Martina Avogadri è l’unica attrice italiana del film Netflix Lift. Insieme al connazionale Stefano Skalkotos, Martina Avogadri si è ritrovata a dover recitare a fianco di mostri sacri come Kevin Hart, Gugu Mbatha-Raw, Sam Worthington e Jean Reno, dando vita alla cattiva di Lift, il film d’azione che esordisce su Netflix il 12 gennaio. È lei, infatti, colei a cui è destinato il carico d’oro che servirà per pagare un attentato terroristico che sulla carta dovrebbe riscrivere l’assetto dell’intero mondo.
Attrice bergamasca emigrata a Londra nel 2016, Martina Avogadri ci racconta in esclusiva com’è stato dover tener testa sul set del film Netflix Lift a un attore come Jean Reno, suo partner in scena, ma anche dover destreggiarsi nei panni di una malefica manipolatrice, le cui battute in un primo momento erano ridotte all’osso. Ma è grazie alle sue capacità di attrice che il regista F. Gary Gray ha voluto che la sua “leader di Leviathan” assumesse sempre più peso fino alla scena risolutiva della storia.
Intervista esclusiva a Martina Avogadri
“Il nome ufficiale è Leviathan Leader”, scherza Martina Avogadri quando le faccio notare che il suo personaggio nel film Netflix Lift non è dotato di un nome proprio a cui far riferimento. “È la leader di un gruppo di hacker che in maniera molto filosofica si chiama ‘Leviatano’, che ha potenti connessioni ed è noto per la sua brutale onnipotenza nel mondo criminale”.
Il Leviatano è il mitico mostro a due teste, “ed è stupenda come metafora”, continua Martina Avogadri. “È un mostro in questo caso che ha le mani in pasta in uno dei settori chiave per quanto concerne la pace globale: l’economia. E in più mi riconnette un po’ alle mie radici filosofiche: ho studiato Filosofia all’università prima di frequentare l’Accademia di recitazione”.
E cosa ti ha portata da filosofa a diventare attrice?
Credo che le due professioni in qualche modo si allineino: c’è di base la stessa curiosità o la stessa ricerca di qualcosa che ha a che fare con l’esperienza umana. Era un qualcosa che non ho però trovato a livello accademico, ragione per cui quelli degli studi sono stati anni da un certo punto di vista anche difficili: a volte, l’università offre un percorso purtroppo incartapecorito che non ti aiuta a capire in che direzione si voglia esattamente andare. È quello che è accaduto nel mio caso: sapevo che volevo andare da qualche parte ma non specificatamente dove.
Ed è stato in quegli anni che sono finita spesso a teatro a vedere i primi spettacoli di Emma Dante: è in quelle sale che ho ricominciato a respirare e mi sono innamorata della recitazione. Mi sono preparata poi in modo folle per sostenere i provini riuscendo a essere ammessa in varie accademie. Ho deciso poi di proseguire con la Paolo Grassi e da lì è cominciata la mia storia da attrice.
Storia di attrice che, partita da Bergamo, si trova oggi a Londra. Come arrivi in Inghilterra?
In Italia, ho lavorato prevalentemente in teatro. Finita la Paolo Grassi nel 2012, per quattro anni ho lavorato in produzioni molto belle in teatri altrettanto belli e con attori eccezioni, come ad esempio Giuseppe Battiston. Però, ancora una volta, c’era qualcosa che mi mancava e che non trovavo. E, così, nel 2016 ho ascoltato il mio desiderio di spostarmi verso il cinema. Avrei dovuto quindi trasferirmi a Roma, che in Italia è un po’ la sede per l’eccellenza del cinema, ma mi è sembrato in quel momento più semplice volare a Londra.
Avevo sostenuto un po’ di provini a Roma che non erano andati nella giusta direzione e facevo fatica a capire come inserirmi nel mondo del cinema e della televisione italiano per tutta una serie di ragioni non solo legate all’industria ma anche personali. Non trovando la chiave, anziché trasferirmi verso Roma, ho pensato di provare con un’esperienza internazionale e di spostarmi fuori dai confini per vedere cosa sarebbe potuto accadere. E, quindi, sono arrivata a Londra, una città che crea una sorta di dipendenza in chiunque si ritrovi a viverci: è difficile andarsene. Si sono create nel frattempo una serie di occasioni e la mia vita si è strutturata qui. Definisco il mio essere a Londra un “esilio scelto”, mi piacerebbe molto tornare in Italia e lavorare lì: mi manca.
È stato facile da giovane donna ambientarsi a Londra?
No, assolutamente. Ho lasciato tutti i miei affetti in Italia e sono partita da sola. Ho cominciato da zero, lavorando in un pub e facendo tutta una serie di cose che in Italia avevo già fatto ma dieci anni prima. C’è voluta una grossa dose anche di umiltà nel rimettersi in gioco ma ciò mi ha permesso di ricominciare diversamente e avere un altro pensiero sul mestiere d’attore.
