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Margherita Ferri: “Un film pieno di vita come Andrea Spezzacatena” – Intervista esclusiva

Margherita Ferri
La regista Margherita Ferri racconta il dramma vissuto da Andrea Spezzacatena in Il ragazzo dai pantaloni rosa, un film che esplora con delicatezza e profondità le sfumature del bullismo omofobico e della ricerca identitaria adolescenziale, offrendo uno sguardo queer e femminista su un tema tristemente attuale.
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In occasione dell’uscita al cinema per Eagle Pictures del film Il ragazzo dai pantaloni rosa, la regista Margherita Ferri ci ha offerto uno sguardo intimo e profondo su un’opera che, al di là del suo potente impatto narrativo, esplora i confini tra identità, dolore e resistenza. La regista, conosciuta per il suo approccio queer e intimista, tratta qui con delicatezza un tema di enorme rilevanza sociale, quello del bullismo omofobico, che attraversa tutte le sfumature della crescita adolescenziale.

Margherita Ferri, che ha costruito una carriera affrontando tematiche di inclusione, diversità e ricerca identitaria, offre con questo film una prospettiva unica e personale. Durante le proiezioni del film destinate agli insegnanti nelle recenti Giornate Nazionali del Cinema per la Scuola a Palermo, Il ragazzo dai pantaloni rosa ha stimolato riflessioni profonde, eppure non senza qualche critica. "Una preside l’ha presa un po’ sul personale sostenendo che dal film non si evince il ruolo giocato dalla scuola come istituzione", ha raccontato Ferri. Tuttavia, la regista risponde con fermezza e rispetto, ricordando che ogni storia è unica, non sempre aderente a una singola esperienza istituzionale.

Attraverso questa intervista esclusiva, Margherita Ferri ci invita a un confronto sincero con le dinamiche del bullismo omofobico di cui è rimasto vittima Andrea Spezzacatena, che, come sottolinea, spesso si radica in una cultura patriarcale e misogina. La sua capacità di raccontare storie difficili con rispetto e sensibilità emerge in modo chiaro. “Per me era importante specificare che si trattava di bullismo omofobico, una violenza insidiosa che non risparmia nessuno,” spiega Ferri. Anche quando i ragazzi, come Andrea, non si sono ancora definiti o dichiarati in nessun modo, le etichette che vengono loro imposte dalla società possono lasciare ferite profonde.

In questa conversazione, Margherita Ferri ci parla della responsabilità di raccontare storie vere, dell’etica del documentario e della missione di trasformare il dolore in uno strumento di crescita e consapevolezza per il pubblico. Con un cast selezionato accuratamente e un lavoro che valorizza ogni aspetto della personalità di Andrea, Il ragazzo dai pantaloni rosa diventa nelle sue mani un'opera vitale, che non si arrende alla tragedia ma esalta la ricerca della libertà, dell’espressione e della verità.

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Margherita Ferri (Press: Biancamano e Spinetti).
Margherita Ferri (Press: Biancamano e Spinetti).

Intervista esclusiva a Margherita Ferri

“Una preside l’ha presa un po’ sul personale sostenendo che da Il ragazzo dai pantaloni rosa non si evince il ruolo giocato dalla scuola come istituzione quando nel suo istituto c’è invece un servizio psicologico, dimenticando che non tutte le storie sono le stesse”, comincia così Margherita Ferri all’indomani delle proiezioni del suo film destinate ai docenti nell’ambito delle Giornate Nazionali del Cinema per la Scuola, svoltesi a Palermo dal 4 al 6 novembre. “Ma per il resto è andata bene, nonostante per me si trattasse di un’esperienza del tutto nuova, con un pubblico di soli adulti che si sono focalizzati sui temi di maggior interesse per loro”.

