Maria Chiara Arrighini rappresenta perfettamente una nuova generazione di attrici emergenti, portando con sé tutte le sfide e le complessità tipiche della Gen Z. La sua esperienza sul set di Quasi a casa, il suo primo film da protagonista in uscita nelle sale cinematografiche il 5 settembre per Fandango, e la successiva partecipazione al Festival di Venezia alle Giornate degli Autori, sono state un banco di prova per la giovane attrice bresciana, che ha affrontato con coraggio e determinazione un mondo nuovo, denso di emozioni e insicurezze.
In un'epoca in cui l'incertezza e la paura del futuro sembrano accompagnare costantemente i giovani, Maria Chiara Arrighini si distingue per la sua consapevolezza e capacità di riflessione. Non è solo una questione di recitazione, ma di crescita personale e di scoperta del proprio posto nel mondo, un tema centrale anche nel film prodotto da Vivo Film e Sacher Film con Rai Cinema. Quella paura di non essere mai abbastanza, la sindrome dell'impostore che molti giovani provano, Maria Chiara Arrighini l'ha vissuta in pieno, trovando però il coraggio di affrontarla grazie al supporto della sua squadra, in particolare della regista Carolina Pavone, con la quale ha condiviso un percorso di debutto straordinario.
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Il racconto del rapporto tra le due protagoniste di Quasi a casa, Caterina e Mia, una giovane alla ricerca del proprio posto e una cantante affermata, riflette le dinamiche complesse e sfaccettate che caratterizzano le relazioni della Gen Z: non più rigidamente etichettabili, ma fluide, mutevoli e cariche di significato. Maria Chiara Arrighini, nella sua vita personale, si è ritrovata a fare i conti con simili complessità, in particolare nel rapporto con la propria femminilità, un tema che oggi è al centro di un dibattito culturale più ampio, in cui la giovane generazione sta cercando di ritagliarsi uno spazio di autodeterminazione e autenticità.
Infine, il coraggio di Maria Chiara Arrighini di affrontare un’esperienza come il taglio dei capelli, che ha simbolicamente segnato la transizione da se stessa al personaggio di Caterina, è un atto di forza e di accettazione del cambiamento, un altro tratto distintivo della sua generazione. La sua capacità di integrarsi e di crescere attraverso l’arte e la recitazione riflette la determinazione dei giovani di oggi a trovare il proprio percorso, nonostante le paure e le incertezze.
Questa intervista in esclusiva, oltre a far emergere la professionalità di Maria Chiara Arrighini, diventa così uno spunto di riflessione sulle tematiche esistenziali che toccano profondamente la sua generazione, rendendola una voce autentica e sincera.
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Intervista esclusiva a Maria Chiara Arrighini
“È andata molto bene ed è stato molto bello”, risponde Maria Chiara Arrighini quando le si chiede come andata al Festival di Venezia, dove alle Giornate degli Autori è stato presentato il primo film di cui è protagonista, Quasi a casa. “L’emozione era tantissima e inizialmente difficile, complessa da gestire. La mia paura era quella di finirne schiacciata ma mi sono fatta forza anche grazie ai miei compagni di avventura, in primis la regista Carolina Pavone, anche lei al debutto”.
Quasi a casa rappresenta quasi uno spartiacque nella tua vita: primo film di finzione, prima volta da protagonista e prima volta a Venezia. Non ti sei sentita sballottata?
Un po’ sì, anche perché non ci si rende mai veramente conto di cosa stai facendo o hai scelto di fare nella vita. E, quindi, quando arrivi in un luogo come il Festival di Venezia, dove si celebrano il cinema, le storie e gli attori, ti arriva tutto quanto, con le sue domande e risposte.
Quasi a casa, dicevamo, tuo primo film di finzione. Qual è stata la difficoltà più grande il primo giorno di set, l’ostacolo maggiore che hai dovuto affrontare?
Ce ne sono state tantissime di cose difficili ma forse la maggiore è stata la paura che avevo di non riuscire a lasciare andare il giudizio che avevo su me stessa nel trovarmi in quel luogo. Prima volta, molto spaventata e con la sindrome dell’impostore, non è stato semplice: si è convinti di non essere mai abbastanza, anche quando stai facendo qualcosa di incredibile. A quel punto, occorre mordere, aggrapparsi con i denti e con forza a quello che sta accadendo.
