Marilù Pipitone è un’attrice capace di scavare nella profondità dei suoi personaggi, trasformando ogni ruolo in un’esperienza vissuta, intima e viscerale. Nel film La bocca dell’anima, attualmente nelle sale, Marilù Pipitone presta volto e anima ad Angela Caruso, una donna siciliana del dopoguerra intrappolata nelle maglie delle tradizioni e delle aspettative sociali. È un ruolo che va oltre la semplice interpretazione: per Marilù Pipitone, Angela è l'incarnazione di una memoria collettiva e personale, un legame indissolubile con le storie tramandate dai suoi nonni, originari delle Madonie.
Nata a Palermo e formatasi a Roma, Marilù Pipitone è cresciuta con storie di magia popolare e credenze secolari, in una terra dove la figura del guaritore o della maàra sostituiva spesso la medicina, come lei stessa ci racconta. La sfida, dunque, non si è limitata a riscoprire le lontane radici, ma è andata più in profondità, richiedendo a Marilù Pipitone, apprezzata anche in Un oggi alla volta, un totale abbandono della propria immagine.
Per entrare nel ruolo di Angela, ha dovuto accantonare ogni traccia di vanità, lasciando che emergesse un’immagine di donna vera, forte nella sua vulnerabilità. Non si è trattato di una semplice scelta stilistica, ma di un atto di libertà artistica: spogliarsi dell’ego per dare vita a una donna che misura il proprio valore in silenzio, nelle ombre di una comunità che la giudica attraverso il desiderio di maternità e il suo ruolo nella famiglia.
Interpretare Angela ha portato Marilù Pipitone a sospendere il giudizio e ad abbracciare un personaggio che, in un’altra epoca, è costretto a vivere la propria femminilità in un equilibrio precario tra imposizioni patriarcali e un nascente desiderio di autodeterminazione. Angela attraversa una trasformazione che la rende forte, una figura che risponde al dolore e alla solitudine attraverso la forza della magia, una risorsa che la libera da ogni imposizione sociale. L’attrice ha dovuto quindi confrontarsi con la complessità emotiva di Angela, e ha accettato la sfida di raccontare questa evoluzione senza riserve, esplorando il percorso che trasforma la sua protagonista da moglie rassegnata a donna consapevole, in un continuo dialogo tra fragilità e forza.
Questa ricerca di verità e autenticità non riguarda solo il personaggio di Angela, ma riflette il cammino che Marilù Pipitone ha intrapreso come attrice e come persona (al cinema possiamo ammirarla anche nel sottovalutato Il giudice e il boss di Pasquale Scimeca). Nel corso della sua carriera, ha imparato a distanziarsi dal giudizio altrui, a liberarsi da una competizione che spesso confonde il vero significato del mestiere. Ha scoperto, nel tempo, che i rifiuti non sono mai personali e che la recitazione è un atto di ascolto profondo, di comprensione e di apertura verso se stessi e verso gli altri. Questo viaggio è presente in ogni scena di La bocca dell’anima, dove il suo corpo diventa un veicolo di narrazione, uno strumento di espressione in cui il confine tra Marilù e Angela si dissolve.
La recitazione è per Marilù Pipitone è una vocazione che non conosce soste; è un mestiere in cui ogni personaggio è una piccola conquista e ogni ruolo un nuovo inizio. Ogni volta che si avvicina a un film come La bocca dell’anima, Marilù non porta solo il suo talento, ma anche la consapevolezza di essere in un percorso di continua crescita, un viaggio che unisce passato e presente, e che la guida verso una sempre maggiore autenticità.
Questa è Marilù Pipitone: un’attrice che sfida il proprio vissuto per portare sullo schermo non solo il suo talento ma anche una parte profonda e inconfessabile della propria anima.
Intervista esclusiva a Marilù Pipitone
“Angela Caruso si ritrova a vivere in una Sicilia che è molto distante da quella che siamo abituati a vedere”, risponde Marilù Pipitone quando le si chiede di tracciare le differenze tra lei e la protagonista di La bocca dell’anima a cui presta il volto. “Nonostante il film sia stato girato a Petralia Sottana, una realtà che esiste, la storia è come sospesa in un tempo che è stato, lontana dalla modernità a cui siamo abituati”.
Non è stato difficile entrare in un mondo che sulla carta non era il tuo?
Come ripeto spesso, per me è stato estremamente semplice: è come se avessi vissuto dentro i racconti dei miei nonni: sono nata a Palermo ma i nonni materni erano originari di Polizzi Generosa, un paesino sulle Madonie. Quando ho letto per la prima volta la sceneggiatura del film, sono rimasta ammaliata dalla storia e dalle sue atmosfere che, portandoci dopo la fine della Seconda guerra mondiale, affrontano la tematica della magia popolare, molto sentita in quel periodo e non solo: è stata mia nonna per prima in passato a raccontarmi delle maàre e di come la maària spesso sostituiva la medicina stessa.
