Maria Roveran è stata in tv fino a qualche giorno fa. Era tra i protagonisti della serie tv Blackout – Vite sospese, appena conclusasi su Rai 1. Interpretava il personaggio di Petra Zanin, la figlia dei due proprietari dell’albergo. Un ruolo che ancora una volta l’ha vista alle prese con una dimensione drammatica, la stessa che secondo lei le affidano a causa della sua fisicità.
Dal 9 febbraio è possibile invece ritrovare Maria Roveran al cinema nel film I nostri ieri, diretto da Andrea Papini (in cui recita anche Teresa Saponangelo). Ispirato a una storia vera (o a tante storie vere, purtroppo), I nostri ieri ci porta all’interno di un carcere dove un documentarista, impersonato da Peppino Mazzotta, gira un film con l’aiuto dei detenuti sulla storia di uno di questi: un camionista condannato per aver ucciso una donna.
Maria Roveran, in un corto circuito che gli addetti ai lavori chiamano metacinematografico, presta il volto all’attrice professionista che, chiamata dal protagonista, recita accanto al detenuto Francesco Di Leva nei panni della vittima. Per la prima volta, come sottolinea la stessa Maria Roveran nel corso di quest’intervista, dà anima e corpo alla vittima di un femminicidio o, comunque, di una violenza di cui abbiamo smesso di stupirci.
Inevitabilmente, il nostro incontro con Maria Roveran, trentacinquenne veneta che ha cominciato a recitare quasi per caso in Piccola patria, ruota intorno al tema della violenza. Ne parla in maniera lucida e coerente, mostrando di essersi documentata per il personaggio ma anche per la sceneggiatura di I nostri ieri, a cui ha anche collaborato.
Pian piano, tra una domanda e l’altra, emerge un ritratto inatteso di Maria Roveran. Alla ragazza che solitamente vediamo sullo schermo si sostituisce la giovane donna alla ricerca di se stessa, molto più interessata all’essenza che all’apparenza. Ironica, fluviale e dalla disarmante dolcezza, Maria Roveran si lascia andare a più di qualche (dolorosa) confessione. Non è alla ricerca di attenzioni morbose o di titoli da clickbait: il tutto è accaduto in maniera naturale. È stato il flusso di pensieri a condurci fin lì, con la promessa di ritornare presto a incontrarci e a proseguire un racconto che ha ancora molto altro da dire.
Intervista esclusiva a Maria Roveran
Come stai?
Bene. Sono a Roma per questioni di lavoro. Come sai, il mio è un lavoro sempre in divenire: sai come parte ma non come può andare avanti.
Nel tuo caso potremmo dire che va avanti per scelte poco commerciali: sei sempre stata attenta alle storie che hai voluto portare sullo schermo.
Ci provo. Non è facile perché non si tratta di creare solo lavori artistici ma anche di poter lavorare, di vivere di ciò che si fa, quindi, tante volte bisogna anche trovare dei compromessi. Ho sempre desiderato sdoganare l’immagine dell’attore che lavora per pura passione: c’è quella ma si fanno anche delle scelte che permettano di sostenerci.
Tante volte il nostro è un ambito in cui non è che ci sia tanta possibilità di scelta. Nel mio caso, ad esempio, al di là della volontà di metter luce su dei progetti a cui tengo per questioni contenutistiche valoriali, c’è anche il fatto che, probabilmente, come tipologia d’attrice nonché fisionomia mi cerca più un tipo di cinema tendenzialmente più autorale.
C’è chi si è spinto al di là della tua fisionomia affidandoti prodotti diversi, come Mamma più mamma.
Il titolo inizialmente non doveva essere quello ma La bambina sintetica. Tuttavia, aveva colpito negativamente alcune persone: è una terminologia che si usa nell’ambito della fecondazione assistita e avrebbe potuto spaventare un certo tipo di pubblico. Del resto, l’intento del film non era quello di parlare di bambini in provetta ma di genitorialità. Si voleva trattare come argomento la famiglia omogenitoriale e ancora di più ciò che vi sta alla base: l’amore. Parlare di bambini in provetta avrebbe ridotto il tutto a una mera identificazione, anche scientifica. Eh, sì, qualcuno si spinge anche oltre a quello che rappresento a livello immaginifico e non è immediato: non sono solo la ragazza dai tratti comunque duri a cui affidare spesso ruoli drammatici.
