In un mondo in cui il silenzio e il ghiaccio della Val Resia diventano quasi personaggi viventi, la Alice interpretata da Marial Bajma-Riva nella serie tv di Rai 1 Ninfa Dormiente si muove come una figura enigmatica e distaccata dalla quotidianità. Un personaggio forte, che sfugge ai giudizi e alle convenzioni, Alice è una giovane donna dal passato complesso, il cui aspetto, dai capelli blu alla giacca di pelle, riflette la sua ribellione e la scelta di vivere una vita apparentemente isolata, ma dedicata alla verità.
Nell’intervista che ci ha concesso in esclusiva, Marial Bajma-Riva rivela con sorprendente sincerità quanto Alice sia diversa da lei e al contempo quanto questa diversità le abbia permesso di scoprirsi attraverso il ruolo. “Alice è estremamente indipendente,” spiega Marial Bajma-Riva, “e vive in una dimensione quasi aliena rispetto alla civiltà stessa. Con il suo cane Smoky, un fedele compagno nel ritrovare tracce umane dimenticate, rappresenta quella sottile linea tra il mondo umano e quello naturale”.
Marial Bajma-Riva, originaria di Savona ma figlia del mondo a causa di un percorso di vita che l’ha vista a nove anni trasferirsi da sola a Montecarlo, confessa di aver affrontato sfide e scoperto nuove sfumature personali nel portare in scena Alice: l’indipendenza quasi radicale del personaggio, la relazione simbiotica con Smoky, e le difficoltà ambientali delle riprese all’aperto. Queste esperienze le hanno regalato una profonda comprensione della determinazione e del coraggio necessari non solo per vivere, ma per trasformare le proprie scelte in autentiche dichiarazioni d’identità.
Alice, con la sua specializzazione nella Human Remains Detection, rappresenta la misteriosa forza della risoluzione e dell’impegno, caratteristiche che emergono in Marial Bajma-Riva stessa. Riuscendo a dare voce a un personaggio che sfida ogni pregiudizio, l’attrice ha creato un’immagine potente di indipendenza e autoconsapevolezza, dimostrando come una giovane donna possa affrontare il buio della vita e, al contempo, scoprire se stessa.
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Intervista esclusiva a Marial Bajam-Riva
“Alice è una ragazza molto diversa da me”, risponde Marial Bajam-Riva quando le si chiede di raccontare chi è secondo lei il personaggio che interpreta nella serie tv di Rai 1 Ninfa dormiente. “Non che io non lo sia ma l’essere estremamente indipendente è un suo tratto che la rende anche misteriosa. Già dai suoi capelli blu, si intuisce che non è interessata al giudizio altrui e vive un rapporto molto simbiotico con il cane Smoky: sono un tutt’uno e non possono vivere staccati”.
“Quando mi chiedono di definire Alice non mi viene in mente altro aggettivo che fighissima”, sottolinea Marial Bajam-Riva. “Trovo che abbia un modo tutto suo e unico di stare al mondo: vive lontano da tutti in una dimensione quasi aliena dalla civiltà stessa e in funzione della scelta professionale che ha fatto. Si occupa, nella fattispecie, di ritrovamento di resti umani”.
Al di là del nome, Spooky è una femmina. È stato semplice condividere la scena con una “ragazza” come lei?
È stata per me un’esperienza totalmente nuova, non solo professionale ma anche personale: per quanti ami tutti gli animali, sono una gattara. Grazie alla serie tv, ho scoperto quindi com’è relazionarsi con un cane, animale al quale non ero avvezza: è stato interessante dal punto di vista attoriale ma, in tutta sincerità, non facile. Seppur ubbidiente, più brava di tutti noi attori in carne e ossa messi insieme, abituata ai set e accompagnata dal suo addestratore, Smoky conservava la sua dose di imprevedibilità, aspetto che mi richiedeva una doppia attenzione: in scena, dovevo conoscere sia i miei movimenti sia i suoi. Ma alla fine siamo state una bella squadra!
Non è stata però l’unica difficoltà del set…
Abbiamo girato spesso in esterno e in mezzo alla neve. Il freddo ha sicuramente reso meno facile il tutto ma a me le cose semplici non piacciono: preferisco ci sia sempre qualcosa di sfidante con cui mettersi alla prova.
Più facile affrontare una coreografia o il freddo?