La bocca dell’anima è tratto da una storia vera, fa leva sugli studi dell’antropologa Elsa Guggino, ma per me è stato immergermi nella storia della mia famiglia, del mio passato, dei miei avi e delle mie viscere. Mi è risultato facile persino recitare nel siciliano arcaico degli anni Cinquanta: avendo buon orecchio, ricordavo perfettamente come parlava nonna e il regista Giuseppe Carleo ne è rimasto folgorato sin dai provini… non capita tutti i giorni sentir parlare una ragazza in quel modo (ride, ndr)!
Semplice non vuol dire che non ci abbia lavorato. Ovviamente, ho dovuto togliere tutto il superfluo che c’era in me durante il mese di prove che con il regista e il coprotagonista Maziar Firouzi abbiamo sostenuto prima delle riprese per assaporarne e sposarne l’atmosfera con i suoi costumi, la location e la neve.
Indossare i panni di Angela, però, ti ha richiesto due sforzi sicuramente grandi: privarti della tua bellezza e sospendere il giudizio su una donna che considera la sua identità solo in funzione del suo poter essere madre temendo il giudizio degli altri.
Sacrificare la bellezza non è stato un problema: da sempre ho voluto fare l’attrice nella mia vita e, come tale, sono consapevole che il primo tratto superfluo da estirpare è l’ego di Marilù Pipitone per fare spazio al nuovo personaggio da portare in scena. Dieci anni fa, forse mi sarei preoccupata di come risultavo sullo schermo o del profilo migliore da mostrare ma non oggi. Non pensando al lato estetico, ho dato spazio solo ad Angela e una delle più grandi delle soddisfazioni per me è il sentimi dire alle fine delle proiezioni con il pubblico “Non ti avevo riconosciuta”… vuol dire che ho lavorato bene e che sono entrata nel profondo dell’anima rappresentata in scena.
È chiaro poi che dovessi sospendere il giudizio su Angela, sui suoi ideali e sui suoi desideri. Nella mia vita non darei mai peso al giudizio altrui o non lo considererei fino al punto di farmi condizionare l’esistenza ma Angela vive in un’altra epoca, una in cui la gratificazione dell’esser donna passava anche attraverso la maternità. Tuttavia, è interessante notare la sua trasformazione: da sottomessa al volere patriarcale quand’era in famiglia e frustrata da un marito che non desidera un figlio, Angela si trasforma grazie alla magia di zia Mariannina (un’incredibile Serena Barone) in una donna autodeterminata che prende il sopravvento persino sugli uomini. A livello attoriale ho trovato stimolante l’evoluzione che affronta passando dalla solitudine e amarezza a un personalissimo riscatto di donna prima e di madre e moglie dopo.
Hai scelto comunque una professione in cui il giudizio degli altri - da quello del tuo agente a quello del pubblico, passando dal “sì o no” dei direttori di casting - è spesso determinante oltre che integrante. Quando hai smesso di preoccupartene?
Quand’ero più giovane, ero meno consapevole di me stessa ed ero ossessionata ma anche impaurita dal peso che il giudizio aveva nel lavoro che avevo scelto. Stavo male nell’aspettare la chiamata del mio agente, soffrivo se a un provino arrivano seconda e mi disperavo quando non riuscivo a ottenere un ruolo. Per fortuna, sono andata incontro anch’io a una bella evoluzione lavorando su me stessa: ho dovuto farlo perché altrimenti non avrei vissuto bene un mestiere che amo.
Ho imparato ad esempio che i “no” non sono mai dettati da ragioni personali: l’importante è in quei casi aver comunque dato tutto ciò che era nelle mie possibilità. E tale nuova consapevolezza mi ha permesso di capire uno degli insegnamenti di Beatrice Bracco, la mia insegnante di recitazione: “Fate un provino e scordatevelo”. Ed è vero: è quando ti liberi dell’ossessione che paradossalmente, oltre ad affrontare tutto in maniera sana, arrivano le cose. Se, invece, rimani vittima del suo vortice, non puoi far altro che viverla male e sentirti in eterna competizione con gli altri.
Spogliarsi del proprio ego non comporta però il privarsi del proprio corpo, un elemento che nel film La bocca dell’anima è molto presente e vive. In che rapporti sei con esso?