Com’è arrivata la storia di Il ragazzo dai pantaloni rosa nel tuo percorso? Per uno strano scherzo del destino quasi, uno dei tuoi cortometraggi precedenti si chiamava Odio il rosa

Quel lavoro raccontava la storia di una bambina di sette anni che odiava il rosa perché si presentava come un maschio quando invece io adoro il colore (sorride, ndr)… Il ragazzo dai pantaloni rosa è entrato nella mia vita all’improvviso: da anni, ormai, sono impegnata a sviluppare le mie sceneggiature quando la mia agente mi ha proposto di dare una lettura a un progetto che secondo lei avrebbe potuto essere adatto a lei. Nel leggere la prima stesura di quella sceneggiatura, non ho avuto dubbi su ciò che dovevo fare: l’ho sentita sin da subito così mia da scriverne immediatamente le intenzioni di regia e presentare idee di cast. Quella storia andava raccontata e volevo farlo io!

La storia era quella di Andrea Spezzacatena, morto suicida a quindici anni per non aver più sopportato il bullismo di cui era vittima. Non hai mai sentito la pressione di dover raccontare una storia comunque vera che doveva in primo luogo rispettare chi era rimasto in vita, i genitori di Andrea?

Il rispetto è uno dei fari che illumina la mia carriera da cineasta, sia che si tratti di maneggiare una storia vera sia che si tratti di finzione. Ho diretto tanti documentari e, di conseguenza, ho lavorato non solo con storie vere ma anche con i diretti interessati che scelgono di raccontartela facendoti un grande regalo esponendosi. Da studentessa di cinema alla UCLA, ricordo ancora una masterclass con Werner Herzog in cui abbiamo discusso molto di cosa raccontare e di cosa non, soffermandoci su quella che si potrebbe definire come ‘l’etica del documentario’.

Il ragazzo dai pantaloni rosa non era molto diverso dai miei precedenti documentari ed ero anche spaventata dal confrontarmi con una vicenda così tanto dolorosa. Ma come per un segno del destino è arrivato nella mia vita durante quello che io chiamo “l’anno della catarsi e delle storie che hanno a che fare con la morte”: ero infatti reduce da una documentario Cerchi, realizzato per la Fondazione emiliano romagnola per le vittime di reato, e tra gli intervistati c’erano i genitori di Elisa Bravi, una giovane ragazza vittima di femminicidio nel 2019. Conoscerli era stato per me straziante, intenso tanto quanto incontrare Teresa Manes, la madre di Andrea, una donna che ha avuto il coraggio di trasformare la tragedia più grande della sua vita in un seme utile a far germogliare qualcosa di buono per le altre persone.

Molto spesso di parla di Il ragazzo dei pantaloni rosa come di un film contro l’omofobia dimenticando come invece sia un film contro il bullismo omofobico. La differenza può sembrare insignificante quando invece, in un mondo in cui ogni parola ha importanza, va specificata.

Per me, era importante sottolineare come sia omofobia sia bullismo omofobico siano una forma di violenza molto radicata in una cultura maschilista e patriarcale come la nostra. Il bullismo omofobico può colpire tutti: Andrea Spezzacatena era così giovane da non aver né fatto coming out né capito quale fosse la sua identità di genere, come tutti i quattordicenni che si pongono domande per comprendere qual è il proprio modo di stare al mondo. Chi sono, chi sarò, chi mi piace, come devo rapportarmi agli altri, quale immagine gli altri hanno di me e via di seguito sono interrogativi che tutti quanti ci poniamo a quell’età a prescindere dalla propria identità di genere o orientamento sessuale.

Nonostante non si fosse mai dichiarato apertamente e non avesse chiaro chi era, è rimasto ugualmente vittima di bullismo omofobico a prescindere da un’identità che nessuno di noi sa e mai potrà più sapere semplicemente perché non ha avuto il tempo di diventare grande. Nessuno di noi, tanto meno io, dovrebbe permettersi di fare outing a qualcuno che non ha più voce per esprime per se stessa e questo è un dettaglio di cui in molti, nell’approcciarsi alla sua storia, dovrebbero tenere conto.

In questi giorni, ho letto un po’ di recensioni sul film e sono rimasta sfavorevolmente colpita da una che asseriva quanto non fosse abbastanza coraggioso perché non abbastanza “omosessuale”, proprio perché, pur mantenendo il mio sguardo femminista, ho voluto rispettare un adolescente che non c’è più e non potrà mai più dirci chi era. Non mi sarei mai nemmeno sognata di raccontare Andrea per chi non era perché, lo sottolineo ancora una volta, nemmeno lui stesso ha avuto il tempo di capirlo: sarebbe stata un’ulteriore violenza gratuita. Ma questo non vuol dire che il mio sguardo non rimanga queer o intimista.

