Amusia è il film di Marescotti Ruspoli che arriva in sala il 27 aprile grazie a 102 Distribution. Prodotto da UmiFilms in collaborazione con Rai Cinema con il contributo del Mic e il sostegno della Regione Emilia-Rogna ed Emilia-Romagna Film Commission, è interpretato da Carlotta Gamba, Giampiero De Concilio, Fanny Ardant e Maurizio Lombardi.
Nel film che ha diretto e sceneggiato, Marescotti Ruspoli racconta la storia di Livia, una ragazza che soffre di una particolare patologia: l’amusia. Sconosciuta ai più ma scoperta dal giovane autore grazie a un libro di Oliver Sacks (l’autore del celebre Risvegli), l’amusia è una malattia cerebrale che impedisce a chi ne soffre di comprendere, eseguire e apprezzare la musica: questa subisce infatti una distorsione sonora, provocando un disturbo uditivo.
In Amusia, la malattia porta Livia ad avere anche una rappresentazione distorta della realtà, da quella familiare a quella sociale. Ragione per cui scappa dal suo mondo e si rifugia in quello, senza tempo, della provincia abitata da Lucio, un giovane che ha alla musica non sa rinunciare. Due lati della stessa medaglia, Livia e Lucio finiscono per vivere in una storia d’amore, tanto delicata quanto toccante che sfiora spesso il surreale per via del microcosmo in cui è ambientata.
L’ambientazione è infatti un paesino, ordinato e armonioso, in cui le linee rette dell’architettura fascista incorniciano ogni sequenza. In un’atmosfera molto Eighties, è contraddistinto da un cimitero razionalista, da un motel chiamato Amore dove le stanze si affittano a ore, da un edificio azzurro chiamato Sogni e da un bar quasi sempre vuoto, splendidamente fotografati da Luca Bigazzi.
Giovane regista con una visione autoriale chiara e ben definita, Marescotti Ruspoli non è arrivato al cinema per caso. Appartenente alla celebre famiglia fiorentina, ha ereditato la passione (il come ce lo spiega lui stesso) dai genitori che lo hanno lasciato libero di sognare e sbagliare. Una libertà che lo ha portato a studiare Cinema a Praga, dove solitamente gli occidentali non vanno, e a cominciare dal più pratico (e umile) dei lavori su un set: quello del runner.
Intervista esclusiva a Marescotti Ruspoli
“Il mio obiettivo era quello: non far sembrare la città in cui Amusia è ambientato Ferrara”, mi risponde Marescotti Ruspoli quando gli faccio notare che nemmeno i ferraresi riescono a riconoscere quella che è la loro provincia grazie alla maniera straordinaria con cui è fotografato il suo film. “Ancor prima delle riprese, quando un copione era ancora una realtà personale e basta, ho cominciato a fare scouting dei territori: mi serviva per alimentare il mio sogno e renderlo più reale. Volevo trovare dei luoghi che sapevo vedendoli anche a occhio che mi avrebbero conferito la stessa sensazione di chi oggi guarda il film e non riesce a collocarlo”.
L’amusia è una patologia che difficilmente si conosce. Non ci si imbatte facilmente: come l’hai scoperta?
L’ho scoperta leggendo un libro di uno scrittore e neurologo che adoro: Oliver Sacks. Il libro era L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, me ne sono innamorato così tanto da decidere di leggere altri lavori di Sacks. È stato così che ho comprato il suo Musicologia (oltre alla passione per la lettura, ho quella per la musica). Leggendolo, mi sono imbattuto in un capitolo che si chiama, per l’appunto, Amusia, in cui Sacks parla della malattia e di due pazienti in particolare che ne soffrivano.
Nel capitolo, racconta di com’è andato e com’è stato il suo rapporto con loro, come vivevano e cosa sentivano quando ascoltavano musica. Sono rimasto particolarmente sconvolto, soprattutto da ciò che riguarda la donna: per lei, ascoltare musica era come sentire il suono dei piatti che si rompono cascando per terra. Mi ha sconvolto perché, da appassionato di musica, ho scoperto che esistono al mondo delle persone che nascono con un deficit musicale senza alcuna possibilità di scelta.
Tutti quanti associamo una funzione terapeutica alla musica. È difficile immaginare come si possa vivere senza. In Livia, la protagonista di Amusia, l’assenza di musica si traduce anche in un’assenza di auto accettazione che le fa vivere la realtà in maniera conflittuale.
Per via della sua patologia, l’hanno fatta sentire non posizionabile, non collocabile nella società. Si sente la pecora nera perché non capita o compresa, come accade un po’ a tutte le persone che non vedono riconosciuto il peso delle patologie di cui soffrono. Sentendosi incompresa e non ascoltata, si aliena e si convince che sia a causa della musica che lei è diversa. Del resto, non c’è nessuno che presta ascolto alle sue parole, a partire dai genitori: combatte più contro un pregiudizio che contro la musica in sé.