Nella quotidianità, non posso dire che il nostro sia un rapporto sereno: è un continuo “up and down” fatto di giorni in cui sto meglio con me stessa e di altri in cui invece non mi piaccio. I momenti altalenanti sono qualcosa che tengo sempre in conto e dipendono anche dalle fasi di vita in cui mi trovo. Non è un idillio ma rientra nella normalità… Sul set, invece, è diverso: il mio corpo diventa soltanto un mezzo per raccontare storie importanti. Nel non preoccuparmi di esso, il set finisce quasi per rappresentare a volte una cura: lo stare più o meno bene con il mio corpo non dipende più da me ma dal tipo di personaggio che affronterò.
Del resto, il set è un mezzo per placare anche i propri dolori. Ti è tornato utile il lavoro per incanalare i tuoi pensieri anche quando questi generavano sofferenza?
Sono arrivata a Roma da Beatrice Bracco a 24 anni e alla prima lezione mi sono chiesta dove fossi stata fino a quel momento: i tre anni di corsi sono stati non solo di recitazione ma anche di analisi introspettiva. “Per interpretare un personaggio, devi conoscere benissimo te stesso”, era solita ripeterci. Ed era vero: conoscendo te stesso, conosci anche gli altri… è un percorso anche doloroso da affrontare: è come andare dallo psicologo, con esercizi che ti portano a riflettere e soffrire per restituirti la consapevolezza di tutti quei limiti e di tutto ciò che nascondi. Se è fatto in un certo modo, quello dell’attore è un lavoro che scava in profondità e ti permette di scoprire aspetti molto intimi di te.
Qual è la cosa più sorprendente che la recitazione ti ha permesso di capire di te stessa?
Mi ha permesso di sviluppare maggiormente la vulnerabilità e l’apertura nei confronti degli altri. Per me, sia come attrice sia come persona, l’ascolto è fondamentale. Anche se in molti non sono d’accordo, ripeto spesso che un bravo attore deve essere anche una brava persona, deve leggersi nei suoi occhi una purezza di cui in primis sento il bisogno. Sono due aspetti che, per quanto mi riguarda, devono procedere di pari passo.
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Chi ti ha ascoltata la prima volta che hai manifestato il desiderio di voler fare l’attrice?
Nella mia famiglia non c’è mai stato nessuno che ha avuto ambizioni artistiche. È stato dunque complicato farsi ascoltare: nessuno mi ha spinta e supportata veramente ma così come nessuno mi ha mai messo i bastoni tra le ruote. Forse l’unica persona che inizialmente ha creduto in me è stata mia sorella: era felice se anch’io lo ero.
I miei genitori invece erano chiaramente un po’ preoccupati: ho comunicato loro da un giorno all’altro che mi sarei trasferita a Roma e che avrei smesso di studiare all’Università, dopo aver sostenuto venti esami su trenta (frequentavo Lettere e Filosofia con indirizzo Lingue e Culture moderne alla facoltà di Palermo). Per loro, è stato un colpo, anche perché avevano sempre considerato la recitazione un hobby e non un lavoro: avrebbero preferito che terminassi il percorso accademico ma io sentivo dentro me un’urgenza diversa.
Credo anche che sia stata per loro una delusione ma con il tempo hanno avuto modo di ricredersi: proprio di recente mamma, dopo avermi vista ospite a Sottovoce su Rai 1, mi ha chiamata per dirsi fiera di me… la sua telefonata ha rappresentato per me quasi la chiusura di un cerchio: ha significato che ho fatto la cosa giusta e che mi ha perdonata, anche se non mi sono laureata e non ho svolto il lavoro che desiderava.
Tu, invece, quando ti senti fiera di te stessa?
Sono fiera di me stessa tutte le volte in cui, andando a letto la sera, mi dico di non avere niente di irrisolto. Ma anche quando sto con i miei nipoti perché è in quelle circostanze che trovo il senso della mia vita. Sono fiera di me stessa per essere una brava persona e per aver fatto sì che tra il mio lavoro e la mia vita privata ci fosse una fusione completa in grado da darmi vivere ogni cosa serenamente.
Nel trasferirti da Palermo a Roma, quali difficoltà hai incontrato?
Non molte. Sono stata molto fortunata perché sin da subito ho incontrato un gruppo di amici siciliani, tra cui Claudia Perna, con cui si è creata una piccola famiglia: eravamo giovani, condividevamo casa e ci siamo sostenuti in quello che è stato per noi un periodo di scoperte. Le difficoltà maggiori, semmai, riguardavano il lavoro, come il trovare l’agenzia giusta, l’attendere quel provino che non arrivava mai e la discontinuità a cui questa professione ci sottopone.