In questi giorni, esce al cinema I nostri ieri di Andrea Papini. Guardando il film, ho avuto una strana sensazione. Il personaggio che interpreti ricorda tantissimo diversi casi di cronaca che hanno riempito e, purtroppo, riempiono i giornali.
L’associazione mentale è stata chiara anche a me. Tanto che ho iniziato a documentarmi: è stato un fatto di cronaca reale a ispirare Andrea. Per la sceneggiatura del film, ha anche fatto leva su una sua esperienza personale, la presentazione di un progetto filmico all’interno del carcere di Rebibbia di Roma. Quella circostanza lo ha colpito moltissimo e lo ha portato a scrivere la sceneggiatura di I nostri ieri insieme a Manuela Tovo, Gualtiero Rosella e la collaborazione della sottoscritta.
Il caso di cronaca realmente accaduto mi ha portato a lavorare tutti i giorni ricordandomi che stavamo trattando temi legati a fatti drammatici che purtroppo avvengono quotidianamente. Parlo della violenza perpetuata nei confronti delle donne ma non solo quella. Più in generale, potremmo parlare di violenza ai danni di chi è più fragile o considerato tale. Purtroppo, questi tremendi e inqualificabili accadimenti avvengono con una tale frequenza da sembrarci non più atti eclatanti e tragici: sembrano non stupirci quasi più. E da donna rimango esterrefatta di come ci si abitui a una piaga sociale che non conosce distinzione geografica o culturale.
E non si fa nulla per prevenirla…
È stata la prima volta nella mia carriera in cui mi sono cimentata con il ruolo di una vittima di femminicidio. Nel mio lavoro metto anima, corpo, sensazioni ed emozioni, ovviamente anche personali, mie, di “Maria”. Do sì vita a un personaggio in scena ma parto anche da me e, facendolo, mi sono accorta di quanto le situazioni possano degenerare in maniera imprevedibile nel giro di pochi secondi, tramutando quella che era una persona serena, in pace con la propria esistenza, in “un carnefice”. Quella che prima era una donna, con la propria identità e la propria storia alle spalle, in “la vittima”.
Non riusciamo qui a prevenire il degenerare delle situazioni. Dobbiamo semmai interrogarci su cosa c’è a monte che non va. Il lavoro da fare non dovrebbe essere unicamente quello di indignarci di fronte all’atto avvenuto: dovremmo lavorare a livello culturale, relazionale e sociale, per far sì che uomini e donne imparino a gestire le proprie emozioni, governarle e padroneggiarle in maniera consapevole.
In molti considerano una perdita di tempo lavorare sugli esseri umani. In questo periodo storico non ci accorgiamo di lavorare su tutto ciò che è accessorio ed esterno agli esseri umani e non sugli esseri umani. O, se lo facciamo, operiamo solo in contesti che sono troppo ristretti e troppo elitari e no, forse, dove c’è davvero bisogno di lavorare. Viviamo un’epoca in cui ce ne freghiamo dell’ambiente e dell’essere umano, non ci interessiamo più di quello che ci circonda e non ci concepiamo più come parte di esso. Ci sembra quasi una perdita di tempo e inevitabilmente la qualità della nostra vita sta peggiorando. E non siamo felici: siamo abbondanti e tracotanti ma non felici, non si spiegherebbero altrimenti l’alto numero di psicofarmaci venduti, il disagio che viviamo e che ci circonda.
C’è un livello di disagio non accettato e non dichiarato, di cui ci vergogniamo, probabilmente, e che non riusciamo ad affrontare. È questo che porta a situazioni violente devastanti e alla disperazione. Siamo disperati senza dircelo.
E tu al momento sei felice? Come affronti l’infelicità? E, soprattutto, a quali sensazioni hai fatto appello mentre giravi la scena della violenza che ti vede al centro nel film I nostri ieri?
Andrea Papini mi ha chiesto di non far vedere troppo le emozioni che provavo perché non voleva calcare la mano. Rivedendomi, mi sono vista come trattenuta ma comprendo il desiderio del regista di non voler esasperare quella lunga sequenza. A cosa mi sono aggrappata? Per me, il mio è un lavoro fantastico: è uno dei pochi che fortunatamente mette in contatto testa e corpo. E ci sono situazioni, come questa, in cui lasciare al corpo la possibilità di sentire ciò che accade. Ciò genera di per sé immagini e sensazioni che portano significato alla scena.
