Martin Loberto, giovane attore di origine pugliese, approda al cinema il 29 giugno grazie al film Lo sposo indeciso, una commedia di Giorgio Amato con Gianmarco Tognazzi, Ilenia Pastorelli, Ornella Muti, Francesco Pannofino, Giulia Gualano, Claudia Gerini e Jenny De Nucci tra gli altri, distribuita da EuroPictures.
Nella surreale storia del professor di filosofia Gianmarco Tognazzi che rimane “intrappolato” in bagno il giorno delle sue nozze con una giovane “popolana”, Martin Loberto interpreta Martino, un wedding planner esperto che per la prima volta ha dal suo capo l’opportunità e la responsabilità di coordinare tutta l’organizzazione del matrimonio a casa della sposa Ilenia Pastorelli. Temendo di deludere il suo capo Giulia Gualano, Martino fa di tutto affinché le cose vadano per il verso giusto facendo buon viso a cattivo gioco di fronte ai genitori della sposa, Ornella Muti e Francesco Pannofino.
Vivace, colorato, sorridente, ansioso, perfezionista, risoluto e un po’ sopra le righe, Martino ha tutte caratteristiche molto vicine alla persona di Martin Loberto (“anche se sicuramente più contenute e misurate”, precisa l’attore). Seppur sia al suo secondo ruolo al cinema, Martin Loberto ha alle spalle una lunga carriera di attore e regista teatrale, costruita passo dopo passo con le sue mani, senza l’aiuto di nessuno (nemmeno di un agente). È partito da un paesino di diecimila anime dopo aver scoperto la recitazione grazie a una compagnia amatoriale e aver praticato per tredici anni balli di gruppo.
Ma per sapere chi è Martin Loberto ci siamo regalati con lui una lunga intervista in esclusiva.
Intervista esclusiva a Martin Loberto
“Sono pugliese d’origine ma mi sono trasferito a Roma ormai da dodici anni”, mi spiega Martin Loberto, alla sua prima importante prova cinematografica nei panni del wedding planner Martino.
Rispetto a Martino, hai ora i capelli biondi. Come mai questa scelta?
Mi son fatto biondo perché era qualcosa che almeno una volta nella vita avrei voluto fare, prima di perdere definitivamente i capelli. Per fortuna, non li ho ancora persi ma, prima che certe dinamiche entrino in gioco, ho voluto fare la mattata di farmi biondo e, con sorpresa, ho avuto tanti riscontri positivi. Chi mi conosce, mi ha anche detto che adesso sono veramente io, mettendo a tacere l’ansia tremenda che solitamente mi contraddistingue. Pensavo di aver fatto una cavolata e invece… Sto bene e mi piaccio, speriamo solo che il biondo possa portarmi anche qualche beneficio a livello lavorativo: non mi dispiacerebbe tenerlo come colore. Il nero è il mio colore naturale ma mi fa sembrare uno dei tanti, quasi anonimo: il biondo dà più risalto invece ai tratti anche del volto.
Lo sposo indeciso è la tua seconda prova da attore per il cinema. Avevi esordito qualche anno fa con un ruolo un po’ più marginale in Oh, mio Dio!, sempre diretto da Giorgio Amato. Chi è Martino?
Martino è un personaggio che Giorgio Amato ha scritto praticamente per me. Ho conosciuto Giorgio qualche anno fa quando per Oh, mio Dio!, un film che raccontava la storia di Gesù ai giorni nostri, ho ricoperto un piccolo ruolo: ero Mattia, uno degli apostoli, e avevo veramente due battute in croce. Tuttavia, non avevo idea che durante le riprese Giorgio mi osservasse e mi studiasse, non pensavo di aver lasciato alcun segno.
E, invece, mi sbagliavo: a distanza di otto anni, Amato mi ha richiamato invitandomi a sostenere un provino per un personaggio per un progetto che aveva in cantiere e che finalmente aveva trovato un produttore. E quel personaggio era Martino, un wedding planner con caratteristiche che si avvicinano alle mie e con una personalità affine alla mia. Sono rimasto piacevolmente sorpreso: non ci eravamo più sentiti negli anni!
