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Maria Pia Calzone: “Fottitene dal compiacere l’altro e sii te stessa” – Intervista esclusiva

Maria Pia Calzone
In occasione di Immaginaria, il festival internazionale del cinema dedicato alle lesbiche e alle altre donne ribelli, incontriamo in esclusiva una delle attrici simbolo delle giovani generazioni: Maria Pia Calzone.

Maria Pia Calzone, una delle figure più emblematiche e rispettate del panorama italiano, si è sempre distinta non solo per le sue capacità recitative ma anche come simbolo di forza e indipendenza femminile. Presidente di giuria alla XIX edizione di Immaginaria International Film Festival of Lesbians and Other Rebellious Women, Maria Pia Calzone porta con sé una carriera costellata di interpretazioni che sfidano le convenzioni e dialogano apertamente con temi di ribellione e autoaffermazione senza perdere mai di vista il significato delle parole rispetto e gentilezza.

Da noi raggiunta in esclusiva, Maria Pia Calzone ha esposto il suo punto di vista sulla necessità per le donne di preservare la propria autenticità in un mondo che troppo spesso cerca di imbrigliarle in ruoli prestabiliti. La sua voce leva potente contro la conformità, facendo eco all'intento del festival di celebrare le figure femminili che osano rompere gli schemi.

Nel corso dell'intervista, l'attrice riflette sulla sua personale definizione di "donna ribelle" — un tema che ha plasmato profondamente sia la sua vita professionale che personale. Discussione che si snoda attraverso aneddoti di set, le sfide incontrate nel suo percorso e le soddisfazioni ricevute in risposta alla sua integrità artistica e personale.

Maria Pia Calzone offre uno sguardo intimo sulle difficoltà di navigare in un'industria cinematografica ancora permeata di disuguaglianze di genere, pur mantenendo un approccio costruttivo e propositivo. Il suo impegno come attrice e come persona si è spesso concentrato nel sostenere progetti che promuovano una rappresentazione più equa e realistica delle donne, battaglia che continua a combattere anche attraverso il suo ruolo attivo in iniziative di parità di genere e sostegno alle produzioni femminili nel cinema.

Questa intervista esclusiva con Maria Pia Calzone, di recente apprezzata nella serie tv La voce che hai dentro, attualmente al cinema con La casa di Ninetta e prossimamente in tv nei panni della poetessa Matilde Serao per Il segno delle donne, non solo celebra i traguardi raggiunti, per quello esistono Wikipedia o Imdb, ma serve anche da manifesto per la necessità di un cambiamento culturale e sociale profondo. Attraverso le sue parole, scopriremo come la resilienza, la gentilezza e l'empowerment si intrecciano nel tessuto delle esperienze di una donna che ha fatto della ribellione un faro per la sua vita e la sua carriera.

Maria Pia Calzone.
Maria Pia Calzone.

Intervista esclusiva a Maria Pia Calzone

“L’aspetto più divertente è stato vedere come le persone in sala, al Festival di Bari sono state dietro a personaggi atipici ma in grado di raccontare la verità di un sentimento e hanno loro voluto bene”, è la prima risposta che Maria Pia Calzone ci restituisce quando al di là di ogni piaggeria le facciamo i complimenti per Sottocoperta, la commedia di Simona Cocozza di cui è protagonista con Antonio Folletto. Un film che permettere di riflettere senza necessariamente scadere nel dramma: “Ci tengo particolarmente alla commedia e credo che sia mille volte più complicata del dramma, proprio perché la commedia è matematica: dipende dalla complicità che riesci a instaurare con il tuo partner di scena, dal tempo e dal ritmo. È per me molto più soddisfacente: se funziona, vuol dire che hai lavorato bene”.

“Io e Antonio eravamo molto, molto contenti quella sera”, aggiunge Maria Pia Calzone prima di entrare nel vivo della nostra intervista. “Antonio è un attore straordinario, un grandissimo talento: abbiamo lavorato con delicatezza e con grande ascolto. Vedere che tutto ciò al pubblico è arrivato, ci ha emozionati”.