Mi sono ritrovata a recitare con Francesca Di Leva all’interno di un rimorchio di un metro per un metro, un ambiente che determinava un contatto fisico di per sé estremamente ravvicinato. Le nostre bolle fisiologiche di privacy erano già compenetrate l’una nell’altra ed esasperare la cosa con un contatto di violenza è stato fortissimo. Conoscere quell’ambiente, concedergli fiducia, esperirlo, ascoltarlo e osservarlo è stato un modo immediato per creare verità e calarmi in quella situazione. Ho fatto prima un lavoro di documentazione e studio anche sulle dinamiche psicologiche e comportamentali messe in atto dalla vittima, che si trova in un primo momento a dissimulare la sua preoccupazione e, poi, a perdere il controllo.
Nella sequenza presentata dal film, la prima a perdere il controllo, in realtà è stata proprio la donna. È lei che è salita su un mezzo che non è suo, il camion, per reclamare il danno subito e battersi per avere un risarcimento. Ma lo fa senza considerare lo spazio altrui: si potrebbe dire che la sua è una forma di violenza relazionale e comunicativa. Per quanto mossa da buone motivazioni, ha agito senza avere coscienza di cosa stava facendo e come. Sia chiaro a chi legge: non sto dicendo che se l’è andata a cercare, che è la scusa più bieca e atroce in casi di violenza contro le donne. È semplicemente l’analisi della dinamica che con Papini abbiamo messo in scena, quella di una donna che, spaventata e arrabbiata, non ha per prima tenuto sotto controllo il proprio corpo e le proprie parole.
La violenza non è mai, mai legittimata. L’intento, nel rappresentare la vicenda narrata dal film, era quello di mostrare come quell’atto di violenza possa essere stato anche inconsapevolmente scatenato da quella che poi è, purtroppo, diventata “la vittima”. Non c’è però alcuna giustificazione al male che viene dopo e non esiste nessun “se l’è andata a cercare”.
Credo che in un mondo di persone che stanno bene, in buona salute psico-fisica e in buona relaziona con sé e con gli altri, nessuno vorrebbe mai andare a cercare di morire o di uccidere, se solo avesse la possibilità di sperimentare la consapevolezza e il valore di sé e dell’altro da sé. Vogliamo lavorare anche su questo? Vogliamo prenderci cura delle vittime e dei carnefici prima che vengano insigniti di tale etichetta?
Appurato il valore di essere donna ed essere uomo, andiamo oltre e concentriamoci sull’essere umano. Cosa succede agli esseri umani quando qualcosa di violento innesca altra violenza? Se non ci chiediamo questo, daremo giudizi su vittime e colpevoli senza riuscire a migliorare e risolvere il processo che si mette in atto.
Siamo forse troppo pigri per porci delle domande. Abbiamo bisogno di stare comodi e, quindi, è molto comodo dire cosa è giusto e cosa è sbagliato mentre è scomodo lavorare sul concetto di buona relazione e benessere. Dovremmo lavorare su questo e cominciare a sondare le zone grigie: non possiamo definire solo ciò che è bianco e ciò che è nero. Non è facile, serve uno sforzo maggiore ma credo sarebbe bene provarci.
Quali erano le altre domande?
E tu al momento sei felice? Come affronti l’infelicità?
Ciò che dico vi stupirà. Per affrontare le mie criticità e i miei dolori mi sto allenando nell’accettare il fatto di soffrire. Non posso migliorare il mio stato di benessere se non accetto che vivendo si può spesso soffrire. Tale accettazione deve passare non solo per la testa ma anche per il corpo: accetto che posso vivere attraversando fasi in cui provo dolore, piango, mi deprimo, soffro, provo frustrazione e altre mille emozioni che mi stanno star male.
