono abituati a spartirsi i compiti benché collaborino su tutto ma stanno sempre fianco a fianco agli attori: in qualche modo, è come se li coinvolgessero maggiormente nel processo creativo. Ti senti come in mezzo a loro due.

Entrambe le esperienze mi sottolineano ancora una volta ciò in cui credo: nel lavoro artistico c’è ancora bisogno di ancore e ancoraggi umani per costruire qualcosa insieme.

Marco Bonadei nel film Diabolik - Ginko all'attacco!.
Marco Bonadei nel film Diabolik - Ginko all'attacco!.

Con un volo pindarico, anche tu hai scelto di lavorare a fianco di una persona che conosci molto bene.

Da sempre, se mi autoanalizzo, ho la tendenza a lavorare con persone che conosco molto bene o a conoscere molto bene le persone con cui lavoro o con cui intendo portare avanti collaborazioni artistiche. Sento l’esigenza – e penso sia corretto – di lavorare alla costruzione artistica con l’altro. Chi fa arte, lavora con l’umano e, quindi, lavora con se stesso ma anche con gli altri.

Da anni oramai, collaboro con la mia compagna, la danzatrice e coreografa Chiara Ameglio. Abbiamo cominciato anni fa con Trieb_L’indagine, un lavoro di prosa e danza, e abbiamo continuato a farlo. Da marzo 2023, saremo in scena con Apple Banana, un monologo molto divertente che si occupa di temi come la scelta e l’evoluzione. Al centro ci sarà un uomo che non si sente del tutto tale o una scimmia che invece si sente più evoluta del resto dell’umanità.

E tu quando hai scelto chi eri come artista?

Un po’ è capitato. Frequentavo le scuole medie. Non ero un ragazzino iper brillante, non avevo alcuna peculiarità. Pareva però che fossi bravo sul palcoscenico. Da lì, una cosa tira l’altra: il piacere di recitare e i risultati che ottenevo man mano nel farlo mi hanno spinto a seguire quella strada. Qualcosa che mi piaceva è diventata una passione. E da una passione è diventata un’ossessione.

Un’ossessione non è necessariamente qualcosa di negativo. Non è sempre quella grossa nube che si addensa sopra le nostre teste: può rivelarsi anche l’apertura verso un orizzonte più chiaro e limpido.

Vivo di ossessioni, nel senso buono del termine. Se c’è qualcosa che mi appassiona, la trasformo molto facilmente in un motivo di vita, in una meta da raggiungere a tutti i costi.

Era quasi deducibile da tutte le skills che ti caratterizzano: fitness, nuoto, sollevamento pesi, scherma…

Non tutte le discipline sono state affrontate in maniera professionale o agonistica. Alcune sono diventate semplicemente passione o ritualità. Oltre a passione e ossessione, c’è un’altra parola di cui ho bisogno nella mia vita: ritualità. Ho bisogno di auto ritualizzare alcune pratiche, come ad esempio l’attività sportiva. Faccio un lavoro che di regolarità e di costanza ne ha ben poca: noi artisti siamo sballottati a destra e sinistra e abbiamo momenti di frenesia lavorativa e altri di vuoto, per nulla concordi con quelli che sono i ritmi del resto della società.

La regolarità mi serve a soppesare tutta quest’irregolarità dell’anima e dello spirito. La pratica giornaliera di alcune attività mi porta a soppesare le mie energie, a darmi degli obiettivi e a portarli fino in fondo.

Ma non ti è venuto a mancare questo bisogno di regolarità nel momento in cui tutti abbiamo dovuto fermarci a causa del CoVid?

Sono stato molto fortunato. Ho sempre un’infinità di cose da fare. Al di là dei miei allenamenti, che sono stati diventati ovviamente indoor, ho dato spazio alla formazione artistica figurativa che ho alle spalle. Realizzo sculture e in quel periodo ho lavorato molto su alcuni volti, su delle maschere, usando creta, gesso, argilla… certo, l’ambiente casalingo non è il luogo migliore per lavorare con certi materiali ma, quando si è chiusi in quarantena, c’è tutto il tempo che vuoi per far le cose rispetto a quando la vita di tutti i giorni è piena di lavoro e di impegni. È stato per certi versi meraviglioso: sarebbe stato difficile altrimenti dedicarsi appieno a passioni che prevedono un ritmo della vita molto disteso.

Inoltre, mi sono dedicato come tutti alla cucina: ci siamo specializzati in tantissimi piatti che oggi rendono felici i nostri partner!

È una passione che hai scoperto in quel frangente? In cosa ti sei specializzato?

No, la passione per la cucina c’è sempre stata. C’è una lunga tradizione di attori che sono anche dei bravi cuochi: basti pensare che Ugo Tognazzi era anche un genio della cucina. Sono diventato bravissimo a fare la pizza. Preparo una pizza napoletana come Dio comanda!