Una coreografia, decisamente: dopo un po’ ne comprendi le chiavi e la professionalità ti permette di capire come muoverti e quali meccanismi attivare. Il disorientamento può prevalere per i primi due giorni ma poi tutto fila liscio e si rivela semplice da affrontare. Il freddo è invece tosto da sopportare… l’esperienza sul set mi ha riportato alla mente quando, facendo da piccola sci agonistico, mi alzavo al mattino con il dolore alle mani proprio a causa del freddo!
Su consiglio di Elena Sofia Ricci, davvero brillante nel dircelo, indossavamo tute termiche riscaldanti sotto gli abiti di scena ma non bastavano: i meno dieci gradi continuavano a farsi sentire. Per non parlare poi dei problemi che avevamo a livello di riscaldamento nei camper. Ma ce l’abbiamo fatta, abbiamo tenuto duro e portato a casa il risultato nonostante ci battessero i denti e l’articolazione della recitazione non fosse per nulla favorita: sono comunque le esperienze come queste che ti arricchiscono e ti aiutano anche a maturare rispetto ai problemi. Per un’eventuale prossima stagione, saprò come regolarmi!
La prima challenge che Alice ti ha richiesto è stata il dover cambiare colore ai capelli, tingendoli di blu. Cosa hai pensato la prima volta che ti sei vista con l’acconciatura di scena?
Miro a essere un’attrice camaleontica: un cambiamento d’aspetto così radicale è quasi un sogno che si concretizza. La mia reazione è stata quindi sorprendentemente positiva: nella vita reale mai avrei pensato di fare una cosa del genere, mi sarebbe mancato il coraggio per un cambiamento così radicale. Farlo per un personaggio è stato dunque entusiasmante: la prima volta che ho sfoggiato quel colore nel guardarmi intorno mi sentivo addosso gli sguardi e i pensieri di tutte le persone che incrociavo, “guarda quella”, ma non davo peso al loro giudizio… ed è stato bello.
Oltre che a tingerli, ho dovuto anche tagliare i capelli ma aver quel look così particolare mi ha aiutato molto a livello attoriale. Da un punto di vista pratico invece è stato tosto e impegnativo: quel blu tende a scolorirsi spesso e di conseguenza ogni settimana dovevo sottoporli a una sistemata. Fortunatamente, ho trovato uno dei migliori reparti trucco e parrucco con cui ho lavorato finora: sono stata costantemente seguita con tutti che si sono prodigati in maniera quasi maniacale per non rovinare i miei capelli o il mio cuoio capelluto.
Un nuovo taglio o colore di capelli mette quasi sempre in discussione l’identità di una persona. Qualcosa che tu nel tuo percorso hai fatto spesso per seguire le tue aspirazioni: da sciatrice a ballerina e da ballerina ad attrice. Quali sono stati i passi decisivi nell’avvicinarti a chi volevi e dovevi essere?
Non è facile rispondere su due piedi. Ci sono stati fino a oggi vari momenti per me importanti e significativi a cominciare da quando piccolissima, a nove anni, quando sono andata a sostenere un’audizione senza dire nulla ai miei genitori per un’importante accademia di danza a Monte Carlo. Mi hanno presa e, rientrata in casa, ho dovuto spiegare loro che andavo via per andare a vivere in un collegio.
Ma anche quando in collegio ho vissuto quel travaglio interiore che mi ha spinta a fare un ulteriore passo in avanti verso la recitazione. Scoprendomi, ho cambiato ancora una volta città e mi sono trasferita a Parigi prima ancora che a Roma. Aggiungerei le prime esperienze teatrali, l’arrivo della televisione e del cinema… sono davvero tanti ma forse il momento più significativo vissuto lo si deve all’incoscienza di quella bambina di nove anni.
È a lei che devo chi sono e la consapevolezza di chi voglio essere: non reputandomi per nulla arrivata, non vedo l’ora di stupire me stessa. Credo molto nella gavetta, sto facendo la mia e, avendo mutato pelle più di una volta, mi porto dietro chi sono stata e quello che ho fatto.
Era quella bambina incosciente o gettava i primi semi della sua autodeterminazione?
Forse erano i semi di quello che oggi si definisce self empowerment. Ed effettivamente, nel rivedere il mio percorso, credo di aver dimostrato quanto io abbia la testa molto dura: posto un obiettivo, faccio di tutto per raggiungerlo in maniera consona, senza far torto a nessuno. Sono però stata fortunata nell’avere una famiglia che fin dall’inizio mi ha sostenuta e mi ha sostenuta, capendo quale fosse la passione per cui mi brillavano gli occhi e assecondando la mia follia. Ripensandoci, non mi viene altro termine per descrivere chi a nove anni va dai genitori per dire che va via di casa per inseguire un sogno.
