Da oggi Marco Carrara è chiamato a una sfida quasi disumana. Fino a domenica sarà uno dei volti di Telethon, all’insegna di quel “facciamoli diventare grandi”, lo slogan scelto per la raccolta fondi di questo 2022. E grande Marco Carrara lo è diventato a poco a poco e sotto lo sguardo vigile dei telespettatori. Era il 2011, quando poco più che adolescente, metteva i piedi per la prima volta in uno studio televisivo: quello di Tv Talk, il programma televisivo di Rai 3 che analizza la televisione e la sua comunicazione. E da allora non si è mai più fermato, tanto da divenire in breve tempo il conduttore Rai più giovane.
Da ben nove edizioni, tra invernali ed estive, è la spalla di Agorà, il programma mattutino della terza rete Rai il cui share dà del filo da torcere sia a Rai 1 sia a Canale 5. Conduce ed è autore del moviolone, raccontando ogni giorno la politica, i temi sociali e il web grazie all’ausilio di contributi video. E, come se non bastasse l’impegno dal lunedì al venerdì, ogni domenica è al timone, sempre su Rai 3, di Timeline, in cui racconta i social al pubblico adulto che segue la televisione.
Ma, al di là della tv, tanti sono gli impegni che hanno reso Marco Carrara un volto riconoscibile, uno di quelli che si googlano per sapere che vita privata conduce o che si usano per i titoli clickbait. Mondadori – Spy nel 2019 lo ha eletto “conduttore del futuro”, un riconoscimento che Marco Carrara ha accettato con l’umiltà che lo caratterizza, anche se preferirebbe il titolo di “conduttore del presente”, per rimarcare come anche per i giovani il futuro non sia sempre qualcosa da procrastinare: il futuro è adesso, anche per noi, verrebbe da aggiungere.
Abbiamo raggiunto Marco Carrara alla vigilia di Telethon. Ha appena finito la diretta di Agorà quando lo sentiamo, eppure dalla sua voce non trapela un minimo di stanchezza, nonostante sia sveglio – come tutti i giorni – dalle 04:45. Con lui, abbiamo affrontato tanti temi. Siamo partiti dalla raccolta fondi e dell’importanza delle donazioni in un periodo di crisi come quello che viviamo. Abbiamo affrontato la questione social, da un punto di vista della comunicazione tout court ma non abbiamo potuto dimenticare la pandemia che da bergamasco ha vissuto con molta ansia e preoccupazione. Così come non abbiamo dimenticato di chiedergli chi è la bimba con cui spesso compare sul suo profilo Instagram. Ci ha raccontato che è sua nipote, la figlia della sorella, con cui sta facendo quasi le prove per una futura paternità.
Una cosa, però, ci ha colpito di Marco Carrara: al di là della curiosità, l’empatia è il suo tratto vincente. In vent’anni di lavoro, chi scrive non si è mai sentito chiamare per nome durante un’intervista. Marco Carrara è l’unico che lo ha fatto più di una volta. Come in un continuo gioco delle parti in cui, tra due amici, si confondono le linee tra chi è l’intervistato e chi è l’intervistatore.
Intervista esclusiva a Marco Carrara
Sei impegnato da domenica scorsa con la maratona di Telethon. Qual è la difficoltà di chiedere soldi per beneficienza in un momento particolarmente delicato per l’economia del Paese come questo?
Sono solito usare un’espressione: “Se potete, donate”. A me non piace mai quando i conduttori o i vari volti che fanno appello alle donazioni dicono “Donate”. La televisione si rivolge a fasce socioeconomiche diverse e a un pubblico molto ampio: non tutti possono permettersi di donare anche banalmente due euro: oggi, con la crisi energetica in corso e non solo, anche quelli possono fare la differenza.
Quindi, è molto importante il lessico che si sceglie di adottare per far capire l’importanza della ricerca: da un lato, occorre scegliere le parole giuste per far capire bene che occorre donare, nonostante il momento difficile, ma dall’altro lato è giusto sottolineare come donare sia una possibilità e non un imperativo.