Di grande aiuto mi è stata Carolina, che per contrastare la sindrome dell’impostore mi ha invitata a leggere un libro, Open di Andre Agassi, la biografia in cui l’ex tennista esprime un pensiero sulle partite di tennis che si è per me rivelato funzionale: si vince nel momento in cui si vuole farlo. E, in qualche modo, al di là dei dubbi o delle incertezze, una vittoria la si ottiene quando in realtà sei il primo a volerla. E, anche se non si vincesse, lo vorresti comunque e per questo faresti tutto il possibile per ottenerla.
Un po’ quella che in psicologia si chiama “profezia che si autoadempie”.
Con me, con la psicologia sfondi una porta aperta: è una parte fondamentale del mio immaginario, ha molto a che fare con il mio lavoro e fa la differenza.
Ma diplomarti all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, una delle più esigenti in Italia, non ti aveva aiutata a contrastare la sindrome dell’impostore suggerendoti comunque che, in qualche modo, eri un’attrice valida?
Credo che le certezze arriveranno andando avanti con il percorso: ancora non ne vedo e probabilmente mai ne vedrò. La D’Amico è un’accademia prestigiosissima e forse mi sono anche detta “brava” per essere stata ammessa ma fa parte del mestiere dell’attore vivere sempre in una situazione di disequilibrio. Il continuare a cercarsi è per me la strada per crescere personalmente ma anche per proseguire sulla via della recitazione.
Crescere è la parola giusta, dal momento che il dato anagrafico ci ricorda quanto tu sia giovane…
Una delle prime cosa che ho pensato durante la proiezione del film a Venezia è stato l’augurarsi che le persone vedano che sono al mio primo lavoro da attrice. Ed è stato molto bello anche per questo, per le tante prime volte che Quasi a casa rappresenta: è anche il primo film di Carolina Pavone ma anche di Coca Puma, che ha curato la colonna sonora, e di Francesca Taddeucci, che si è occupata del montaggio. È incredibile come le persone possano assistere al lavoro congiunto di tante giovani che vogliono trovare il proprio posto nel mondo del cinema.
Carolina sembra essere un nome che porta bene alle giovani registe a Venezia. Sovviene in mente un’altra Carolina (Cavalli) che aveva esordito qualche anno fa a Orizzonti con un film altrettanto straordinario, Amanda. Le due opere in qualche modo, seppur con linguaggi differenti, sembrano comunicare.
La differenza maggiore sta nel linguaggio a cui ricorrono ma entrambe fanno parte di quella fantastica generazione che è anche la mia e condividono il desiderio di raccontare personaggi e figure non convenzionali per abituare il pubblico a vedere qualcosa a cui ancora non è avvezzo: essere strani o diversi da ciò che generalmente ci dicono va bene.
Carolina Pavone è colei che mi ha fatto vedere che stare male, essere insicuri o non essere convinti va bene perché fa parte del gioco: non perché lei si senta arrivata ma perché ha effettivamente avuto la fortuna di essere dotata di una sensibilità che l’ha spinta verso quel tipo di riflessione sui personaggi di Mia e Caterina. Ed è lo stesso tipo di sensibilità che ha anche Carolina Cavalli: sta venendo fuori una bella generazione di registe tra loro molto diverse ma sempre ben centrate sui personaggi femminili.
Quello tra Caterina e Mia è un rapporto molto complesso. Hai vissuto mai qualcosa di simile in ambito privato?
Non tanto con le amiche ma con gli amici, maschi. Ma è anche bello che ci siano scontri di visioni e di punti di vista. Non ho mai avuto invece un rapporto come quello tra le due protagoniste con una persona più grande di me: ci si è limitati alla profonda stima.
Hai diviso il set di Quasi a casa con Lou Dillon, attrice e cantante francese dalla navigata esperienza.
Lou è stata molto amorevole nei miei confronti e molto rispettosa del mio lavoro: non si è mai messa in una posizione di potere e non ha mai cercato di prevaricare in nulla. Si è mostrata sempre estremamente gentile ed io la guardavo come se avessi di fronte una dea: ha un’aurea incredibile. Il fatto che si trovi in una fase della vita diversa dalla mia, che abbia un’esistenza totalmente differente e che appartenga a un altro paese ha sicuramente aiutato anche nella realizzazione del film: non ho quasi dovuto recitare così tanto! Sul set, si è poi creato un rapporto di rispetto e di amore che ha fatto sì che sia stato bellissimo ritrovarsi e rivedersi a Venezia.
Cosa pensi di aver imparato da lei e, al contempo, cosa credi di averle trasmesso?