In Italia, se per sopravvivere un attore fa un secondo mestiere, la percezione è quella che non stia avendo successo, ad esempio: è una visione molto limitante. Ci si scorda che quella del cinema è un’industria in cui ci sono tantissimi attori: emergere è una questione a volte di merito ma spesso anche di fortuna (ci sono molti bravi attori che conosco che lavorano meno di quello che dovrebbero). Un secondo lavoro è spesso associato all’idea di fallimento e ciò fa sì che molti colleghi facciano veramente fatica ad arrivare a fine mese. Nel mondo anglosassone, invece, è quasi normale per un attore svolgere un secondo lavoro. Ciò si riflette poi sulle scelte che si fanno: un secondo lavoro dà grande libertà e sicurezza per cui ci si può permettere di dire “no” a ruoli che non si vogliono accettare anziché vivere in uno stato di costante disperazione.
La libertà dovrebbe essere la priorità di ognuno di noi.
Assolutamente sì. Almeno per me, lo è. Come artisti, nel momento in cui barattiamo la libertà con la sicurezza, perdiamo di vista anche la libertà nell’espressione artistica, non assumendoci più rischi. Il mestiere dell’artista è quello di spingere verso la libertà e non verso la sicurezza.
Stefano Stalkotos ci ha raccontato che sul set del film Netflix Lift gli sei stata di grande aiuto non solo linguistico ma anche psicologico. È forse un po’ legato alla filosofia di cui parlavamo prima?
Più che altro alla dimensione della filosofia applicata. I principi di condotta anglosassone sono piuttosto diversi da quelli italiani. Tra questi, c’è il famoso ‘Keep calm and carry on’, che vivendo a Londra ho adottato anch’io: ci sarebbero altrimenti cose che sarebbero veramente quasi insopportabili. Molto probabilmente ho cercato di trasmetterlo anche a Stefano e, se effettivamente l’ha recepito, non può che farmi piacere. Il nostro è stato un incontro molto bello, siamo entrati subito in sintonia e ci siamo goduti al massimo quest’esperienza abbastanza straordinaria.
Per quanto riguarda l’aiuto linguistico, essendo ormai fondamentalmente bilingue, era il minimo che potessi fare, anche perché Stefano era l’unico attore italiano in quel contesto. Sì, anch’io sono italiana ma rispetto a lui sono completamente anglofona. Questo non vuol dire che Stefano non conoscesse molto bene l’inglese: aveva chiaramente qualche difficoltà in più perché non è la lingua con cui comunica tutti i giorni.
Sul set del film Netflix Lift, ti sei mai chiesta ‘cosa ci faccio qui?’?
Son sincera: mi ero fatta una domanda simile ma leggermente diversa. Sia il mio personaggio sia quello di Stefano sono cresciuti durante le riprese. All’inizio, sebbene dalla descrizione sembrasse molto interessante, a livello pratico il mio personaggio aveva una o due battute, niente di più. Ma la produzione anche per il ruoli minori cercava attori professionisti e non semplici comparse. C’era un grosso interrogativo intorno a questa leader e la mia sensazione era quella che, se mi fossi giocata bene le carte, qualcosa avrebbe potuto evolversi. Ed effettivamente così è stato.
Mi sono anche chiesta del perché abbiano scelto me. Lavorando in Inghilterra, ho anche una mia piccola compagnia di produzione indipendente, per cui mi è capitato di selezionare degli attori per alcuni miei progetti. Ho dunque una certa comprensione del processo di casting e delle variabili che entrano in gioco: a volte è solo una questione di fortuna nell’essere il volto e l’energia giusta che si sposano esattamente con la visione che chi seleziona ha in quel momento.
È stato divertente interpretare la cattiva della situazione?
È meraviglioso mettersi in gioco con un personaggio ‘negativo’. C’è molta più possibilità di gioco e di esplorazione tra la versione che il personaggio presenta di sé e quelle che sono le reali intenzioni. Si può far un lavoro anche più stratificato e poi i personaggi negativi mi divertono molto perché sono meno politically correct: si possono permettere ciò che i buoni non fanno. Tra l’altro, credo proprio che quello della manipolatrice un po’ sinistra sia il mio casting type: non è la prima volta che mi capita di recitare nei panni di personaggi manipolatori o un po’ pericolosi.
Questo non vuol dire che non mi piaccia dedicarmi ad altri ruoli, per cui il centro del lavoro è la vulnerabilità, come nel caso di un film che uscirà prossimamente di cui sono produttrice e interprete. Si chiama Omyo e racconta una storia sull’orrore e sulla violenza che l’ossessione per se stessi ha generato, incoraggiata dall’iper tecnologizzazione delle nostre vite: la separazione tra l’identità che ci creiamo e l’esperienza vissuta genera mostri e quei mostri sono al centro del film. Con la mia compagnia di produzione, lavoro molto su film di genere horror e thriller perché danno maggior libertà creativa nell’esplorare alcuni temi senza vincoli. Tra l’altro, è un film che è stato girato in Italia: la produzione è inglese ma per girarlo sono tornata nella mia terra d’origine, la bergamasca.