Maria Pia Calzone nel film SottoCoperta.
Maria Pia Calzone nel film SottoCoperta.

Ti ritroviamo oggi, domenica 13 maggio, presidente di giuria a Immaginaria, un festival che, tra lungometraggi, cortometraggi e incontri vari, celebra “le lesbiche e altre donne ribelli”. Cosa significa per te essere “una donna ribelle”?

Da ragazza, probabilmente avrei dato una risposta diversa. Da donna adulta che ama confrontarsi moltissimo con un femminile più giovane (ho moltissime amiche più giovani di me e il mio lavoro, per fortuna, mi consente di avere relazioni che non tengono conto del dato anagrafico) trovo che oggi le ragazze abbiano molti più strumenti di quanto ne avessi io, soprattutto nell’elaborazione dell’idea che per esistere non devi necessariamente compiacere l’altro.

Di conseguenza, essere ribelle comporta il non essere come l’altro si aspetta che tu sia: penso di aver perso tantissimo tempo (e non ne sono ancora immune) nel credere che per andare bene dovevo essere in un modo per cui erano gli altri a dirmi che andavo bene. Ribelli sono dunque tutte quelle donne che hanno il coraggio di essere se stesse senza il timore dell’approvazione dell’altro e senza la preoccupazione di essere accettata.

L’altro a cui fai riferimento è di sesso maschile?

Non necessariamente. L’altro è chiunque sia figlio del condizionamento sociale e culturale che ancora predomina, quella forma di patriarcato diffuso e latente nei confronti del quale le donne più adulte come me hanno una grande responsabilità: aiutare chi è più giovane a dire “fottitene, sii te stessa”. A me, ad esempio, non è stato insegnato, ci sono arrivata tardissimo, a spizzichi e bocconi.

Quand’è stato il momento in cui hai capito che quel “fottitene” doveva diventare anche una tua consapevolezza?

Non c’è stato un momento preciso ma è stato figlio di un processo messo in atto lavorando su me stessa ed elaborando quanto tempo avessi speso nel tentare di piacere agli altri. Occorre capire che piacere a tutti è una chimera: non accadrà mai, non potremo mai essere universalmente apprezzate e, quindi, tanto vale essere esattamente come sei, prima o poi a qualcuno piacerai.

È un ragionamento sulla carta semplice ma attuarlo non lo è. Ancora oggi, quando mi rendo conto di essere al cospetto di persone difficili o complicate per me è molto più semplice mandare segnali di distensione come quando in passato cercavo sempre di essere quella meno appariscente nella stanza e di non mettermi in mostra in particolar modo. È un esercizio di cui sono molto esperta e che ho imparato mentre mi costruivo come donna per timore di non essere accettata in quella stanza, prendendomi la sedia più scomoda. Una sedia da dove, però, potevo osservare tutti molto, molto bene.

È il prendersi la sedia più scomoda che ha fatto sì che ti laureassi in Lettere anche dopo essere stata ammessa al Centro Sperimentale di Cinematografia?

No, quello fa parte del mio desiderio di coltivare Maria Pia al di là dell’attrice. Sebbene mi sedessi nella sedia scomoda e fingessi di non essere particolarmente brillante, mi lasciavo sempre quella zona che mi permettesse di coltivare me stessa, per cui mentre frequentavo l’università ho fatto quel concorso per cui sono stata poi ammessa al CSC. Non avevo ancora terminato gli studi, da Napoli mi sono trasferita a Roma, passavano gli anni ma non mi rassegnavo all’idea di non finire l’università, per cui continuavo a pagare le tasse e a sostenere un esame ogni due anni.

Fino a quando, di tigna, a 32 anni non mi sono laureata ma l’ho fatto esclusivamente per me, non per dare conto e ragione a qualcun altro. C’era dietro anche una motivazione di riscatto personale e sociale: sono figlia di operai e mi faceva piacere concedere quella soddisfazione ai miei genitori. Anche se poi non ho voluto nessuno alla mia laurea, neanche loro: era semplicemente qualcosa di mio che non potevo lasciare incompiuto.