Di contro, di certo c’è che il motivo per cui lo prendevano in giro era di matrice omofobica. Il bullismo omofobico è una piaga molto diffusa nelle scuole, dove l’insulto più frequente nei confronti di un ragazzo è frocio, al pari di troia per le ragazze. È un dato di fatto che non possiamo ignorare: viviamo in una società profondamente misogina e omofoba che miete vittime a prescindere dalla loro identità ricorrendo alla violenza, fisica o psicologica che sia. Dobbiamo cominciare a chiamare le cose con il proprio nome: il bullismo è violenza. Anche se lo identifichiamo con un termine che lo colloca in un’età specifica dell’essere umano, i comportamenti sono identici e si basano sulla prevaricazione e sul rifiuto dell’altro, l’esatto contrario di quelli che sono i valori principi della convivenza civile.

Margherita Ferri.
Margherita Ferri.

Sebbene Il ragazzo dai pantaloni rosa termini inevitabilmente con una morte, rimane un film estremamente gioviale.

Abbiamo voluto dare più risalto alla vita che al dolore. È stata per me come una missione scaturita da uno dei miei incontri con Teresa Manes, la madre di Andrea. In nome di quel rispetto di cui parlavamo prima, le ho chiesto cosa si aspettasse dal lavoro che ci apprestavamo a iniziare e la sua risposta è stata precisa: “Vorrei che fosse un film vitale, pieno di vita come lo era mio figlio”. Quelle sue parole sono state quella guida che ho poi condiviso con il cast, gli attori e la troupe: avremmo raccontato quindi la vita di Andrea e non la morte, che è comunque presente perché, purtroppo, la sua vicenda ha avuto un finale che non potevamo cambiare nonostante sul set ogni tanto ce ne dimenticassimo per quanta vita, ascolto e amore ci fosse.

Cosa hai cercato negli attori in fase di casting? Quali erano i punti fissi di cui non potevi fare a meno?

Claudia Pandolfi è stato il primo nome che mi è venuto in mente per il ruolo di Teresa. Non l’ho nemmeno provinata: fortunatamente, era libera per via di alcuni progetti che le erano saltati a causa del blocco del tax credit e si è da subito appassionata alla storia. Da madre di due figli della stessa età di Andrea e del fratello Daniele, ha preso molto a cuore la vicenda, si è anche posta tante domande e ha sentito molta responsabilità nell’interpretare Teresa.

Non potevo fare scelta migliore: Claudia era la persona giusta per la sua autenticità, la sua ironia e il suo essere una donna forte, concreta, presente e terrena. E si è rivelata pazzesca in ruolo per lei anche difficile, quello di una madre che non si accorge di quanto il figlio stia soffrendo, riuscendo anche a rimane in equilibrio nelle parti più dolorose: sarebbe stato fin troppo facile, anche per me, abbandonarsi al nichilismo di certe immagini del dolore che vedo in tantissimi altri film.

Andrea Arru aveva la faccia giustissima per il ruolo del bullo Christian. È il ragazzo più buono del mondo ma per il suo personaggio non si è risparmiato andando incontro a una trasformazione che trovo incredibile: nella scena della rissa, ad esempio, la sua interpretazione riesce anche a trasmettere paura perché è come se perdesse quell’umanità e quella fragilità con cui in qualche modo abbiamo cercato di caratterizzare il suo personaggio. Christian è chiaramente un bullo ma abbiamo lavorato sulle ragioni che lo spingono a proiettare i suoi problemi su Andrea e sul suo rapporto con la mascolinità, un tema fondante per la vicenda: il bullismo che Andrea subisce deriva proprio dal suo non aderire a degli standard imposti dalla società su come dovrebbero essere i maschi… laddove Andrea è libero di essere se stesso, Christian non lo è.