Tuttavia, in quel periodo non ti sei fermato con il lavoro.

Collaboro da tempo oramai con il Teatro dell’Elfo. Loro hanno fatto una scelta aziendale molto importante: continuare a produrre, nonostante il rischio economico a cui potevano andare incontro. Nel rispetto di tutte le norme vigenti, abbiamo realizzato Moby Dick alla prova di Orson Wells ma anche Nel guscio, con cui debutteremo ora a gennaio. Ci siamo portati avanti con quel lavoro per non correre il rischio di tenere poi chiuse le sale nel momento in cui si sarebbero riaperti i teatri. Così facendo, quando si sarebbe potuto incontrare nuovamente il pubblico, avremmo avuto già un prodotto pronto da portare in scena.

Il CoVid, quindi, mi ha dato la possibilità di rimanere attivo per la maggior parte del tempo e di lavorare, anzi, con molta più calma e molta più pace. In più, oltre a lavorare a teatro, ho avuto la possibilità di collaborare con Gabriele Salvatores in Comedians e di arrivare in televisione con Ale e Franz. Rispetto ad altri colleghi, per me è stato più facile di quanto sperassi superare quel periodo duro per tutta la categoria.

Marco Bonadei nel film Comedians.
Marco Bonadei nel film Comedians.

Un’altra tua grande passione è il biliardo. È talmente grande da inserirla anche nel tuo curriculum definendoti “esperto”.

A proposito di ossessioni, quella per il biliardo è andata avanti per diverso tempo. Per anni, ho giocato a carambola, a biliardo, a palla 8 o a palla 9. Ero proprio “infognato”. Credo che tutto sia nato dall’aver visto durante il primo anno di Accademia a Torino, nel 2006, Lo spaccone, il film con Paul Newman. L’ho abbondato da un po’ di tempo ma sono sempre pronto a riprendere la stecca in mano, senza problemi.

Ultimamente, però, l’ossessione del biliardo è stata surclassata da quella per gli scacchi. Non mi aveva mai preso prima, mi chiedevo come fosse possibile appassionarsi a quel gioco… mentre oggi sono un accumulatore seriale di scacchiere, volumi e manuali sul gioco. Mi sono anche iscritto ai tornei online ed è bellissimo. Anche il solo pensare che ci siano più possibilità di movimento sulla scacchiera che molecole nell’universo mi fa già esaltare! Come vedi, approvo tutte le mie ossessioni ma anche le conseguenze delle stesse…

E la tua compagna è contenta delle tue ossessioni? Provenendo dal mondo della danza, non ha una mentalità un po’ più rigida della tua?

Mi prende in giro, giustamente. Quella della mentalità rigida è un falso mito. Forse tra i due sono io quello che è un po’ più rigido. Mi piace molto la regola. In qualche modo, si collega alla regolarità di cui parlavamo prima. Al di là della ritualità, ho bisogno di schematizzare le cose.

Quindi, per te, quest’intervista è fuori dalla tua comfort zone?

No, non è rigida, è piacevolissima e morbida, ma rientra all’interno di uno schema. Rientra nella ritualità di questo momento.

Marco Bonadei.
Marco Bonadei.

Com’è stato per te da bambino crescere a Genova?

Non sono cresciuto in città ma in una zona un po’ più decentrata. Vengo dalla campagna: stavo in mezzo alle colline, a mezz’ora d’auto dal centro della città. A Genova, città di mare, ho frequentato le scuole, ho vissuto sia la mia infanzia sia la mia adolescenza, andavo con gli amici (soprattutto in centro storico) … ma poi tornavo in un’altra Genova, quella sui monti e immersa nella natura, in mezzo agli animali e nei boschi. Fino a quando non mi sono trasferito a Torino per andare a studiare e i miei hanno deciso di trasferirsi in città.

Hai citato i tuoi genitori: che figlio sei stato?

Un figlio molto deciso: sapevo cosa volevo fare e cosa volevo in generale. Un figlio anche molto viziato e coccolato. Ma anche un figlio di sicuro molto chiaro con se stesso e con gli altri su ciò che desideravo.

Un figlio che non viveva il complesso di Edipo come accade invece al protagonista di Alla greca. Chi è Eddy, il protagonista dello spettacolo scritto da Steven Berkoff?

Siamo della Londra dei primissimi anni Ottanta, in un periodo di grandi lotte sociali. Eddy è il figlio di due proletari ma anche un ragazzo in bilico tra l’essere giovane e il non esserlo più. Punk, decide un giorno di andarsene di casa in seguito alla predizione, che considera stupida, di una fattucchiera, secondo cui avrebbe ucciso il padre e si sarebbe, testuali parole, calato nelle braghe della madre. Parte così alla scoperta di quel mondo che vuole conquistare: come molti ragazzi della sua età, vorrebbe sentirsi re dell’universo intero.