La lotta contro i pregiudizi è una costante nella vita di oggi. La depressione, ad esempio, va incontro a numerosi pregiudizi. Tu l’hai raccontata attraverso il personaggio di Domitille, la madre di Livia. Interpretata da Fanny Ardant, Domitille cambia aspetto da una scena all’altra in base al suo stato d’umore. Sei riuscito a tratteggiare il personaggio con delicatezza, schivando il rischio di risultare sopra le righe in alcune sequenze, come quelle in cui ripete al marito di chiamarsi Domitille e non Domitilla.
Ti svelo un aneddoto che non ho ancora raccontato a nessuno. Il personaggio in origine si chiamava Domitilla. Ero alla ricerca di un’attrice italiana per il ruolo, mai mi sarei permesso di pensare a Fanny Ardant. Ma poi è accaduto il miracolo: ha letto la sceneggiatura tramite sua figlia (mia assistente alla regia, di cui non conoscevo i genitori) e le è piaciuta, voleva interpretare il film. A quel punto, con un’attrice meravigliosa che parla l’italiano ma con un forte accento francese, ho dovuto inventarmi un escamotage per rimarcare la sua francesità. Ho quindi pensato di chiamarla Domitille, nome che in italiano viene storpiato in Domitilla. Quando il personaggio desidera aggrapparsi alle sue origini francesi, rimarca e reclama il suo nome, mettendo in atto ciò che oggi si chiama autodeterminazione.
Il rapporto di Livia con i due genitori è alquanto complesso. Tralasciando il gap generazionale, ha una madre che tende a proteggerla e un padre, musicista e compositore di colonne sonore, che invece non tollera la patologia della figlia. Quanto è complicato da figlio mettere in scena delle relazioni così complesse con i genitori?
Tutti noi attraversiamo una particolare fase della vita, che può essere quella adolescenziale o dei primi vent’anni, in cui ci scontriamo con una certa difficoltà di comunicazione con i genitori. Di base, Amusia è un film che fa molta leva sull’incomunicabilità (senza voler rubare nulla a Michelangelo Antonioni, che sull’incomunicabilità ci ha insegnato tutto). Nel crescere, noi esseri umani e figli affrontiamo sempre un periodo di ribellione verso i genitori: non li capiamo e ci siamo non compresi.
Il personaggio del padre di Livia, interpretato da Maurizio Lombardi, non è cattivo: si sente semmai beffato dalla vita. Non è riuscito a realizzarsi come musicista però avrebbe voluto, perlomeno, avere una figlia con cui condividere la sua stessa passione ma, per uno scherzo del destino, ne ha avuta una che odia quello che lui ama. È come se la vita avesse deciso di metterli contro, motivo per cui non è amareggiato nei confronti della figlia ma della vita stessa.
Come si evince da una scena, il loro rapporto era molto più forte di quello che Livia poteva avere con la madre, ce lo siamo detti anche in fase di riprese con gli attori. Si è andato logorando nel momento in cui in Livia è subentrata la fase di ribellione giovanile, quella in cui prende coscienza di come il padre la costringesse ad ascoltare qualcosa che non sentiva e che odiava.
Non sarà cattivo ma in una scena, quella del compleanno di Livia, arriva a regalarle un paio di tappi per le orecchie. È un atto di amore o un atto di sadismo?
È un atto d’amore fatto con totale cecità. Il padre è accecato dalla propria passione, così come possono esserle tanti artisti che al di là della loro arte non vedono e non pensano.
Far cinema è stata per te una forma di ribellione nei confronti dei tuoi genitori?
No, io sono stato fortunato. I miei genitori mi hanno permesso di fare due cose fondamentali: la prima è sognare, la seconda invece è sbagliare. E, quindi, faccio cinema anche grazie a loro: mia madre è una persona molto creativa, colorata e solare, mentre mio padre è un fotografo. Non è, dunque, per me una forma di ribellione. Anche se, a mio modo, sono stato anch’io ribelle con i miei genitori: sono stato un cane di studente a scuola e ne ho combinate più di Pierino.
Adoro però osservare i rapporti familiari, personali e sociali. E, quindi, posso basare quel genere di famiglia che si vede in Amusia su diverse famiglie che conosco ma che non sono la mia.
Nel fuggire via di casa, Livia arriva in un microcosmo che sembra sospeso nel tempo. Perché la scelta di raccontare una storia che sembra atemporale? Non sarebbe stato più facile ambientarla oggi?
