Nel film Palazzina Laf, straordinaria opera prima di Michele Riondino al cinema dal 30 novembre grazie a BIM Distribuzione, Marina Limosani interpreta Rosalba Liaci, una segretaria che nell’Ilva di Taranto del 1997 si ritrova a vivere sulla sua pelle le conseguenze delle azioni di mobbing messe in atto dalla dirigenza per punire i lavoratori di cui vorrebbero liberarsi.
La storia che si cela dietro al film Palazzina Laf, sceneggiato da Riondino con Maurizio Braucci e prodotto da Palomar, Braco e BIM Distribuzione con Rai Cinema e in co-produzione con Paprika Films, è una delle più sconvolgenti che il mondo dei lavoratori abbia mai conosciuto. Esempio di cinema civile come non se ne vedeva da tempo in Italia, Palazzina Laf affonda le radici nel tormento vissuto dagli operai del più grande polo siderurgico del Sud Italia per mano di vertici aziendali che li hanno privati delle loro mansioni e costretti a vivere in un’ala punitiva, denominata appunto Palazzina Laf.
La punizione consisteva nella peggiore di tutti: gli operai venivano obbligati a non far nulla e a trascorrere il tempo giocando a carte, pregando o allenarsi come fossero in palestra. Un inferno senza via di uscita che li privata della loro identità e minacciava seriamente il loro benessere mentale. 79 sono stati gli uomini e le donne mandate nel “reparto lager”, vittima di una sottile forma di violenza privata.
Il cast del film, presentato alla Festa del Cinema di Roma, è uno dei più interessanti in circolazione: lo stesso Michele Riondino, Elio Germano, Vanessa Scalera, Eva Cela, Anna Ferruzzo, Paolo Pierobon e, appunto, Marina Limosani, che torna al cinema dopo un periodo di assenza durato dieci anni. Quali sono le ragioni che l’hanno tenuta lontana dal set ci vengono da lei spiegate e analizzate nel corso di un’intervista esclusiva che lascia trasparire il ritratto di una donna ancorata al suo lavoro ma anche alla sua famiglia.
Intervista esclusiva a Marina Limosani
Chi è Rosalba Liaci, il personaggio che interpreti nel film Palazzina Laf, immensa opera prima di Michele Riondino?
I personaggi che popolano il racconto di Michele sono tutti ispirati a persone che hanno davvero vissuto quell’incresciosa vicenda. Rosalba è una donna che si è ritrovata ad affrontare la ghettizzazione nella palazzina. Possiamo descriverla come una donna come tante altre, dedita al suo lavoro e alla sua famiglia, suo malgrado vittima di un meccanismo più grande di lei. All’inizio della storia, lavora come segretaria per conto di Giancarlo Basile, il dirigente dell’Ilva di Taranto interpretato da Elio Germano: è dunque dall’altra parte della barricata, al servizio di coloro che hanno il coltello dalla parte del manico, dei forti e del padrone. Purtroppo, presto anche lei viene mandata nella Palazzina Laf e la punizione le permette di rendersi conto di quale sia in effetti quella realtà.
Ti sei fatta un’idea di come viva il ribaltamento di posizione?
Non giudico mai i personaggi che interpreto. Penso che ognuno di loro faccia sempre delle scelte in base alle possibilità e alla percezione di quel suo momento della vita ma intravedo in lei un forte cambiamento. Da testimone silente qual è all’origine della storia di tutta una serie di accadimenti di cui è consapevole, diventa parte in causa quando è costretta a stare insieme a coloro che l’ingiustizia la subiscono in prima persona. Ciò mette in risalto come un ribaltamento di punto di vista interessante, che rimette in discussione quel comportamento di autoindulgenza per cui aveva chiuso prima gli occhi per paura delle ripercussioni dirette.