“Se è quello che vuoi fare, ti sosteniamo e ti seguiamo” è la risposta che hai ricevuto…
…nonostante io fossi figlia unica. Ho richiesto loro un grande sacrificio e mi hanno lasciata andare via da una casa in cui non sono più realmente tornata. Papà e mamma mi hanno vissuto da lontano per tantissimo tempo.
Come sono stati per te bambina quegli anni da sola?
Mi ripeto: belli e difficili al tempo stesso. Belli perché fin da piccola ero molto indipendente e mi aggrappavo alla passione con le unghie e con i denti, caratteristica che mi accompagna ancora oggi. Difficili perché ovviamente sono cresciuta molto più in fretta della mia età, non vivendo né l’infanzia né l’adolescenza: per inseguire i miei obiettivi ho rinunciato a una parte consistente della mia vita che non mi è mai più ritornata indietro.
Rivivrei ogni singolo momento di quegli anni perché sono quelli che hanno contribuito a far sì che io sia la persona che sono oggi. Il collegio non è stata una passeggiata… trattandosi di una delle accademie di danza più importanti d’Europa, le regole da rispettare erano rigide. Dovevi rifarti la stanza, tenere tutto in ordine e sottoporti alla bilancia senza alcun preavviso: il disordine non era consentito e ho avuto quasi l’impressione di aver fatto la caserma.
Ho anche subito i dispetti delle altre allieve: essendo una delle più piccole, ero un bersaglio facile. Una delle prime volte in cui sono stata vittima delle loro angherie, ho chiamato mia madre in lacrime ma è stato in quel momento che da lei ho ricevuto una delle più grandi lezioni di vita: “Se vuoi, torni a casa ma abbandoni tutto. Altrimenti affrontale col dialogo: risolverà la situazione”. E così ho fatto. Da allora non ho più chiamato casa per altri miei problemi: me la cavavo da sola.
Era il contesto, tuttavia, a essere competitivo e non l’istituzione o i professori a spingere a esserlo. Ho avuto un direttore di accademia che si è rivelato per me fondamentale: aveva capito che la mia vera vocazione era un’altra e mi ha sostenuta verso quella strada. Intuendo che non avevo il coraggio di abbandonare la danza, mi ha lasciato terminare gli studi indirizzandomi al contempo verso i corsi di recitazione e di canto.
Non temevi la solitudine in quel periodo?
No. Al di là della famiglia, ho sempre avuto amici belli. Mi riconosco di aver saputo circondarmi di persone che non mi hanno mai fatto sentire sola. Mi hanno permesso di capire quanto importante sia l’amicizia nella vita e che valore abbia. Sono stata fortunata nell’incontrare nel mio cammino persone con cui sono ancora in contatto: tra le mie più care amiche, c’è ad esempio una mia compagna di accademia che si è poi trasferita a Roma… quando i legami sono veri e profondi, te li porti dietro per tutta la vita.
Vi pesavano di soppiatto: ha ciò inficiato il rapporto che hai con il tuo corpo?
La danza classica è un’arte che si basa anche sull’estetica e come tale richiede il rispetto di determinati standard ed è chiaro che mangiavamo, che non ci tenevano a stecchetto e che eravamo seguite a dovere da esperti. Il cibo, comunque, non era un mio problema: a un anno e mezzo mi è stata diagnosticata la celiachia e, quindi, ero abituata alla rinunce. Il pesarci di sorpresa era un mezzo per spingerci ad autogestirci e a insegnarci la disciplina.
È stato solo quando sono stata ammessa all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico che ho realizzato che ci si poteva anche divertire e giocare. Avevo 17 anni e mezzo, avevo fatto il provino e mi hanno subito presa, facendo sì che passassi dalla vita in collegio al vivere da sola a Roma, senza compagne che facevano esercizi alla sbarra. C’era la recitazione e la voglia di riappropriarsi della propria verve, di quella dose di follia che ci contraddistingue come attori…
… e che serve per entrare e uscire da un personaggio all’altro.
Esattamente. E, per come sono fatta io, mi porto sempre dietro qualcosa da ognuno di loro. Ogni personaggio che ho interpretato fino a oggi mi è stato d’aiuto contribuendo talvolta anche alla creazione di uno nuovo.
Qual è la qualità intrinseca più importante che hai ricevuto in eredità da un personaggio?