Non credo si faccia un film per semplicità. Io volevo fare un’opera che non avesse un collocamento temporale e territoriale perché non lo ritenevo importante nei confronti della storia che volevo raccontare: mi interessavano i rapporti, i sentimenti e gli stati d’animo. E questi, secondo me, influenzano gli ambienti.
Quella di Amusia non è la storia di un viaggio fatto ma è la storia di un viaggio sognato. A evocarlo è un edificio su tutti intorno a cui ruota il concetto del film: Sogni. L’atemporalità e l’aterritorialità mi servivano per arrivare al risultato finale, sospeso, per dargli, appunto, la sembianza di un sogno. Ho giocato con gli ambienti e gli oggetti ma anche con i dialoghi. A un certo punto, il padre di Livia dice anche, riferendosi alla figlia, “per lei, ascoltare Taylor Swift o Philipp Glass è la stessa cosa”: si ascolta Taylor Swift nel 2020 mentre Philipp Glass è un must degli anni Ottanta. “Io dove sono? E tu dove vuoi essere?” è la domanda importante.
In tale dimensione sospesa, Livia incontra Lucio, che per certi versi è il suo esatto opposto: non ha genitori e nella sua vita la musica ha un peso fondamentale. Perché hai voluto che fossero le due diverse facce della stessa medaglia?
Per vedere in che modo potessero imparare l’uno dall’altra. Si potrebbe pensare che Lucio sia il sole di Livia o che la influenzi. In verità avviene l’esatto opposto: che sia tutto reale o no, è Livia che influenza Lucio, instillandogli la forza di andarsene e di lasciare finalmente una vita che ha ereditato e non scelto. Lucio ha perso i genitori dopo un incidente e si è ritrovato a vivere con tutto ciò che era loro. Anche per una forma di rispetto, di collegamento e di consolazione, non ha cambiato nulla di quel posto che chiama casa: abitare il loro mondo lo fa sentire più vicino ai suoi. Vorrebbe andarsene ma non ha né la forza per farlo né un motivo: Livia sarà il motivo, gli farà capire che la musica è sì bella ma che l’amore lo è ancora di più.
Quando ho cominciato a scrivere la storia sono partito dal chiedermi cosa farei io, Marescotti, se incontrassi una ragazza come Livia: sceglierei la musica o l’amore? In fase di prescrittura, avrei scelto la musica ma, mentre scrivevo, ho cambiato idea. E il cambio mi ha portato ad accentuare maggiormente i personaggi e a puntare sulla comprensione. Cambiare ci fa andare incontro agli altri: c’è sempre un compromesso. E un compromesso fatto per amore è un compromesso che si fa volentieri. Rifacendomi a una scena del film, Livia è il telefono che squilla al quale nessuno risponde finché non arriva Lucio ad alzare la cornetta dell’ascolto.
Livia è interpretata da Carlotta Gamba mentre Lucio da Giampiero De Concilio. Perché hai scelto loro?
Volevo lavorare con due attori emergenti italiani. Per questioni anche di budget (abbiamo girato con 900 mila euro), non potevo permettermi quegli attori giovani di richiamo che tutti cercano ma volevo, comunque, trovare quelli giusti per i miei personaggi. Con il direttore del casting, Maurilio Mangano, li abbiamo dunque cercati per bene.
Quello per Carlotta è stato un colpo di fulmine: già dal self tape, mi sono accorto che somigliava al personaggio che avevo in mente: una certa freddezza negli occhi, i capelli biondi, quel dento leggermente spezzato…
Giampiero mi è stato consigliato invece da Maurilio. Già in passato, a 17 anni, aveva fatto un film che si reggeva tutto sulle sue spalle, Un giorno, all’improvviso, presentato al Festival di Venezia. Anche lui in termini estetici rientrava nell’ordine del personaggio ma dovevo però capire se avesse funzionato in coppia con Carlotta. Ogni dubbio è stato fugato il giorno dei provini in presenza: sono entrati uno dopo l’altro.
Giampiero ha alle spalle tanto teatro napoletano: ha cominciato a recitare a 5 anni. Ma, quando è entrato per i provini, lo ha fatto con molta timidezza e in punta di piedi. Abbiamo provato la scena e sono uscito un paio di minuti. Al rientro ho trovato una persona totalmente differente: un tornado. Non lo scorderò mai. Lo abbiamo tenuto per un’ora, facendogli fare di tutto: mi stavo divertendo e lui si stava divertendo, è stato come un continuo ping pong.
Visto che c’era anche Carlotta, l’abbiamo fatta entrare. Dopo un minuto in cui provavano insieme, erano perfetti come coppia: c’era una sinergia tale sin dal primo momento da farci rimanere tutti colpiti.