Ciò che mi ha reso semmai difficile l’interpretazione è stato il sapere che la sua storia e quella degli altri “internati” era stata veramente vissuta non da una ma da diverse centinaia di persone. Mi sono quindi approcciata con ancora più rispetto, sentendo una responsabilità enorme come attrice.
Anche perché la Palazzina Laf, senza girarci tanto intorno, era un manicomio a tutti gli effetti.
Il fatto di essere privati del proprio lavoro minava fortemente la salute mentale dei dipendenti e degli operai. Se è vero che veniamo riconosciuti e ci riconosciamo in base al giudizio che ci rimandano anche gli altri, il lavoro diventa parte fondamentale della costruzione della propria identità: vedersene privati da un momento all’altro, fa sentire una nullità non solo in ambito professionale ma anche in quello personale e familiare. Ci si sente una nullità come marito o come moglie, come padre o come madre, e così via.
È l’aspetto che più mi ha colpito nel preparare il personaggio. Non mi sono attenuta alla sola sceneggiatura ma ho fatto delle ricerche e ho attinto anche alle interviste realizzate a chi la Palazzina Laf l’ha vissuta sulla propria pelle. Mi ha colpito molto vedere in loro l’annullamento totale della persona e capire quanto la propria sofferenza abbia avuto ripercussioni sulle vite di chi amano e stanno loro accanto: è come un’onda concentrica che si allarga sempre più, un circolo della sofferenza che non ha fine.
Tutto è accaduto nel 1997 quando ancora del mobbing e del suo impatto con la società non si sapeva molto. Aziende come l’Ilva hanno una responsabilità enorme: danno lavoro a tantissime persone dello stesso territorio, dietro cui ci sono altrettante famiglie. È quindi un’intera città che ha subito un sopruso e a macchia d’olio un’intera regione.
Regione che è poi anche la tua: sei foggiana.
E da pugliese sono stata onorata di prender parte a un film come Palazzina Laf, un film di denuncia e, come ha detto anche Michele Riondino, un film politico, ideologico, di parte. Ma anche un film con una storia che in grado di parlare non solo del passato ma anche del presente, che può essere traslata in tante mille altre realtà. Quello dell’Ilva è stato un esempio eclatante ma le ingiustizie e i soprusi continuano ancora oggi ad avvenire in mille altri contesti lavorativi e non. Come abbiamo detto, i soprusi riguardavano un intero territorio, eppure venivano taciuti: figuriamoci a quali e quante difficoltà incontra un singolo individuo quando vive una situazione similare, a partire dal fatto che non può condividere il proprio dramma con qualcun altro.
Michele Riondino, attore dalla lunga carriera, è al suo esordio dietro la macchina da presa. Come ti sei trovata a essere diretta da lui?
Benissimo. Non è una frase di circostanza: quando si mette passione, amore e impegno verso ciò che si fa, si riesce anche a trasmetterlo a chi ci sta intorno. E questo è stato il caso di Michele: a Palazzina Laf ha dedicato un arco di tempo molto ampio della sua vita. Era un progetto voluto che lo coinvolgeva personalmente e ciò ha fatto in modo che la sua cura e il suo amore si riversassero anche su noi attori, sul modo in cui ci ha diretti e sull’atmosfera che si respirava sul set. Eravamo a tutti gli effetti una famiglia, anche perché abbiamo cominciato a stare tutti insieme ancor prima che partissero le riprese.
Venendo anche lui dal teatro, Michele Riondino ha avuto un approccio poco comune nel mondo del cinema: a poche settimane dal primo ciak, ha voluto che ci riunissimo tutti per fare le prove e per ambientarci all’interno della Palazzina Laf. Per un attore, vivere i luoghi è fondamentale, tanto quando lo è la lettura della sceneggiatura, basata scrupolosamente sulle sentenze giudiziarie, tutti insieme per approfondire le tematiche ed esporre le proprie idee, sensazioni o emozioni. Il lavoro dell’attore è meraviglioso perché passa sempre attraverso il proprio vissuto, che torna utile per interpretare i personaggi.