Ho sostenuto il provino ma non sapevo se poi avrei interpretato il personaggio. Accade spesso che, dopo i provini, si scelga qualcun altro. E di fatto sono state avanzate anche altre ipotesi che Giorgio ha restituito al mittente. Ed è così che, dopo tre provini, mi sono ritrovato a essere scelto per Martino, un personaggio sopra le righe, effemminato e con movenze particolari delle mani… caratteristiche che non mi rispecchiano nella vita, dato che riesco a rimanere un po’ più contenuto di Martino! Ma anche un personaggio molto ansioso che vuole a tutti i costi soddisfare le richieste del suo capo, interpretato da Giulia Gualano, per il matrimonio tra il professor Gianni Buridano (Gianmarco Tognazzi) e Samantha (Ilaria Pastorelli), ragazza delle pulizie.
Non potendo il suo capo essere presente, Martino si ritrova per la prima volta ad avere a che fare ad esempio con la gestione e i problemi della casa della sposa… ed io con attori del calibro di Ilenia Pastorelli, Ornella Muti e Francesco Pannofino! Entrambi con ansia e lui con una certa dose di isterismo.
Per due volte, nelle tue due risposte è venuta fuori la parola “ansia”.
Sono ansioso da morire. Lo sono perché non mi sono mai fermato nella mia vita e perché ho realizzato da solo tutto ciò che mi sono costruito: non avevo né le risorse economiche né le spalle coperte. Ho dovuto sempre fare, fare e fare, senza mai fermarmi per la paura di non arrivare a fine mese e di dover rinunciare ad affermarmi come attore. La mia è un’ansia che considero però benefica e che mi ha spinto a voler far bene, a farmi notare e a dimostrare nel miglior dei modi di cosa fossi capace. È un’ansia che mi ha spronato a crescere come persona e a farmi acquisire maggiore responsabilità.
Martino è anche sopra le righe. Che vuol dire per te essere sopra le righe?
Lo sono anch’io ma a 31 anni, con la maturità che arriva e gli anni che passano, questo aspetto della mia personalità è un po’ più contenuto. Per sopra le righe intendo una persona che non ha paura di urlare perché euforica o che non ha paura di abbracciare qualcuno quando ne se sente la necessità. Una persona che non si preoccupa dell’essere impostato da un punto di vista sociale e di non adeguarsi agli standard o di “innervosire” gli altri. Essere sopra le righe spesso significa proprio superare quei limiti che vogliono imporci ed essere se stessi senza tutti quei paletti e quelle etichette che ci vengono inculcati. E come Martino anch’io mi faccio notare nella vita di tutti i giorni.
E hanno mai provato a farti scendere sotto le righe limitando la tua personalità esuberante?
Si. Mi ricordo ad esempio ai tempi dell’Accademia quando una mia collega mi definì arrivista per questo mio modo di essere. Quasi non sapevo nemmeno cosa significasse la parola, al punto che andai a cercarmela nel dizionario e fu un trauma per me: l’arrivista è colui che cerca di sorpassare gli altri nel raggiungimento di un obiettivo avendone dei benefici. Una descrizione che non mi corrispondeva e che non mi corrisponde: gli obiettivi sono importanti per me e nessuno deve cercare di impedirmi di raggiungerli ma questo non significa che io sia disposto a passare sulla testa degli altri. Il mio obiettivo più grande è la felicità: se qualcuno compromette la mia felicità, semplicemente lo allontano.
Quella definizione, ovviamente, mi ha invitato a riflettere e a limitare determinati miei atteggiamenti. Da quel momento in poi, ho cominciato ad esempio a non alzare più la mano quando Giorgia Trasselli, la mia insegnante di recitazione in accademia, chiedeva chi volesse fare una scena. Prima lo facevo non perché fossi arrivista: consideravo semmai quello un momento di crescita professionale. Ed io volevo imparare quanto più possibile anche in breve tempo per cominciare a lavorare il prima possibile come attore. Ma molto probabilmente la mia alzata di mano veniva vista come sintomo di una personalità troppo forte che impediva agli altri di emergere.