L’uso che fa delle donazioni Telethon è sempre certificato e documentato. In un momento in cui anche sul web si punta il dito contro la beneficienza, quanto è importante la chiarezza che da sempre caratterizza Telethon?
Da conduttore che presta il proprio volto a Telethon, posso dire che se Telethon va in onda da trent’anni è perché la fondazione è estremamente chiara e trasparente sull’uso che viene fatto delle donazioni raccolte. Forse è proprio questa una delle chiavi vincenti della riuscita della maratona: se tanta gente ha negli anni donato è perché ha capito che può fidarsi. Chi dona sa che i fondi vanno veramente alla ricerca sulle malattie geneticamente rare.
Le tante ore di diretta servono anche a far capire ancora di più l’estrema trasparenza: vengono chiamati in tv i ricercatori, coloro che tutti i giorni mettono la loro opera al servizio della ricerca, e si mostrano le storie delle famiglie che grazie a Telethon hanno potuto avere benefici per la propria vita.
Come ti prepari tu alla lunga maratona? Quanto è complicato confrontarsi con la giusta competenza sia con i ricercatori sia con le famiglie?
Il mio approccio sarà sempre lo stesso, ovvero quello che porto sia ad Agorà sia a Timeline. A muovermi sarà la curiosità. È la chiave che mi ha sempre accompagnato in questi undici anni di esperienza in Rai, di cui sei alla conduzione. Occorre essere curiosi per affrontare l’altro. Curiosi non solo nei confronti delle famiglie, verso cui entrano in gioco anche l’empatia e l’emozione, ma anche degli ospiti più difficili, come i ricercatori o i dottori. Con la mia curiosità, cercherà di rendere accessibili al pubblico temi solitamente più ostici come la scienza e la ricerca. Credo da sempre che, se il conduttore è curioso e incuriosito, anche di riflesso il pubblico lo sarà.
Non solo curiosità, però. Hai appena citato tra le righe una dote di cui sei sano portatore: l’empatia. L’empatia tra intervistatore e intervistato non è semplice da raggiungere, è sempre frutto di tantissimi fattori e della predisposizione dei soggetti in gioco. Eppure, guardandoti, sembra per te un gioco.
Credo che l’empatia o ce l’hai o non ce l’hai. Quando qualcuno, dopo essere stato mio ospite a Timeline, mi ringrazia per essersi sentito a suo agio mi regala la conquista più grande. Il mio non è un programma scomodo, non è Belve condotto da quel genio straordinario che è Francesca Fagnani: si gioca su altre corde.
Io non devo mettere in difficoltà nessuno. Anzi, è mettendo a proprio agio l’ospite che posso veramente scavare a fondo e tirar fuori qualcosa magari di inedito, di non ancora raccontato. Chi crede di fare il figo mettendo a disagio l’intervistato, sbaglia profondamente. Così come chi, con la puzza sotto il naso, considera l’empatia come anche quasi un cedimento nei confronti dell’intervistato. Io credo che sia invece una grande qualità che può essere un valore aggiunto per programma.
Lavori in Rai da più di dieci anni. La tua prima esperienza televisiva è stata in quella fucina di talenti e futuri comunicatori che è Tv Talk, il programma di Massimo Bernardini in onda il sabato su Rai 3.
Tv Talk è stata la mia vera università. Mi sono laureato e ho conseguito una laurea allo IULM, ovviamente, però, quando mi si chiede dove ho studiato, non ho dubbi nel considerare Tv Talk la mia vera accademia. Mi ha permesso di toccare con mano cosa significasse fare televisione ad ampio spettro. Ho imparato lì ad andare in video, a scrivere un testo, a girare un servizio e a montarlo. Considero ad esempio il montaggio fondamentale: se sai montare, sai anche condurre. Il montaggio ti dà una skill, per citare una parola molto in voga, in più: ti permette di capire quando chiudere, che ritmo dare, quando cambiare, rallentare o velocizzare.