Sembra una cavolata ma non lo è: riconoscere di soffrire e nominare cosa si sta muovendo in negativo in me è un buon primo passo. Le emozioni che ci attraversano non hanno un segno positivo o negativo di per sé. Siamo noi che glielo attribuiamo: se percepiamo qualcosa come negativo, vuol dire che c’è qualcosa che non va e che va ascoltato. Io cerco di darmi ascolto, osservarmi, ascoltarmi e osservarmi ancora, ancora e ancora, fino a quando non viene in superficie ciò che non va. Quando questo qualcosa affiora, spesso mi riporta a quello che è il mio bisogno insoddisfatto, a ciò che ha provocato il malessere.
E cosa faccio per trovare benessere? Personalmente, ho trovato benessere attraverso un percorso di psicoterapia. Studio counseling alla Scuola In Counseling di Torino diretta da Domenico Nigro, motivo per cui parlo in questi termini di emozioni e sentimenti. Sto scrivendo una tesi sul counseling applicato in ambito performativo. Consiglio il counseling a chiunque abbia bisogno di aiuto e di sostegno: è un percorso di crescita ed esplorazione molto potente. Consiglio di farlo senza aver paura di mettersi in gioco.
E continuo a lavorare affinché le relazioni con gli altri non passino mai in secondo piano. Credo nell’amicizia e nella famiglia, nelle persone che amo. Non è perché siamo nati in una famiglia che siamo esenti dall’impegno di far qualcosa per le dinamiche che si vengono a creare. E vale lo stesso per le relazioni d’amore e di amicizia, che considero come la forma più libera e bella d’amore e sostegno che possa esistere. Ho superato i momenti di infelicità pesanti grazie agli amici veri.
Professionalmente, quand’è stato il momento in cui credi di aver sofferto di più?
Durante una tournée teatrale molto importante, in cui ho condiviso la scena con un collega che non stava bene fisicamente e psicologicamente. Ho sentito tanto dolore in quel momento perché mi sono sentita in pericolo e incapace di gestire la sua sofferenza psicofisica. Dopo aver terminato il lavoro, ho finito la mia esperienza ricoverata in ospedale: non per colpa di quel collega ma probabilmente perché ero arrivata a un certo livello di saturazione: devo dire che ho subito un po’ di cosette in ambito lavorativo poco piacevoli…
In un’altra situazione, ad esempio, ho subito un trauma cranico perché un collega ubriaco mi ha spinto giù da un palco…
E lo hai denunciato?
No, ero troppo giovane. In quella situazione non mi sono sentita protetta al punto di denunciare, nonostante in ospedale mi avessero chiesto se volessi farlo. Non l’ho fatto per proteggere diverse persone che non c’entravano nulla e che avrebbero sicuramente subito delle conseguenze. Se ritornassi indietro, penso che troverei la forza per farlo e per proteggermi. Ho vissuto attimi in cui non sarei mai voluta entrare a far parte di questo settore ma poi ho realizzato che non è cambiando lavoro che avrei risolto la questione: gli episodi spiacevoli accadono in ogni settore. Se penso a quella dinamica, non posso dire di provare sensazioni di benessere però in qualche modo mi è stata utile per trovare dentro di me maggior forza.
Quando capita un’esperienza del genere come si torna in scena?
È stato terribile, ero spaventata. Dopo cinque mesi, mi hanno chiamata per dirmi che sarei stata la protagonista di uno spettacolo importante al Piccolo di Milano. Non ero mai stata in quel teatro: non sapevo quanto grande fosse il palco, a che altezza fosse e che avesse una buca per l’orchestra davanti a me. Dopo quell’episodio tremendo, mi sono ritrovata costantemente a guardare il bordo del palco e ancora oggi lo faccio, usando con coscienza lo spazio fisico che ho davanti.
Sei anche una cantautrice. Mi definisci cos’è la musica per Maria?
Per me la musica è un facilitatore di connessione, è una cassa di risonanza per le emozioni. Per me, è un modo veloce per entrare in contatto con gli altri attraverso la mia voce, i testi che scrivo e quelli che interpreto. quando salgo su un palco per cantare come se mi permettesse di evolvermi in “Super Sayan”. Sento che è quello il mio posto: mentre canto ascolto il silenzio, l’emozione e gli sguardi delle persone, è come se ci fosse un passaggio di energia. Non è una cosa naif, è reale: è come se arrivassi dentro l’anima di chi ho davanti e la loro arrivasse a me. c’è uno scambio, un fluire molto forte.