Sei cresciuto in una famiglia del sud, in un contesto in cui spesso lo spettacolo è visto come un hobby o una stravaganza e non come un lavoro. Eppure, a cinque anni hai cominciato a studiare e praticare danza.
Sono nato in una famiglia di matti. È mia madre ad aver scelto in qualche modo la strada che avrei dovuto percorrere: sin da quando sono nato, ha deciso che dovevo essere un artista e non una persona che come tante altre si sarebbe fasta bastare il posto fisso e la serenità della famiglia. Il mio nome di battesimo è Martino, datomi nel rispetto del nonno paterno, ma per mia madre sono sempre stato Martin, senza quella “o” finale: è una semplice lettera ma io non riesco tuttora a girarmi se qualcuno mi chiama Martino!
La danza è arrivata dopo uno recita all’asilo, in cui la mia maestra mi ha messo in prima fila a ballare con una mia compagnetta. E già allora, come dimostra un video che riguardiamo spesso a casa, in quell’esibizione c’erano tutti i tratti salienti della mia personalità: non potevano fermarmi niente e nessuno. Volevo da quel momento solo ballare e i miei genitori, che non si mai opposti ai miei desideri, mi hanno immediatamente iscritto a una scuola di ballo.
Sono originario di un piccolo paese, San Giorgio Ionico, abitato da dieci mila abitanti e senza nemmeno tante attività sportive da fare: chi voleva praticare sport, poteva scegliere solo tra calcio, karate e ballo. Ed erano in molti a frequentare in quel periodo la scuola di ballo, senza alcuna distinzione di genere. Non esistevano preconcetti per cui i maschi praticassero calcio e le femmine ballo: si andava tutti quanti, anche perché i balli di coppia erano un must.
Ho praticato danza per 13 anni e preso parte a diversi concorsi, diventando anche campione italiano di balli di coppia prima di scoprire la recitazione. Anche quella è stata una scoperta per caso: ogni anno, d’estate, nel mio paese si organizzava una spettacolo all’aperto di commedie in vernacolo. Il capocomico cercava un ragazzino che potesse interpretare il ruolo del figlio: era vicino di casa di mia nonna ed è stato da due chiacchiere con mio padre che è nata l’ipotesi del provino.
Sono stato poi scelto e mi sono innamorato perdutamente della recitazione, capendo che era quello che avrei voluto fare per il resto della vita: l’emozione che mi ha dato recitare su un palcoscenico interpretando un personaggio non era qualcosa che avevo mai provato da ballerino. Mi piaceva e mi piace tantissimo ballare, tuttora frequento dei corsi di danza e mi alleno (il corpo me lo richiede sempre) ma trovo molto più appagante il mestiere di attore.
E ancora una volta sono stati allora i miei genitori a spingermi a provare la strada che ritenevo più adatta per me. Su loro consiglio, sono partito alla volta di Roma per trovare una scuola di recitazione. Nella capitale mi sono subito imbattuto nella Scuola Fondamenta, diretta da Giorgia Trasselli, e sono andato a sostenere il provino di ammissione ignaro di ciò che m’aspettava dopo.
Seconda prova di attore al cinema ma un curriculum, il tuo, segnato da tanti spettacoli teatrali più o meno importanti (Non si uccidono così i cavalli?, per esempio) e persino musical, Pippi Calzelunghe, nato da un’idea di Gigi Proietti.
Subito dopo l’Accademia, mi sono specializzato in musical al Laboratorio dello IALS diretto da Cesare Vangeli e sono volato a Londra per imparare l’inglese. Tornato in Italia, ho cominciato a muovermi nel mondo dei provini per piccoli spettacoli anche di teatro off: così facendo, è stato tutto un susseguirsi di lavori a cascata fino a quando non sono stato scelto per quello che considero uno dei primi spettacoli teatrali importanti interpretati, Catenaccio, al Teatro Eliseo con Giorgio Tirabassi e Carlotta Proietti per la regia di Giancarlo Fares, uno dei miei insegnanti di Accademia. Il mio era un piccolo ruolo ma mi ha regalato un rapporto bellissimo e strettissimo con Carlotta prima e il resto della sua famiglia dopo.