Tv Talk è stata veramente un’università: è un posto pieno di gente generosa che ti mette a disposizione tanti strumenti per imparare. E per me che ero un appassionato di televisione da quando avevo cinque o sei anni ritrovarmi lì, poco più che adolescente, ha rappresentato una grande occasione. È stato il grande sogno che si concretizzava e ho voluto sfruttare al massimo quell’occasione, quella grande fortuna che mi è capitata tra le mani. Le grandi fortune vanno sfruttate, altrimenti rimangono fini a se stesse.
Hai appena detto che eri un grande appassionato di televisione sin da quando avevi 5 o 6 anni. Cosa guardavi all’epoca?
Ero onnivoro, guardavo di tutto e mi piaceva tantissimo registrare su videocassetta. Per i ragazzi e i bambini di oggi è tutto molto più facile: basta loro prendere uno smartphone o il tablet per rivedere online il momento televisivo che cercano. Quando io avevo 5 anni, tutto ciò era assolutamente fantascienza. Quindi, registravo tutto, dai talk show all’intrattenimento: avevo un mobiletto sotto al televisore pieno di vhs!
Una delle mie più grandi passioni erano per esempio le edizioni straordinarie dei telegiornali. Non appena sentivo il jingle che interrompeva il programma in onda per lasciar spazio all’edizione straordinaria mi precipitavo a far partire la registrazione. Che sta succedendo?, mi chiedevo: li consideravo un pezzo di storia che stavo vivendo in tempo reale.
Quasi un segno del destino, visto che saresti negli anni futuri diventato un giornalista. Hai studiato Scienze della Comunicazione negli anni in cui la comunicazione era segnata da un ulteriore spartiacque. Ai media tradizionali si affiancavano i new media, con un nuovo linguaggio con cui occorreva relazionarsi e che ha poi dato il là a un ulteriore sviluppo, quello dei social.
Internet e i social sono due strumenti estremamente diversi, entrambi affascinanti ma differenti. Il fascino che ho provato e provo nei loro confronti è lo stesso che cerco di portare anche oggi a Timeline, il programma Rai dedicato proprio ai social. L’approccio che pratico a Timeline verso i social è lo stesso che avevo dieci anni fa quando si introducevano sul mercato i primi iPhone, per esempio: mai avere pregiudizi.
È un po’ una pratica comune anche da parte dei colleghi in televisione o sui giornali descrivere i social come il covo degli haters o dei discorsi di odio. Da un lato, è verissimo: purtroppo, è uno spaccato che c’è ed esiste ma, fortunatamente, non c’è solo quello. I social e internet stesso sono uno strumento straordinario che ci consente di connetterci, di essere uniti anche se siamo distantissimi. La pandemia, ad esempio, ci ha fatto capire bene quanto grazie al digitale, seppur distanti, eravamo uniti. Ed è grazie ai social che abbiamo potuto scoprire movimenti incredibili: pensiamo al Black Lives Matter, il movimento che, nato dopo l’uccisione di Floyd nel 2020, si è sviluppato proprio sul web.
Spero di conservare sempre questa assenza di totale pregiudizio verso anche i nuovi strumenti che verranno in futuro. Guardo in questo momento con molta attenzione anche a TikTok. Tutti lo descrivono superficialmente come il social dei balletti, dimenticando che TikTok è il mezzo usato dalle donne iraniane per le loro proteste. È sbagliato etichettare il nuovo con pressapochismo o sufficienza.
Da giornalista, non hai paura che i social finiscano per dettare l’agenda setting e facciano passare in secondo piano la realtà? Come si fa a far convivere virtuale e reale?
È un grande tema quello che sollevi. E da giornalista professionista è un tema che mi pongo molte volte, soprattutto ad Agorà, dove tutti i giorni do tante notizie. È importante capire come dare una notizia e quale notizia dare. Posto che ci sia una ricetta giusta e il che è difficilissimo, la migliore in assoluto rimane la verifica delle fonti: occorre essere sicuro di ciò che si sta mandando in onda, della notizia che si sta dando e di ciò che si sta dicendo.