Di quel giorno, ho solo due fotografie solo perché un mio compagno del liceo, un mio fratello in pratica, sapeva che mi sarei laureata e quel giorno si è presentato con un mazzo fiori e una macchinetta fotografica.

Maria Pia Calzone nel film La casa di Ninetta.
Maria Pia Calzone nel film La casa di Ninetta.

Che donna sei?

Bisognerebbe chiederlo agli altri… penso di essere molto amabile, tranquilla e pacata, ma c’è sempre stato in me una sorta di sdoppiamento: quand’ero ragazzina, andavo ovunque per conto mio, con la mia macchina o con i miei mezzi, perché a un certo dovevo essere libera di potermene andare quando, da un momento all’altro, mi stancavo, anche se fino all’attimo prima mi divertivo come una matta. Ripensandoci, però, sono stata forse un po’ dura con i miei genitori… non ho voluto né loro né i miei suoceri nemmeno al matrimonio. Da questo punto di vista sono sempre stata molto ribelle alle convinzioni, al si fa così o al si deve fare in questo modo: ho sempre fatto di testa mia.

La ribellione ti accompagna anche quando si tratta di scegliere i ruoli?

Scegliere i ruoli è un po’ più complesso perché, purtroppo, non sempre ci è dato scegliere: magari potessimo farlo tutti. Da un certo punto in poi del mio percorso professionale, sono riuscita a creare una certa credibilità per cui spesso si pensa a me per ruoli interessanti e ciò non può che farmi piacere. Tuttavia, con molta onestà, dico che i ruoli si scelgono se si verificano almeno due di tre ragioni: vuoi lavorare con quel regista, ti interessa quel progetto e/o ti pagano un sacco di soldi.

Sottocoperta, ad esempio, è un film a cui ho preso parte con molto amore: volevo essere in quel progetto, lavorare con Antonio Folletto e, in più, lavorare con la regista Simona Cocozza e la produttrice Samantha Cito, che mi avevano cercato cinque anni prima. Certo, ci sono anche quelli che accetti per soldi perché sono quelli che ti danno poi la serenità di poter liberamente accettare un progetto meno commerciale ma in cui credi senza preoccuparti di cosa mettere in tavola.

Immaginaria si pone come obiettivo anche quello di infrangere il soffitto di cristallo che ostacola la produzione di film da parte delle donne. Oltre a far parte del collettivo UNITA, sei anche consulente per il MiC: è cambiato qualcosa negli ultimi anni?

Di sicuro c’è stata una grandissima accelerazione di dialogo e confronto su tema. Ci sono ad esempio realtà come Women in Film e altre che magari già esistevano prima che hanno finalmente cominciato a dialogare. Non è una caso la nascita di UNITA, un’associazione di interpreti che si sono messi insieme perché volevano finalmente un contratto collettivo nazionale: è un segnale di una presa di coscienza che finora non c’era mai stata.

Faccio parte dell’Osservatorio per la Parità di Genere, nato due anni sul modello di quello francese con la volontà di essere un riferimento delle istituzioni sul tema. La carica mi ha dato la possibilità di capire una serie di meccanismi, anche comunitari, sulla questione, per cui ci sono aspetti che sono migliorati per rispettare anche in Italia delle indicazioni che arrivano dall’Europa.

Purtroppo, però, la teoria si scontra sempre inesorabilmente con una mentalità italiana che fatica ad andare avanti. Ragione per cui, nonostante ci sia consolidata la buona norma di non fare convegni, congressi, dibattiti e quant’altro senza prevedere la presenza di esperte donne in quell’ambito, ci ritroviamo ancora di fronte a trasmissioni tv in cui a parlare di aborto sono tutti uomini, contravvenendo anche alle regole di servizio pubblico interne alla Rai. Una situazione del genere fa capire quanto il potere resista con le unghie e con i denti al cambiamento.