Palazzina Laf: Le foto del film
1 / 18A livello personale, Palazzina Laf segna il tuo ritorno su un grande set cinematografico. Hai lo scorso anno preso parte a Il ritorno di Stefano Chiantini e alla serie tv Viola come il mare ma prima ci sono stati dieci anni di vuoto nel tuo percorso professionale. A cosa sono dovuti?
È presto detto: ho avuto due bambini meravigliosi, Bianca e Leonardo, e ho voluto in qualche modo godermeli appieno. Ora che sono cresciuti, ho deciso di ritornare a lavorare. Sono nati con 21 mesi di differenza e ciò mi ha portata a fare una scelta che spesso una donna deve compiere in base anche alla propria situazione personale. Non ti nego che il rientro non è stato facile: quando si fanno scelte se vogliamo “coraggiose” non è detto che ritrovi un ambiente lavorativo sempre pronto ad accoglierti. E per una donna lo è ancora di più: tutto è così in movimento che si viene sostituite in un batter d’occhio.
Le difficoltà saranno state molte. Non nascondiamoci: anche il passare dell’età pesa sulle attrici come una spada di Damocle sulla testa.
Non è da sottovalutare, anzi. Mentre un attore a cinquant’anni può permettersi ancora di fare il protagonista, più complicato è per un’attrice. Anche se credo che negli ultimi tempi si stiano facendo tanti passi in avanti: percepisco una sorta di risveglio, dettato dalla volontà di acquisire maggiore parità tra i generi.
Lo stereotipo della donna giovane, perfetta e performante, in tutto ciò che fa continua a essere forte, così come quello della madre che deve necessariamente essere accogliente e accudire. E ciò complica ulteriormente le scelte che si fanno: a volte sono più le costrizioni che vengono dall’esterno a impedirti di andare avanti che la reale possibilità di farcela. Il peso di tutto ciò fortunatamente inizia ad alleviarsi, riducendo il gender gap, perché sono state le donne ad aver cambiato forma mentis, puntando a non lasciare l’autodeterminazione a casa e a non darla vinta al patriarcato.
Scardinare un certo tipo di pensiero che ti viene tramandato e inculcato è complicato ma il risveglio sociale e la volontà di unire le forze hanno dato una spinta maggiore al cambiamento: agire da soli è importante ma per fare grandi cambiamenti occorre fare squadra, lavorare insieme e non avere paura di stare insieme. La competizione e la voglia di primeggiare e dimostrare di avere qualcosa in più rispetto agli altri alla lunga non ripagano.
Palazzina Laf è un film che ci riporta al grande cinema sociale per cui l’Italia era conosciuta anche all’estero. È un genere che ci siamo quasi dimenticati ma che negli Stati Uniti va ancora molto forte. Tu negli USA hai anche studiato. Hai colto delle differenze di metodo tra un Paese e l’altro?
Purtroppo, sì. Quello di attore è un mestiere vero e proprio come può esserlo quello di un avvocato, un notaio, un medico e via discorrendo. In molti, invece, hanno la percezione che non ci sia studio dietro quando invece è un lavoro che richiede formazione, ricerche, tempo e denaro investiti, come tutte le altre professioni. Negli Stati Uniti questo pensiero è molto forte mentre in Italia ancora manca: da noi, si pensa che tutti quanti possano diventare attori o che basti svegliarsi una mattina e, avendo una faccia carina, provarci.
Non nego l’esistenza del talento innato ma abbiamo visto fin troppa gente improvvisarsi attore, vivere un momento di gloria e poi eclissarsi. L’attore quando recita si mette a nudo davanti agli altri e lo si può fare solo quando si è pronti a mettersi in gioco con la propria interiorità, i propri demoni e i propri pensieri, da sviscerare e verbalizzare. Non è facile.