Da lei credo di aver assorbito il modo di stare al mondo, come far esistere la propria femminilità e il proprio essere donna. È semplicemente lei, rispondendo al suo desiderio di essere nella maniera in cui ha scelto, con un’eleganza e una dolcezza meravigliosa. Ho girato Quasi a casa in un momento in cui stavo vivendo un rapporto contrastante con la mia femminilità, proprio per via della mia giovane età, e Lou mi ha mostrato che va sempre bene, qualsiasi cosa tu scelga di essere. Io mi auguro di averle fatto arrivare il mio entusiasmo e il mio sguardo sulle cose.
Rapporto contrastante con la tua femminilità, eppure il film ti ha richiesto qualcosa che è sempre complicato da fare: il taglio dei capelli.
Era stato creato un taglio specifico per Caterina e quel taglio in qualche modo mi ha aiutato a essere costantemente il personaggio e non più Maria Chiara. È andato a buon fine solo dopo tre tentativi. Il primo fallì, non ne eravamo convinte ma me lo sono tenuto ed è stato strano. Il secondo si avvicinava al risultato finale ma ho continuato ad avere per una settimana dei capelli che non mi facevano sentire a mio agio tanto che ho anche pianto e mi sono chiesta come avrei potuto girare un film con un’immagine che non mi faceva star bene. E poi è arrivato il terzo taglio, pazzesco, quello che ha permesso a Maria Chiara e Caterina di combaciare e di andare a convivere.
È stato come se Caterina fosse entrata in Maria Chiara e non, come solitamente si dice, l’attrice nel personaggio.
Assolutamente. Il taglio dei capelli non è una cosa da poco e ringrazio sempre l’hairstylist del film, Arianna Palmucci, per la cura che ha avuto in quel momento nei miei confronti: “Chiamami o scrivimi per qualsiasi cosa, parlami delle percezioni che hai quando ti svegli al mattino e fammi sentire cosa provi: parliamone insieme e capiamo”. Ha avuto profonda attenzione e delicatezza affinché io stessi bene anche nella vita di tutti i giorni. Tant’è che poi i capelli corti sono diventati i miei capelli, quelli con cui stavo bene.
Prima delle riprese del film, eri conscia di saper cantare?
Sì, perché comunque avevo studiato canto per tanti anni, anche in accademia dove, comunque, si viene preparati su tutto ciò che concerne le arti sceniche. Non sapevo però se sarei stata in grado di farlo per un film… Una delle parti più divertenti della preparazione è stato il lavoro che ho fatto con Coca Puma per cercare la voce di Caterina: abbiamo condiviso lunghe sessioni di lezioni in cui lei mi ha anche donato le sue canzoni.
Quasi a casa: Le foto del film
1 / 23La regista e sceneggiatrice Carolina Pavone, la musicista Coca Puma, la produttrice Marta Donzelli, la co-sceneggiatrice Michela Straniero, l’hairstylist Arianna Palmucci, la montatrice Chichi Taddeucci, la scenografa Cristina Del Zotto, la costumista Giulia Chiaretti: tante donne. Ha ciò facilitato il lavoro?
Sì, ma quelle tante donne non sono comunque abbastanza. La presenza femminile è stata fondamentale per me e per lavoro al film nella maniera più rassicurante e serena possibile. Ma le donne su un set non sono mai abbastanza: per conto mio, dovrebbero essercene ancora di più. Non è un discorso sulle quote rosa però credo che bisognerebbe approcciarsi sempre con un maggiore ascolto verso quello che accade su un set. In questo caso, sono stata molto fortunata: in una troupe variegata, tutti sono stati amorevoli nei miei confronti sostenendomi laddove è stato possibile farlo.
Per studiare recitazione hai dovuto lasciare casa, trasferendoti dalla tua Brescia a Roma. Cosa ha rappresentato per te lasciare il tuo mondo per abbracciarne un altro?
Lasciare casa per me è stato in realtà un grande regalo, anche se dolorosissimo e fonte di paura e terrore, tanto che durante il primo anno di accademia tornavo spesso dai miei. Il distacco definitivo è avvenuto in maniera concreta e forte poco tempo fa quando, crescendo, mi sono resa conto che casa mia non era più la mia. E anche in questo caso si è trattato di un momento molto doloroso perché non sai bene dove sei, chi sei o dove stai andando.
Hai oggi la sensazione che Roma sia casa tua o ti manca ancora qualcosa per dirlo?