Esiste, ad esempio, un report annuale che la Rai deve stilare ogni anno sulla raffigurazione femminile nella sua programmazione. Nonostante si dica che va tutto bene, spulciandoli ci si rende conto delle falle e di come nulla in realtà vada bene. Basti pensare che anche all’interno degli organici della televisione pubblica quasi nessuno sappia come Marinella Soldi, sul modello della BBC, stia cercando di creare un database di esperte per ogni settore e ambito da chiamare per le trasmissioni giornalistiche di approfondimento, dalla biologa alla ginecologa. Per cui, di fatto, non convocare un’esperta per parlare di aborto è solo pura pigrizia: non è che le esperte non esistano, semplicemente non le si cercano.

Tornando alla domanda, i dati in generale ci dicono che qualcosa negli anni è cambiato. Il numero delle produttrici, ad esempio, non è malvagio. Tuttavia, è il potere economico non in mano alle donne che non consente loro di arrivare alla ‘ciccia’ del danaro. Si verifica dunque quello che accade per le registe. In Italia, abbiamo un numero impressionante di registe documentaristiche e il perché è lampante: quello è il budget a cui riescono ad arrivare. Per non parlare delle disparità evidenti, dati ala mano, che si evidenziano quando una regista prova a fare il suo secondo film: mentre un esordiente uomo impiega in media due anni per la sua opera seconda, una donna ne impiega otto, se le va bene.

Il problema concreto risiede nel finanziamento. Nel 2020 EuroImages, che valuta l’impatto delle leggi europee sui vari stati comunitari, a fronte delle novità che sono state introdotte per incrementare la presenza femminili e la parità in merito all’accesso ai fondi ha sottolineato come ci sia ancora molto da fare, consigliando di attuare per almeno due anni una sorta di ‘disparità al contrario’: a parità di valore di progetti presentati, si consiglia di prediligere quelli female driven, composti al 60% da donne.

Quando ho sottolineato, pur non essendo il mio mestiere, la cosa alla Commissione Cinema due anni fa, un paio di membri dell’Osservatorio non hanno concordato dicendomi che non guardano chi ci sta dietro a un progetto, nonostante la Comunità europea asserisse non solo che andava fatto ma anche che, qualora piacessero entrambi, si doveva preferire quello femminile per il biennio 2021-23. Finora, invece, si è guardato alla bontà della sceneggiatura e alla fattività del progetto per evitare che i soldi pubblici vengano sprecati.

Di base, quello della fattività è un assunto corretto, lo Stato non può permettersi di dare fondi a progetti che non hanno garanzie di essere concretizzati, ma di fatto genera un cane che si morde la coda proprio perché sono i progetti femminili quelli che solitamente in prima battuta non riescono ad avere una struttura produttiva salda e forte. Allora forse qualcosa va cambiato nel sistema, a cominciare da quello che per me è sempre l’anello debole di tutta la filiera, la distribuzione: si potrebbe ad esempio trovare una chiave per cui, contestualmente al finanziamento ministeriale, si garantisca la possibilità di rendere fruibili i progetti finanziati, di farli vedere al pubblico.

Maria Pia Calzone e Sergio Castellitto in Non ti pago.
Maria Pia Calzone e Sergio Castellitto in Non ti pago.

Nei 33 titoli proposti da Immaginaria troviamo soprattutto il racconto di grandi donne. Quali sono state le grandi donne della vita di Maria Pia Calzone?

È una domanda a cui sono forse impreparata. Essendo una donna che si è costruita molto da sola, mi sono sempre aggrappata a tutti i modelli femminili che mi insegnavano qualcosa, dal cucinare a come stare al mondo. Ho rubato qualcosa da tutte le donne con le quali ho avuto a che fare e che mi sembrava avessero un qualcosa che io ancora non conoscevo, non avevo o che mi tornava utile. Da ragazza leggevo moltissimo, la letteratura è stata la mia grande compagna, per cui Jane Austen o Charlotte Bronte sono state per me grandi compagne di viaggio.