A proposito di Stati Uniti, hai raccontato ai tuoi figli che la mamma era la protagonista di un videoclip molto noto di Lenny Kravitz?
Sì (ride, ndr). E lo hanno anche visto, con una certa incredulità e sorpresa. È stata quella un’esperienza divertentissima ma è stata ancora più divertente riviverla adesso insieme ai miei figli. Come divertente è stato portarli con me alla Festa del Cinema di Roma: è stato bello vedere tutto quello stupore nei loro occhi rispetto a una professione così inusuale. Hanno però vissuto il tutto con molta normalità perché è così che io amo che si viva.
Non occorrono i sottotitoli per capire quanto tu sia legata ai tuoi figli…
Sono un sogno che si è realizzato. Come un sogno che si realizza è il mio lavoro ogni volta che posso farlo. Non do mai niente per scontato perché niente lo è. Mi considero molto, molto fortunata: attraverso il mio lavoro, posso condividere la mia esperienza e i miei valori con cui molte più persone. Perché, in fondo, ricordiamoci che l’arte è condivisione di qualcosa e che l’artista condivide se stesso, trasmettendo le emozioni che sta vivendo o ciò in cui crede ai propri figli, a un amico, a un compagno e al pubblico in generale.
Come hai spiegato ai bambini il lavoro che facevi?
In casa nostra da sempre si vive di cinema. Sia io sia marito, che per un periodo di tempo ha fatto l’attore, siamo appassionati di cinema: loro sono cresciuti guardando con noi film su film, tutti in lingua originale perché ci piace sentire la voce degli attori, le loro pause, i loro silenzi e i loro respiri. Di conseguenza, è stato abbastanza naturale per loro immergersi nel mio mondo. La professione che svolgo mi permette di avere anche grandi pause, dei lunghi momenti in cui dedicarti completamente a loro e ciò ha fatto sì che amassero la mamma attrice, senza mai sentirne il peso delle conseguenze: non ho mai fatto mancare loro il mio supporto, vicino o lontano che fossi.
Come l’hanno presa, invece, i tuoi genitori quando hai detto loro che la recitazione era la tua strada?
Avevo un piano b, una laurea in Scienze della Comunicazione, per far contenti i miei genitori. Tuttavia, mia madre – papà non c’è più - mi ha sempre sostenuta moltissimo, nonostante la mia fosse una famiglia del sud, dove vige ancora il mito del posto fisso. Sono da sempre legata alla mia terra, ancorata alle mie radici e ai miei valori, nonostante tutti i limiti che il sud ha e che in qualche modo di danno anche una forza in più nel cercare di raggiungere i tuoi obiettivi per poi ritornare e dare il tuo contributo.
Io non sapevo di voler fare l’attrice: è accaduto tutto per caso quando per circostanze varie sono capitata a un provino con Sergio Rubini per il film L’anima gemella. Ho improvvisato una scena e mi sono sentita catapultata in un’altra dimensione: ricorderò per sempre la sensazione provata. Ed è stato il desiderio di riprovarla ancora una volta che poi mi ha spinta su questa strada. Recitando puoi dare sfogo a sentimenti che temi possano essere giudicati o che credi non facciano parte di come gli altri ti percepiscono: ti senti libero ed è la libertà che mi ha fatta innamorare di questo mestiere.
I tuoi primi film, tra cui Il pesce innamorato di Leonardo Pieraccioni, sono stati commedie. Cosa ti dava la commedia?
Mi sono trovata molto a mio agio con il genere, anche se le mie corde sono più quelle che ho mostrato con il personaggio di Rosalba. La commedia, seppur nella sua leggerezza, ti spinge ad affrontare storie e argomenti su cui riflettere attraverso la risata e il divertimento.
Cosa ti fa ridere oggi?
Mi fanno ridere i mie figli ma anche mio marito, tutte quelle situazioni di vita quotidiane che inaspettatamente ti rivelano qualcosa di buffo.