La possibilità di liberarmi dal pregiudizio che avevo nei confronti di me stessa. C’è stato un caso in cui non mi sentivo giusta per un ruolo, anche fisicamente mi ritenevo lontana considerandolo l’esatto opposto di ciò che ero io. Interpretandolo, ho capito che non bisogna mai limitarsi: occorre semmai riuscire ad andare oltre e liberarsi delle proprie sbagliate convinzioni. In quel momento, andando in scena, ho avuto una rivelazione su me stessa e da allora in poi ho cominciato ad aspirare a essere un’attrice camaleontica, in grado di recitare personaggi l’uno diverso dall’altro portando sempre qualcosa di mio.
Tra necessità e ambizione (intesa con accezione positiva), qual è la ragione che ti spinge a recitare?
Recitare è per me una necessità ed è da quella che poi deriva l’ambizione. È una necessità perché è qualcosa che sento dentro: non avrei potuto fare altro. L’ambizione ne è poi una diretta conseguenza: vuoi ovviamente migliorarti e crescere insieme al tuo mestiere per scoprirti e sorprenderti. Passo dopo passo, non vedo l’ora di essere sorpresa da me stessa nel riuscire a fare qualcosa che prima ritenevo complicata.
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1 / 29Il lavoro di attrice di porta costantemente a confrontarti con il “no”. Come li affronti?
Per far accettare i “no” servono maturità e tempra: è questo un lavoro che scegli ma che poi devi saper reggere caratterialmente proprio perché fatto costantemente di “no” da incassare e da pochissimi “sì”. Ho compreso oggi che ogni “no” è una tacchetta in più nel tuo cammino perché porta comunque a qualcosa di positivo ma, appena uscita dall’Accademia a 21 anni con il desiderio di spaccare il mondo, non era semplice arrivarci.
È stato lo scontrarmi con la realtà a farmi poi comprendere il valore della gavetta: ho imparato a conoscermi meglio e ad accogliere i no, capendo come gestirli e valutarli anche positivamente: quando sono conscia di avere dato il massimo, so che quel “no” di oggi sarà un “sì” di domani. È chiaro che mi dispiace ma si va avanti.
Chi è la prima persona che chiami dopo un ‘sì’?
La mamma, ma semplicemente perché papà non ha un telefono. O, meglio, ne ha uno ma lo tiene costantemente spento. Chiamo lei che però è solitamente insieme a lui. Essendo andata via di casa così presto, c’è una parte di me che vuole restituire loro un po’ di quel tanto che mi hanno dato con le risposte belle che arrivano.
Una delle tue più belle esperienze teatrali è stata al Teatro Greco di Siracusa: che cosa ha rappresentato per te muoverti nel tempio sacro del teatro classico con un ruolo abbastanza complesso come quello di Cassandra, che ti ha permesso di vincere anche svariati premi?
Avevo 23 anni… togliendo tutta quella parte poetica per cui in quel momento ero un tramite delle parole di Euripide, creavo un legame tra presente e passato e mi percepivo minuscola di fronte a un ingranaggio molto importante, mi sono sentita una rockstar! È stato emozionantissimo coprire quello spazio immenso e ritrovarmi a dover con la mia voce arrivare a 4000 persone venute ad assistere allo spettacolo. Ma è stato anche faticoso: quello di Cassandra è un ruolo molto particolare che impone anche un grosso impegno fisico. Lasciarmi andare a una danza sfrenata, salire e scendere i gradini, e correre è stato estenuante tanto quanto girare a dieci gradi sotto zero: non sapevo di poter tirare fuori quella roba, recitando in mezzo a quelle pietre di cui percepisci l’atmosfera e l’anima.
Dal classico al thriller, verrebbe da dire, considerando i tuoi ultimi impegni…
Ho ormai una certa predisposizione per i polizieschi e i gialli: nella prima stagione di La legge di Lidia Poet ero un’indagata, così come lo sarò in Petra 3. Anche in Ninfa dormiente inizialmente sembro esserlo ma poi mi rivelo far parte della squadra investigativa… insomma, ne ho subiti e visti di interrogatori (ride, ndr)! Caso a parte, a me interessano soprattutto i personaggi in sé e quello che possono raccontare arrivando al pubblico.
Hai anche preso parte all’horror internazionale Omen - L'origine del presagio. La domanda è telefonatissima: qual è la tua più grande paura?
Può sembrare assurdo alla luce di quanto ho detto prima ma la è la solitudine, quella profonda. Nella vita così come nella recitazione abbiamo bisogno dell’altro.