Ma nel novero delle grandi donne non posso non aggiungere Goliarda Sapienza: è stata mia insegnante al CSC. Ho rivisto qualche sera fa uno speciale a lei dedicato e ciò ha innescato una serie di ricordi personali sulla sua figura. Avevo di lei un ricordo “contrariato” perché, nel ripensarci, non mi è stata utile per la recitazione, non capivo bene cosa mi stesse insegnando da quel punto di vista.

Eppure, nel ripensare alle sue lezioni più di vita che di recitazione, al suo carattere ribelle, alla sua indolenza e alla sua propensione per il racconto, mi sono tornate alla mente con molta tenerezza delle cose che avevo dimenticato e rimosso. Rivederla e risentire il suono della sua voce ha riaperto un varco: pensavo non mi avesse insegnato nulla e invece è stata una di quelle donne speciali che, solo nell’ascoltarla, è riuscita a trasferire in me un femminile che in qualche modo ha poi attecchito.

Nel rivedere tutte le donne che mi sono passate accanto e che ho amato profondamente, un’altra persona importantissima nella costruzione della mia carriera è stata Sandra Milo. Abbiamo portato in scena insieme Amleto, io interpretavo Ofelia e lei la regina, e in una delle tante sere in giro per l’Italia parlando mi disse come nella costruzione di una carriera il talento valesse semplicemente due: “Ci sono tantissime altre cose che contano, sei sicura di volerle trovare?”. Di fronte alla mia perplessità, mi disse che ciò che più contava era, ad esempio, il tempo perché spesso ci si demotiva per giusta causa e quindi si abbandona tutto. “Solo se avrai la forza di non lasciare, ce la potrai fare”. E aveva ragione lei.

Ma tu a un certo punto del tuo percorso hai lasciato.

A quarant’anni, ho lasciato tutto… è accaduto quando ho realizzato che il mio non era più un lavoro ma un hobby perché non mi consentiva di vivere dignitosamente. Mi chiedevo se fossi forte e ostinata nell’andare avanti o stupida, non in grado di vedere la verità. Non riuscivo a esprimermi come volevo e mi venivano offerte cose che non mi piacevano, non avevo in cambio né gioia né sopravvivenza.

È stato difficile riprendere il percorso di attrice?

Sono andata in analisi. Ho elaborato il lutto ed ero molto più forte. Anche se per i primi due anni dal ritorno ho vissuto il tutto in maniera scettica. Non è stato difficile nella misura in cui non erano più gli altri che rifiutavano me ma ero io che stavo in guardia. E il cambio di sguardo e di prospettiva ha inficiato anche il modo in cui mi ponevo verso l’altro: ero meno complicata e meno problematica a livello inconscio. Inconsciamente non pregavo più l’altro di prendermi perché dalla sua scelta sarebbe dipesa la mia felicità (non avrebbe mai voluto tale responsabilità sulle sue spalle) e lasciavo che le cose andassero come dovevano andare, risultando anche più rassicurante e rilassante.

Maria Pia Calzone nel film Mater Natura.
Maria Pia Calzone nel film Mater Natura.

Il tuo è un percorso segnato da tanti ruoli indimenticabili. Ma ce n’è uno che più di ogni altro non può che tornare alla mente: Desiderio nel film Mater Natura.

Desiderio è stato il mio atto di coraggio più grande. Oggi sarebbe diverso perché ci sono tante ragazze transgender che hanno accesso al mondo della recitazione ma allora non era così. Non si trovava l’attrice giusta per il personaggio e, quando mi è stato proposto, ho colto l’opportunità, pur avendo tantissima paura. Ma è stata quella la prima volta in assoluto in cui mi sono sentita amata dal pubblico…

E dagli addetti ai lavori?