Bisogna essere consapevoli del prodotto che si sta offrendo e non subire l’agenda setting: non si prepara una scaletta partendo da ciò che è virale o di tendenza… due parole che oggi hanno perso qualsiasi tipo di significato: oramai tutto è virale e tutto è in tendenza. Il verbo più bello rimane sempre scegliere: tocca a noi rivendicare il diritto di scegliere di cosa parlare e quali argomenti affrontare.
Hai tra le righe ricordato il periodo della pandemia. Oggi quasi tutti tendiamo a scordarci del CoVid o a dimenticare del peso che ha avuto nelle nostre esistenze. A te, bergamasco, cosa ricorda la parola pandemia?
Rispondo con una sola parola: dolore. Sono originario del comune più colpito in Italia dal Covid: Nembro. In quel periodo ero in onda tutti i giorni con Agorà mentre la mia famiglia si trovava in piena zona rossa. Il primo istinto è stato quello di protezione nei confronti dei miei cari: dissi loro di non guardare nessun mio programma e di seguire meno telegiornali possibili. Il mio desiderio era quello di limitare quello stato di estrema ansia in cui già vivevano: nella Val Seriana, dove abitano i miei, le ambulanze erano frequenti così come le notizie nefaste di vicini che non ce l’avevano fatta erano.
È importante non dimenticare mai quello che è stato. E la mia adesione a Telethon è in qualche modo figlia del periodo che abbiamo vissuto e in cui abbiamo capito bene come sia stata la scienza che ci ha salvato. Se oggi siamo qui, è grazie ai vaccini realizzati a tempo di record. È la ricerca che ha permesso di combattere l’aggressività di un virus a cui nessuno era pronto e preparato. Ricordo ancora il dolore, non ho perso persone a me intime ma ho visto andarsene tante persone che conoscevo, come il nostro idraulico di fiducia o la giocattolaia dove andavo a prendere i giocattoli da piccolo. Mi ritengo estremamente fortunato: ogni tanto ci ripenso e realizzo che mi è andata bene.
Cosa rappresenta per te la famiglia?
Tutto. Mi fa sorridere perché è la risposta che solitamente dà qualunque intervistato di fronte alla domanda. Ma rappresenta davvero tutto. Ho avuto la fortuna, per citare una parola usata poco fa, di aver avuto una famiglia estremamente coesa, con genitori estremamente solidi e buonissimi. Se oggi mi ritengo una persona molto centrata, è per la solidità familiare che ho alle spalle e l’esempio di gentilezza che ho avuto. Credo di avere i genitori più buoni del mondo: non farebbero mai male a nessuno.
Cosa fanno o facevano mamma e papà?
La mia estrazione è assolutamente umile ed io sono orgogliosissimo di ricordarlo. Mio padre è un vigile del fuoco in congedo, ha prestato servizio per quasi 35 anni e ha visto con i suoi occhi le conseguenze delle peggiori tragedie in Italia, dai terremoti dell’Irpinia e dell’Aquila alle alluvioni. Mia madre, invece, è una casalinga. Sono orgogliosissimo di loro e loro sono orgogliosi di me e di come partendo da zero, da Nembro con il mio zainetto sulle spalle, sia riuscito a realizzarmi.
È il mito del self made man, per usare un’espressione cara agli americani. I sacrifici ti hanno però portato a essere nominato “conduttore del futuro”. Che effetto ti fa una definizione del genere?
Ogni attestato o riconoscimento è una bellissima certificazione del tuo lavoro. Quindi, è importante ricevere attestati di stima ma non per vana gloria: vuol dire che hai seminato bene e svolto correttamente la tua professione. Dico però la verità: più che il conduttore del futuro mi piacerebbe essere il conduttore del presente. Sembra altrimenti il solito racconto, anche un po’ italiano, per cui un giovane deve sempre aspettare il domani. Sono un conduttore di oggi che spera di continuare a fare il suo lavoro anche in futuro. Conduttore del presente mi sembra una qualifica ancora più bella
Futuro e presente sono diventati il fulcro della discussione. So, tuttavia, che per te sono molto importanti anche il passato e i ricordi. Quali sono i ricordi familiari a te più cari?