Di Non si uccidono così i cavalli?, sempre diretto da Fares, sono stato protagonista per il secondo anno di spettacoli, subentrando a Giancarlo Commare, diventato nel frattempo una star. Ed è stato subito dopo che Carlotta Proietti mi ha contattato per una nuova edizione di Pippi Calzelunghe. Fermato a causa del Covid, Pippi Calzelunghe riprenderà a novembre di quest’anno: interpreterò nuovamente Kling, uno dei due poliziotti che redarguisce Pippi.
E non sei soltanto attore teatrale ma anche regista: Favolah.
Come tutto nel mio percorso, è accaduto senza averlo previsto. Mi era stato proposto di lavorare come insegnante di recitazione in una scuola di Acilia e avevo accettato. La scuola produce anche degli spettacoli e il primo di cui ho curato la regia si chiamava Sinfonité, una commedia musicale in cui diversi autori morti per ricordarsi di essere tali scrivono altre storie per completare delle storie incompiute. È andato bene e ha fatto da apripista per Favolah, una commedia per ragazzi in cui si incontrano vari personaggi del mondo delle fiabe. Quello del regista è un lavoro che mi piace e a cui vorrei dar seguito, compito del regista è quello di coordinare gli attori e spingerli verso determinate emozioni. È un po’ come se il regista interpretasse tutti i personaggi.
E com’è insegnare a degli allievi che possono essere non solo più giovani di te ma anche tuoi coetanei o più adulti?
Non mi pongo mai come insegnante, come colui che sale in cattedra e interroga. Mi sono sempre posto come compagno di scena ai miei allievi portando loro semplicemente la mia esperienza. Non ho mai avuto la presunzione di dettar legge ma porto loro solamente ciò che ho appreso studiando e stando in scena.
Sinfonité e Favolah erano appunto commedie. Ma tu hai anche diretto uno spettacolo su un tema molto drammatico, la pedofilia. Si chiamava Il mostro, scritto e interpretato da Luca Buongiorno e con nel cast anche Laura Schettino e Yuri Napoli.
Odio le etichette nella vita. Il fatto di essere sempre sorridente ed energico viene spesso confuso con l’essere superficiali: ragione per cui per i ruoli più impegnativi spesso vengo bypassato da attori che hanno un mood più cupo e introverso. Dimenticano che spesso le personalità estroverse nascondo dentro qualcosa di molto più profondo che deve ancora venir fuori. È facile portare se stessi in scena ma il compito di un attore è quello di interpretare personaggi che sono altro da sé.
Il mostro è stato purtroppo poco tempo in scena. Raccontava la pedofilia dal punto di vista del pedofilo e non è stato semplice metterlo in scena: sarebbe bastato poco per infastidire il pubblico. Motivo per cui prima di portarlo a teatro abbiamo richiesto il supporto di psicologi ed esperti: avevamo bisogno di confrontarci tutti quanti con una tematica che non conoscevamo e che non ci apparteneva.
Lo sposo indeciso: Le foto del film
1 / 13Lo sposo indeciso ha alla base quello che viene definito “paradosso dell’asino”, ovvero l’impossibilità di scegliere quando si è posti di fronte a diverse opzioni. Tu hai sempre scelto liberamente nel tuo percorso?
Si. Per fortuna non ho mai avuto nessuno che abbia scelto per me o che mi abbia spinto a cambiare idea. Se ho sbagliato, l’ho fatto da solo. Ma anche gli sbagli spingono alla riflessione.
E hai dato più ascolto alla mente o al cuore?
Credo che mente e cuore siano perfettamente collegati in un flusso di pensieri continui. Ho scelto con entrambi: qualsiasi mia scelta è stata dettata dallo stare bene e dalla non compromissione della mia felicità, che – ripeto – rimane l’obiettivo più grande della mia vita.
Citando uno spettacolo teatrale che ti ha visto protagonista, qual è il sogno da non rubarti?
La possibilità come attore di interpretare chiunque, senza alcuna etichetta.