Il suo desiderio si scontra però con la difficile realtà di una nazione che sta affondando sempre più. Anziché scappare all’estero, Eddy decide di rimanere in patria ma gli eventi prendono una piega inaspettata. Finisce in un bar e, dopo aver ucciso un uomo (a suon di insulti: il testo si basa molto sul linguaggio come strumento di morte), decide di sedurne e infine di sposarne la vedova, cameriera dello stesso bar. Ed è così che si avvera la predizione.

Ma è in quel momento che il mito greco di Edipo ha nell’opera di Berkoff un finale totalmente differente: non si trasforma in tragedia. Consapevole di ciò che ha fatto, Eddy decide di non strapparsi gli occhi, di abbandonare del tutto il suo pudore e di mettere da parte il suo senso di colpa. Si lascia andare all’amore e ritorna in qualche modo nell’utero della madre. Berkoff fa una scelta ben precisa nel suo testo che mette in risalto come il femminile rappresenti una sorta di totalità d’amore sotto ogni punto di vista e al di là di ogni barriera socio-culturale.

Va anche oltre il politicamente corretto, del tutto assente dalla storia perché ambientata prima di tutta la discussione che è nata solo successivamente su determinati temi. Su una cosa però non si transige: l’opera non è né maschilista né razzista. Tutt’altro: è contro ogni forma di predominio machista ma in maniera sporca, violenta e sanguigna.

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L’utero della madre è anche l’ambiente in cui ti muoverai in Nel guscio di Ian McEwan.

Chiudo un po’ il cerchio: è una sorta di processo regressivo dell’attore per andare a scoprire le sue origini. Avranno pensato: facciamogli fare un percorso completo. Mi manca solo interpretare una provetta in una futura fecondazione assistita (ride, ndr)! Con Nel guscio passiamo di mito in mito: dal complesso di Edipo arriviamo a quello di Amleto.

McEwan rilegge la tragedia in chiave contemporanea e ad Amleto sostituisce un feto di nove mesi, che vive all’interno dell’utero materno di una donna dell’upper class londinese. Il feto ha una cultura sconfinata: da dove si trova, riesce ad ascoltare attraverso i canali interni della madre e a percepire cosa accade intorno. Ed è da lì che si rende conto di come la madre e lo zio stiano ordendo un terribile piano per uccidere il padre. Cosa può fare da dove si trova per cambiare le sorti di ciò che sembra già scritto?

Ovviamente, ci saranno delle soluzioni sceniche che mi renderanno credibile come feto all’interno di un utero. Chi assisterà allo spettacolo, vedrà lo spazio intorno modellarsi nel corso del racconto, assumendo dimensioni sempre più grandi. In più, il feto chiamerà spesso in causa il pubblico stesso, quasi come in una stand up comedy. O, come si direbbe al cinema, rompendo la quarta parete.

Marco Bonadei in Nel guscio.
Marco Bonadei in Nel guscio.

In questo caso, non hai problemi a mostrare il tuo corpo. Anzi, sei uno dei pochi attori che non si crea problemi a specificare di essere disponibile per scene di nudo integrale. Che rapporto hai con il tuo corpo?

Molto risoluto. Sono anche un cultore del corpo e dei corpi altrui atletici. Sono anche abbastanza fissato con il calisthenics. Non ho problemi a farmi vedere nudo in scena.

Perché credi che un nudo maschile integrale in scena faccia più notizia rispetto a uno femminile?

Semplicemente perché il sesso maschile è esterno. Penso che sia legato anche a un fattore di valore culturale: le donne si sono sempre spogliate per gli uomini mentre questi si sono raramente messi in mostra per le donne, se penso al passato. Tutto ciò mi fa ridere: basti pensare che tutta l’arte classica o rinascimentale è contorniata di nudi maschili. Ormai dovrebbe saperlo anche mia nonna: il nudo è sacro mentre il vestito è profano!

Mi fa sorridere che il nudo maschile faccia ancora scalpore. C’è tanta di quella pornografia in giro mascherata da informazione o di buoni consigli per le famiglie nei programmi del mattino in tv che il nudo a confronto è poca cosa. È solo ipocrisia. Io stesso sento i mormorii quando mi spoglio in scena ma dov’è il problema? Dovrei giustificare perché lo faccio? E allora dovrei cominciare a giustificare anche come mi vesto o ogni scelta che faccio in campo artistico. Sarebbe un po’ esagerato, no? Se dovessimo giustificare tutto ciò che facciamo in campo artistico, avrei veramente paura.

Marco Bonadei.
Marco Bonadei.
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