Non tanto. Nonostante il film avesse vinto la Settimana della Critica a Venezia, non rientravo nella categoria delle attrici intellettuali e chic: da un certo punto di vista, non era cambiato niente e non ha fatto accrescere l’interesse nei miei confronti da parte di chi avrebbe potuto farmi lavorare. Il pubblico, però, per la prima volta ha sentito la necessità di avvicinarsi a me, di abbracciarmi e di baciarmi. Ricordo ancora come a un festival a Tokyo la gente mi veniva incontro con le lacrime agli occhi ringraziandomi per aver raccontato la loro storia…

Sebbene consideri quel film il mio triplo salto mortale carpiato, mi ha messo in connessione con un’umanità bellissima permettendomi di vivere esperienze fortissime e di farmi un regalo prezioso, il non avere paura. Ho provato quello che volevo e quello che mi mandava quando ho detto ‘basta’: quell’amore che mi permette di entrare nella vita di qualcun altro e in qualche modo di cambiarla con i miei personaggi.

Proprio di recente, ho ricevuto un bellissimo messaggio privato su Instagram da una ragazza che, dopo avermi scoperta è andata a rivedersi parecchi miei lavori, e il sapere, come ha scritto lei, che con il mio modo di pormi, la mia ironia e il mio modo di essere leggera, posso essere di grandissimo aiuto o di ispirazione per una giovane della sua età mi inorgoglisce. Sono un’adulta che incoraggia e non un’adulta che osteggia o che ti toglie gli orecchini come è successo a me da ragazza su un set con un’attriciona solo perché i miei erano più belli dei suoi.

Tra le tante cose che fortunatamente sono cambiate c’è anche questo: a differenza di quell’attrice lì, a me fa piacere il successo delle mie amiche giovanissime… me le coccolo, voglio a loro bene e, se posso esser d’aiuto, do loro qualche consiglio: ci sono sempre.

Pensi di aver oggi avuto quel riconoscimento che per tanto tempo è mancato?

Rispondo con le parole di mio marito quando mi vede un po’ avvilita: “Non guardare dove sei arrivata e non paragonarti a chi sta lì insieme a te o a chi sta più avanti: guarda da dove hai iniziato”. E ha ragione lui. Avrei potuto fare di più? Sì, se non fossi stata la donna ribelle, ostinata e integra quale sono. avrei potuto fare scelte completamente diverse ma non sarebbe tutto mio, piccolo o grande che sia, quello che ho ottenuto e che mi consente di avere accesso a dei ruoli che mi permettono di esprimermi come desidero. Se ricevo dei messaggi di ragazze che mi ringraziano per quello che faccio, per quello che dico e per il modo in cui entro nelle loro vite, va bene così.

Maria Pia Calzone in Gomorra - La serie.
Maria Pia Calzone in Gomorra - La serie.

Donna Imma Savastano in Gomorra è stata più una condanna o un regalo?

Un regalo meraviglioso. Ho sempre amato donna Imma: non avrei mai potuto interpretare un ruolo così complesso senza capirne le ragioni profonde e stare dalla sua parte. Se a ciò aggiungiamo che in maniera paradossale mi ha regalato la commedia, non potrei che esserle più grata: è grazie a lei che poi mi hanno chiamata registi come Carlo Verdone o Sergio Rubini per quella che è la mia più grande passione… senza Imma non mi sarei ritrovata a fare una commedia romantica con Michele Placido e ad avere la possibilità di fare la mia versione di Julia Roberts: chi doveva dirmelo? (ride, ndr).

Senza contare poi le emuli di donna Imma viste in tante serie tv o film…

Non voglio assolutamente atteggiarmi, non è nella mia natura, ma è un dato di fatto. Ci sono degli approfondimenti che mettono in correlazione alcuni personaggi femminili forti di serie come Sons of Anarchy o I Soprano: donna Imma in Europa ha sdoganato finalmente la possibilità di raccontare le donne da un altro punto di vista. Fino a quel momento si pensava che certe donne non potessero avere particolare appeal o credibilità in determinati contesti di potere. Invece, ce l’avevano tanto che la stessa donna Imma con la sua morte ha finito con il creare un certo effetto nostalgia: persino il montatore si rifiutava quasi di lavorare alle scene della sua morte perché continuava a coglierne il potenziale.

Maria Pia Calzone.
Maria Pia Calzone.
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