Il set è un luogo di continuo scambio. Cosa ti hanno lasciato Carlotta e Giampiero e cosa hai lasciato tu loro?
Cosa ho lasciato, bisognerebbe chiederlo a loro ma so cosa hanno lasciato loro a me: tantissimo. Sono due attori molto diversi l’uno dall’altra ma entrambi molto intelligenti e propositivi, che fanno una ricerca interiore diversa ma molto approfondita. Mi hanno insegnato a fidarmi di loro, a darli un po’ di corda, perché avevano capito la direzione che avrei voluto dare alla storia. Ma anche tante altre cose che son quasi difficili da descrivere. Sono cose quasi inconsce di cui ti accorgi dopo, come l’amore e il coraggio verso il loro mestiere.
Quello dell’attore è un mestiere folle, se vogliamo. Li ho visti arrabbiare, scoppiare a piangere, chiudersi in se stessi, perdersi nelle loro idee… Gli attori vanno incontro a viaggi emotivi interni straordinari ma per farlo devono avere coraggio. E loro ne hanno avuto tanto.
Il primo film è un banco di prova mentre il secondo potrebbe essere la conferma.
Sto già pensando al prossimo lungometraggio. Una volta assaporato il set e il mestiere, è difficile resistere alla tentazione: è la droga più forte che si possa provare.
Un mestiere per cui hai studiato…
Ho studiato cinema all’Accademia del Cinema di Praga ma dopo aver fatto giornalismo e scrittura creativa a Londra.
Perché proprio Praga? È una scelta inconsueta…
Mentre studiavo a Londra, cominciai a lavorare sui set come runner. Uno di questi set, un film americano, mi portò per un mese a Bucarest. Qui, conobbi tanti ragazzi un po’ più grandi di me. Erano rumeni, serbi, polacchi: tutta gente che guardavo dal basso verso l’alto per quanto fosse bravissima, preparatissima e sicura di sé. In quell’occasione, feci amicizia con la segretaria d’edizione, una ragazza rumena con cui sono ancora in contatto. Mi prese sotto la sua ala protettiva e, parlandole del mio desiderio di voler frequentare una scuola per approfondire la regia, mi chiese quali fossero le scuole in cui stavo provando a entrare.
Di fronte alle mie opzioni, Parigi o Londra, sottolineò come noi europei occidentali non pensiamo mai al cinema est europeo. “Pensate che esistete solo voi, qui facciamo cinema meglio di voi”, una frase per cui oggi le do ragione: il cinema polacco, rumeno, ceco, serbo, ungherese e russo ha raggiunto livelli molto alti grazie a cineasti che hanno una certa sensibilità. Mi suggerì di provare a entrare all’Accademia di Praga, la scuola di Cinema più vecchia d’Europa. Provai e mi presero.
Ero stato scelto contemporaneamente a Londra e Praga, scelsi io la seconda. Ed è stata una delle scelte più importanti della mia vita. Mi ha fatto uscire totalmente dalla mia comfort zone: mi sono ritrovato in una città che non conoscevo, con una cultura con della gente di cui sapevo poco. Ero senza punti di riferimento ma mi sono messo in gioco. Fare cinema è mettersi in gioco, prendersi dei rischi.
Il pregiudizio sulle tue origini porterebbe a non immaginarti cominciare a far cinema come runner…
È stato fondamentale per me. Sul mio set, ho avuto molto rispetto dei runner, ad esempio. Ed è una cosa rara: quando ero io un runner, non mi si cagava nessuno. Mai avuto nessuno che avesse una parola o un consiglio per me ma intanto osservavo cosa accadeva intorno: quello non poteva essere un lavoro… si faceva il circo, la magia! Tutti insieme, tra ciak, megafoni, musica, costumi, risate, sigarette e pasti, si lavorava allo stesso scopo: era il prototipo di scuola che avevo sempre sognato. Non la classe silenziosa ma quella rumorosa…
Amusia esce ora al cinema.
E inviterei le persone ad andare al cinema, non solo per il mio film. Tutti i film nascono e ambiscono alla sala, è quello il luogo dove vivono e vanno tenuti in vita con lo sforzo e l’impegno di tutti. Non c’è cinema senza sala!
Qual è stato il film che da bambino ti ha impressionato maggiormente?
Me lo ricordo benissimo: La strada di Federico Fellini. Fellini riusciva a raccontarti un sogno come nessun altro è stato più in grado di fare. Inconsciamente, sono stato molto influenzato dal suo cinema e non può esserci mai un suo erede: è un modello irraggiungibile. Chi se lo pone come obiettivo sbaglia: Fellini riusciva a mostrarti quello che era dentro la sua testa, dava vita a quella materia grigia in maniera unica.