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È stato un caso che il tuo primo lavoro per il cinema, Terraferma, sia stato con un regista siciliano, Emanuele Crialese?
Sì. Ma quella che era una gioia si è trasformata in una delusione quando ho scoperto che le mie scene principali erano state tagliate al montaggio. Ma, per ironia del destino, anche il primo vero lavoro da coprotagonista è legato alla Sicilia: ho interpretato Lucia Borsellino, la figlia di un eroe senza tempo, nel film Paolo Borsellino – I 57 giorni, a fianco di Luca Zingaretti e Lorenza Indovina. In quel caso, penso che l’universo abbia voluto farmi un bellissimo regalo: ho girato nella mia Palermo per raccontare una storia di giustizia e legalità.
Non ti ha mai infastidito l’essere chiamata per progetti vicini alle tue origini?
Ho lavorato in diversi progetti in cui non contava la mia sicilianità. Fisicamente non sono mai stata considerata la classica ragazza siciliana da stereotipo, anche per via dei miei occhi azzurri. C’è stato persino un periodo, soprattutto all’inizio del mio percorso, in cui ho semmai sofferto di ciò: non venivo nemmeno presa in considerazione per quel tipo di ruolo… è solo diventando più adulta che sono arrivati personaggi siciliani, anche molto forti e viscerali, ma prima niente Montalbano o storie di mafia.
Crescere è un verbo che torna spesso nelle tue risposte. Cosa significa per te?
Ovviamente non si tratta di una questione anagrafica. Crescere per me significa accettare i propri limiti, se stessa e il proprio carattere, ma anche lavorare su ciò che magari non ti sta bene fino ad accettarti. Vuol dire contribuire attivamente a diventare una persona migliore di quella che si era.
E, alla luce della tua crescita, ti ha la recitazione dato più di quanto ti ha tolto?
Mi ha dato tantissimo. Forse è stato solo all’inizio del mio percorso che ho sentito togliermi qualcosa quando ero più ossessionata dal lavoro che non arrivava o dal provino andato male. Una volta scomparsa l’ossessione, ho ricevuto tantissimo perché la recitazione mi ha dato modo di esplorare portandomi in posti reconditi dell’anima in cui mai avrei pensato di arrivare. È grazie alla recitazione che oggi mi conosco così bene, nella gioia e nel dolore. Non saprei far altro oggi: per me, è stata una scelta quasi obbligata!
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La bocca dell'anima: Le foto del film
1 / 30A proposito di inizi, avevi mosso i primi passi nel musical…
Sì, ma erano spettacoli in cui ero ancora abbastanza acerba. Studiavo all’epoca in un centro di formazione dello spettacolo a Palermo e la prima prova su un palco è stata Chicago, in cui interpretavo Roxie Hart. Ballavo e cantavo ma non ero una performer: non sentivo di avere un talento spiccato né per il ballo né per il canto, seppur io sia molto intonata. Non ho mai voluto continuare su quella scia perché ho voluto dedicarmi con tutta me stessa alla recitazione. Ricordo con molta tenerezza quel periodo ma forse era ancora tutto un gioco.
Il mancare da teatro dal 2013 è una scelta consapevole o è il destino che ha fatto sì che le cose siano andate diversamente?
Sono convinta che l’universo ci ascolti e che, quindi, ha voluto altro per me. Pur rimanendo aperta alla possibilità e amando il teatro, diciamo pure che verto più al cinema: è stato il mio primo vero amore.
Che rapporto hai con il successo?
Un rapporto inesistente: con molta umiltà, non mi sento di essere arrivata da nessuna parte. Sicuramente posso dire di avere successo come persona ma in ambito professionale vedo tutto sempre in salita: se pensassi di essere in discesa, sarebbe finita. Per me, il successo è qualcosa di effimero, una parola strana da decodificare: non vedo mai un punto d’arrivo. Questo è un lavoro in cui si deve costantemente fare: anche con un Oscar in mano, devi sempre stare sul pezzo, leggere, informarti e studiare: ci sono sempre nuove sfide, nuovi film, nuovi personaggi da interpretare. Si sta in costante attesa del nuovo che verrà ed è anche molto stimolante: ti fa sentire viva.
Non lo hai quindi mai inseguito?
Da più piccola, sicuramente sì. Ma accade perché in qualche modo, non conoscendo cosa fosse questo lavoro, avevo idealizzato la professione e anche il successo, pensando che fosse tutto idilliaco. È stato entrandoci dentro che ho capito quanto fondamentale fosse non farsi risucchiare dal sogno: idealizzare troppo rischia di diventare illusione e in quel caso il dolore sarebbe enorme… meglio vivere per davvero.