Il fatto che ti vedano come “manipolatrice” non ti porta a farti domande sulla tua identità e su cosa spinga gli altri a dipingerti così?
Credo dipenda dal mio look. È abbastanza freddo e restituisce l’idea di una femminilità molto androgina che ben si presta a certi ruoli. È un’immagine che, purtroppo e in modo sbagliato, ho combattuto per tanto tempo. All’inizio della mia formazione come attrice, mi si diceva che avrei dovuto essere più morbida, più femminile, in senso classico. Ciò mi ha portato a cercare di modificarmi anche esteticamente invece di abbracciare quelli che erano i miei tratti di unicità.
È solo crescendo e accumulando esperienze che ho finalmente capito che il mio aspetto è in realtà un punto di forza e non di debolezza. Abbracciarlo, mi ha aperto a una serie ruoli e mi ha permesso di sfruttare la mia immagine anziché cercare di nasconderla.
Da attrice, il mio obiettivo è quello di rompere l’identificazione con me persona, dato che io, comunque, sono semplicemente una versione accidentale a tutte quelle che avrei potuto essere, basata sulla mia storia, sulla mia famiglia e su quello che ho fatto nella mia vita. Avrei potuto essere chiunque altro se avessi avuto una storia diversa. Il mio tentativo è dunque quello di tornare a un grado di neutralità massimo dal quale posso poi estrarre il mio strumento emotivo e comportamentale per andare in qualsiasi direzione.
Riconoscere la propria unicità e non cedere allo stereotipo: è un discorso molto contemporaneo.
Credo sia fondamentale per un attore riconoscere i propri punti di unicità senza però identificarsi in essi. Il compito dell’attore non è l’identificazione ma la disidentificazione, un processo opposto che gli permette di essere fluido a sufficienza per poter interpretare qualsiasi ruolo. Si riconoscono quindi i punti di unicità per partire da essi ed esplorare tutto il resto, senza precludersi nulla.
In Lift, il film Netflix in cui ti vediamo in questi giorni, tieni testa a un attore del calibro di Jean Reno.
Non sapevo di dover girare con lui fino alla sera prima delle riprese. L’ho scoperto quando, arrivandomi l’ordine del giorno, ho trovato il suo nome accanto al mio. Il che ha ovviamente generato una certa ansia da prestazione che poi si è sciola una volta sul set. Una volta arrivata per le riprese, Jean Reno era già lì e mi è venuto incontro per presentarsi: ‘I’m Jean Reno’, mi ha detto. L’ho guardato e gli ho risposto ‘I know’.
Lavorare con lui è stato straordinario: è un attore con una presenza scenica incredibilmente magnetica. Jean è una di quelle persone che cambia l’energia di una stanza con il suo arrivo ed è anche estremamente generoso: lascia molto spazio al partner in scena, con cui è sempre presente, anche quando la telecamera non è su di lui. È stato lui, ad esempio, a darmi le battute quando non era inquadrato e non è qualcosa che accade sempre su un set.
Mi ha colpito come si vedesse la sua grandissima esperienza accompagnata al contempo da una leggerezza e da un’eleganza che lasciavano emergere quanto fosse profondamente innamorato del proprio lavoro. È un amore per il gioco che riesce a trasmettere anche al partner di scena facendo sì che si crei al momento una situazione molto bella e con grande apertura creativa. Il suo magnetismo è qualcosa che mi ha sempre affascinata, sin da quando lo vedevo in tutti i film di Luc Besson di cui è protagonista: non ti stancheresti mai di vederlo e di rivederlo.
La sfida maggiore è stata quella di occupare lo spazio in scena in modo tale da poter riempirlo nella maniera corretta per stare accanto a un attore come lui. Riuscirci, mi ha permesso di elevarmi come professionista: è un immenso regalo quello che mi ha fatto.
Hai ovviamente incontrato gli altri attori del cast.
Ci ritrovavamo tutti nella green room: è stato in generale un set molto accogliente, da parte di chiunque. E il che si è riversato anche a livello produttivo. Si respirava un’aria molto conviviale, diversa da quella respirata in altri contesti. Per Netflix, avevo già preso parte a una serie tv dal titolo The Diplomat ma la produzione inglese era molto più ‘controllata’ da questo punto di vista: erano tutti molto più riservati, tanto per rafforzare uno stereotipo. Gli americani, invece, si sono dimostrati più caldi e aperti.
Quella di Lift è stata un’esperienza molto piacevole: mi ha dato l’opportunità di fare quello che più amo, ovvero prepararmi per un ruolo e abbandonarmi dopo all’esigenza creativa del momento. La ricorderò anche per un episodio molto divertente capitatomi mentre giravamo a Trieste: nonostante il set fosse blindatissimo, una fan era riuscita ad avvicinarsi. Scambiandomi per qualcun’altra, mi ha chiesto un video per il figlio, che secondo lei mi amava alla follia. Ho provato a spiegarle che sicuramente si sbagliava ma non c’è stato verso. Quindi, approfitto ora per dire a quel Miguel che non ero chi voleva che fossi (ride, ndr).