Samuele Carrino mi ha colpita già al primo selftape: il suo sguardo trasudava tenerezza. A ogni provino e prova, è migliorato tantissimo: si evinceva come si stesse dedicando anima e corpo al ruolo, con un un’espressività innati. Per non parlare poi della sua maturità emotiva, la sua umiltà, la sua dedizione al lavoro e la sua passione incredibile per la recitazione. Sebbene non abbia ancora quindici anni, ha un talento da adulto.

Talento che appartiene anche a Sara Ciocca: adorabile, bravissima, super tecnica e con una pagina Imdb più lunga della sceneggiatura stessa del film. Scherzando, dico sempre che ha vissuto già otto vite e che in realtà non è un’adolescente ma una attrice di 35 anni, in grado di saper far tutto: recita, canta, balla, suona il pianoforte, studia e cita Freud… In altre parole, la adoro. All’inizio era molto preoccupata per il suo ruolo perché, comunque, interpreta una ragazzina più o meno della sua stessa età di cui temeva di non riuscire a cogliere le sfumature ma poi ha trovato la giusta dimensione.

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Il ragazzo dai pantaloni rosa: Le foto del film

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In loro, è maturata presto la voglia di fare cinema. E in te?

Ho girato i miei primi cortometraggi, brutti, al liceo (ride, ndr)! Con un gruppo di coetanei, ho avuto la fortuna di frequentare un centro pubblico del mio comune, la Palazzina Imola, con una videoteca in cui potevamo vedere tutti i film che volevamo e con una telecamera a disposizione con cui poter girare eventualmente i nostri: c’erano anche degli operatori che tenevano dei corsi delle scuole e una piccola casa di produzione in cui ha mosso i primi passi anche un giovanissimo Stefano Mordini. Avevamo quindi la possibilità di proporre le nostre idee e, gratuitamente, realizzarle con le attrezzature che ci venivano date: è qualcosa per cui ringrazio sempre il luogo e la provincia in cui sono nata e cresciuta.

Durante l’università (ho scelto di frequentare Scienze della Comunicazione), ho cominciato a seguire diversi corsi tra cui quello di regia del Comune di Bologna, per cui ho realizzato un cortometraggio che è finito nel circuito del festival. Ed è così che mi sono ritrovata a frequentare come studentessa di scambio per un anno l’UCLA prima di decidere di tentare l’accesso al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.

A spingermi verso la regia è dunque stata la passione, accompagnata dalla fortuna di avere una famiglia che mi ha sempre appoggiata e di aver sempre lavorato, a cominciare da quei progetti televisivi (16 anni e incinta, ad esempio) che mi davano la possibilità di mantenermi e sperimentare in attesa che arrivasse il mio primo film.

E quel primo film si chiama Zen sul ghiaccio sottile, anche quello ambientato nel mondo degli adolescenti. Come del resto gran parte dei progetti a cui hai lavorato (compresa la serie tv Bang Bang Baby). Cosa ti spinge a voler continuare a sondare quell’universo?

Mi trovo molto bene nel raccontare quel tipo di storie e a lavorare con attori giovani: ognuno di noi ha la sua cifra e forse quella delle storie di formazione è la mia. Mi piace molto e non mi sono ancora stancata di girare intorno ai temi legati all’identità e al trovare il proprio posto nel mondo.

Hai trovato il tuo?

Sì, io sono a posto: ho compiuto quarant’anni e sto combattendo per smettere di essere una giovane regista. Vorrei essere una regista, adesso: forse dovrei farmi crescere la barba, metter su pancia e smettere di mandare in giro le mie foto, per acquisire credibilità (ride, ndr). Ma credo ancora nel potere salvifico del cinema e delle sue storie di poter cambiare il mondo offrendo storie che passano parlare realmente alla gente e in cui ci possa riconoscere: “Quella storia parla di me, non sono più la sola al mondo, non sono l’unica a porsi domande sulla propria identità” è quello che mi auguro si pensi davanti a un mio film. Punto su storie che siano catartiche ma il potere della catarsi dell’arte non ce lo siamo inventati noi…

Margherita Ferri.
Margherita Ferri.
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