Credo manchi ancora qualcosa. Roma è una città che ha dei luoghi meravigliosi e che ti accoglie ma ci sono aspetti che ancora non mi fanno dire di stare totalmente bene. Sono quasi a casa.
Ma cosa ti ha spinto a voler diventare attrice?
Come nel più classico dei racconti, le recite scolastiche al liceo. Che erano, nella fattispecie, delle vere e proprie produzioni. Tutti i martedì, dopo la scuola, frequentavo un laboratorio senza saltare mai un appuntamento ed è stato quella la prima volta che mi approcciata al concetto di compagnia teatrale, con un regista esterno, Fausto Ghilardini, che faceva un lavoro speciale con le scuole superiori di Brescia. Per 5 anni, abbiamo lavorato a 5 spettacoli differenti per Inventari Superiori (rassegna bresciana, ndr) con oltre 40 ragazzi e ragazze in scena. Ed è nato così il mio desiderio di proseguire con la professione.
Di questi spettacoli ce n’è qualcuno che ti è rimasto nel cuore più di altri?
L’imperatore dei polli, tratto da Romolo il grande di Friedrich Dürrenmatt.
E i tuoi genitori come hanno reagito quando hai detto loro che avresti studiato recitazione?
Mia madre è insegnante di Lettere mentre mio padre è pediatra. Nutrono entrambi grande amore verso la cultura e credono tanto nell’arte, ragione per cui non mi hanno mai osteggiata. Sono poi l’ultima di quattro figlie e probabilmente non si sono nemmeno tanto preoccupati di ciò che andavo a fare (ride, ndr): “Vuoi farlo? Ma certo!”. Si fidavano del fatto che sarebbe andato tutto bene.
L’ultima dei figli, scherzando, mi ricorda sempre un famoso sketch di Teresa Mannino sulla considerazione che ne hanno i genitori.
In parte, è vero. Ma c’è da premettere che comunque l’ultimo dei figli è anche quello che, involontariamente, è comunque più viziato degli altri e viene lasciato molto libero.
Ultima di quattro sorelle, una sorta di Piccole donne. E, a proposito di donne, hai portato in scena a teatro Wonder Woman. Se tu fossi una wonder woman, che super potere vorresti avere?
Forse mi piacerebbe il dono dell’invisibilità per poter guardare e osservare gli altri senza risultare molesta. Non tanto per non essere osservata io ma proprio per evitare che gli altri si sentano scrutati e smettano di comportarsi così come farebbero normalmente.
E, se avessi la possibilità di cancellare qualcosa della realtà che ti circonda, cosa sarebbe?
Il patriarcato, senza dubbio. Ne ho avvertito anch’io il peso come qualsiasi ragazza che vive la sua adolescenza come una repressione. Adesso sono invece in una fase di vita in cui sto cercando di ottenere la mia rivincita personale: ho preso consapevolezza di come vanno le cose e dell’esistenza del patriarcato e, quindi, in qualche modo, ho scelto di provare a cambiare.
È difficile cambiare se hai accanto qualcuno che te lo vieta o ti tiene sotto controllo. Hai mai lasciato che un tuo eventuale partner decidesse per te?
Non mi sono mai ritrovata in una situazione del genere ma, qualora capitasse, direi di “no”. Trovo che comunque il rapporto con il maschile sia molto complesso proprio per via del retaggio che secoli di tradizione hanno lasciato e trasmesso di generazione in generazione, anche su tante cose a prima vista stupide come i commenti che noi donne ci si sente dire in adolescenza.
Quando li sentiamo, non ci rendiamo conto del peso che hanno o che cos’è quello che sta accadendo: a quattordici anni non ne avevo consapevolezza ma, quando ho realizzato cos’erano, mi sono sentita come se mi avessero rubato qualcosa. Solo dopo mi sono concessa una risata ironica.
Cosa ti auguri che arrivi dopo Quasi a casa?
Mi auguro di vedere tanti bei film come quelli di Carolina, in primis da spettatrice. E poi mi auguro di continuare a cercarmi come persona.
E da spettatrice qual è il tuo film preferito?
La nascita delle piovre di Céline Sciamma. L’ho recuperato di recente in una rassegna dedicata al cinema LGBTQIA+ dopo averlo cercato per tanto tempo. Ma in generale mi piace tutto il cinema di Sciamma e il racconto che fa dell’adolescenza e del corpo femminile, fin troppo spesso raccontati con uno sguardo maschile.