Quelli più belli sono legati alle vacanze di famiglia: erano l’unico momento in cui stavamo tutti insieme. Tanto che proprio di recente ho proposto alla mia famiglia di far una bella vacanza tutti insieme. È ancora oggi una dolce carezza rivedere le fotografie che scattavamo con le macchine analogiche: le ho tutte digitalizzate. Quel ricordo di unità familiare per me è una sorta di certezza in cui mi rifugio.
A proposito di famiglia, nel tuo profilo Instagram ci sono diverse immagini che ti vedono insieme alla tua nipotina.
È una pazza, dieci volte più pazza di me.
Parlando di lei, mi hai detto che non escludi un giorno di diventare papà. Cosa rappresenterebbe per te la paternità?
Mia nipote per me rappresenta innanzitutto cos’è la felicità: quando la vedo sono felice e lei è felice, ci amiamo alla follia. Chiaramente, cerco di accudirla nel modo anche forse più sbagliato possibile: la vizio dalla mattina alla sera. Da questo deduco che, quando sarà il momento, sarò un padre sicuramente molto accondiscendente ma anche molto rigoroso. Di natura, sono una persona molto rigorosa ma mi rendo conto che con mia nipote ho un approccio davvero dolcissimo.
Per me, la paternità rappresenta anche una grande occasione per accudire una persona. Purtroppo, vedo poco mia nipote: lei sta a Bergamo e io a Roma. Siamo molto lontani in questo momento ma nelle poche occasioni che ho mi piace stare con in sua compagnia e prendermi cura di lei, insegnarle delle cose, ascoltarla e farmi travolgere dai suoi fuori programma e dalle sue iniziative. È molto bello farsi sorprendere, no? Ecco, mia nipote mi sorprende molto e sorprendersi è molto bello come esercizio, soprattutto per chi come me è molto radicato. Farsi sorprendere è un esercizio che non dobbiamo mai dimenticare e con lei mi faccio sorprendere moltissimo.
Se googliamo il tuo nome, la maggior parte dei risultati riportano alla tua sfera privata. Secondo te, da dove nasce la curiosità delle persone nei confronti del privato dei volti tv?
Riguardo a ciò, ho un approccio assolutamente comprensivo. Io stesso, quando vedo un volto in televisione, sono curioso di sapere che vita fa o cosa succede quando si spengono le telecamere e non è in onda. Molte volte, scattano l’identificazione e l’immedesimazione. Un conduttore è lo Zorro della tv: il pubblico si identifica in lui e i social hanno contribuito ad accorciare le distanze. È normale voler sapere che cosa combina quel volto che segui con così tanto affetto, non ci vedo un secondo fine: lo trovo legittimo.
Di recente, hai avuto modo di intervistare Patrick Zaki per lo show Visionary di RaiPlay. A cosa hai fatto appello per quell’intervista fatta tra l’altro di fronte a 2500 ragazzi?
Innanzitutto, alla preparazione e al rigore. Da giornalista è importante sapere chi hai di fronte. Di fronte a una vicenda così complicata e dolorosa come la sua, però, non poteva mancare l’empatia. A fine intervista, Patrick ci ha ringraziati, cosa che ci ha resi particolarmente felici. Non potevo non chiudere dicendogli Your Freedom is our Freedom, la tua libertà è la nostra libertà: era il meglio che potessi augurargli.
E quale sarebbe il meglio che augureresti a te stesso?
Di rimanere sempre curioso. Dopo tanti anni di carriera si tende spesso ad avere un approccio meno vivace nei confronti della vita e di sedersi sugli allori. Io vorrei continuare a mantenere il mio approccio vivace, sempre alla ricerca non della prima ma della seconda domanda.
E che dire dell’autoironia nel repostare i tuoi stessi svarioni mostrati da Striscia la notizia?
Durante due ore e mezza di diretta tutti i giorni capita di dire una parola in più o una in meno. Ma per fortuna esiste Striscia che scova i nostri errori e ci invita a provare a non ripeterli!