Hai mai pensato di dare preferenza alla musica piuttosto che alla recitazione? So che è come scegliere tra due figli e non si dovrebbe porre come domanda però la recitazione ti ha per certi versi portata via dalla musica.
È vero però senza la recitazione non sarebbe mai arrivata la musica. E devo dire grazie ad Alessandro Rossetto, il primo regista con cui ho lavorato in Piccola patria. Mi ha costretta a cantare senza sapere nulla di me. Nel corso delle riprese di una scena davanti ad altri interpreti mi ha chiesto di cantare una canzone, di improvvisare, e io sono andata nel panico più totale. Per me cantare voleva dire accedere a un lato emotivo così intimo che ancora non conoscevo e sapevo gestire. Mi sono sentita peggio che denudata, ho anche pianto. Se ci penso oggi, mi viene da ridere, ma è stato imbarazzante.
Quella sera sono tornata in albergo e ho trovato il coraggio di affrontare la cosa con il regista. Alessandro è uno degli uomini più intelligenti che io abbia mai incontrato: se mi ha chiesto di cantare per un film a cui stavo dando anima e corpo, un motivo c’era. Da grande osservatore, ha toccato delle corde che non erano facili da raggiungere. Ci siamo confrontati e ho capito che dovevo lavorare su quell’aspetto: non dovevano esserci limiti nella mia arte e non potevo non assecondare, da attrice, la volontà del regista. L’ho presa come una sfida personale: allora, in albergo, ho iniziato a scrivere dei brani ispirati al mio personaggio (in dialetto veneto, mai fatto prima) canzoni che sono diventate anche parte della colonna sonora del film!
Da bambina sognavo di cantare ma era qualcosa di recondito, tanto che ho anche studiato Fisica all’Università! Anche la recitazione non era nei miei piani: se non avessi incontrato Alessandro non avrei mai cominciato con il cinema. Ed è vero che il cinema mi porta via dalla musica ma non saprei scegliere tra le due cose. Sapevi che mi avresti messo in difficoltà, eh? Per me sono due facce della stessa medaglia che mi permette di esistere, di essere e di fare il lavoro che faccio. Cantando riesco a raggiungere maggior efficacia a livello comunicativo ma tutti mi dicono che devo continuare a recitare. Tuttavia, non esprimere preferenze è da ipocriti: sento di diventare Super Sayan quando canto.
Quanto è cambiata la Maria di I nostri ieri da quella di Piccola patria?
Molto. Ero poco più che adolescente ma ancora una bimba dentro: sono sempre un po’ in ritardo sui tempi di crescita e non sempre è un bene. Anche se avevo 23 anni, ero una bambina inesperta e inconsapevole.
Hai conservato il tuo essere “in ritardo”?
Sì, anche se negli ultimi due o tre anni sono successe varie cose per cui mi sento più donna. Mantengo sempre qualcosa di adolescenziale dentro che ogni tanto riemerge ma mi sento di aver conquistato un po’ di terra dell’essere donna.
E cosa vuol dire per te essere donna?
Esser donna vuol dire prendersi per mano, crescere, proteggersi e proteggere i propri ed altrui confini, ovviamente non in senso militaresco ma personale. Il tempo mi ha permesso di osservarmi e di dare valore alla vita che vivo, di avere più coscienza del mio corpo e in maniera sanamente egoistica di sapermi muovere per procurarmi quello che mi serve e per accettare di non trovarlo dove non c’è. Per me un uomo e una donna sono tali quando riescono a muoversi nel mondo senza pretendere nulla dagli altri, senza pretendere che gli altri rispondano sempre alle loro aspettative e bisogni.
E quando hai dovuto fare i conti con i tuoi errori chi ti ha accompagnato?
Bella domanda… tante persone che ci sono state tanto e poi tante persone che purtroppo avrei voluto ci fossero di più ma che non ci sono state. Avevano tuttavia dei buoni motivi per non esserci. Ho avuto una famiglia che ha cercato sempre di accompagnarmi, a volte anche nei momenti di abbandono. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono sentita sola ma crescendo mi sono resa conto che così non era.
Sei serena oggi?
Accetto la mia inquietudine. E quindi, avendola accettata, mi sento più serena di anni fa.