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Martina Badiluzzi: “La diversità come unica opzione possibile” – Intervista esclusiva

Martina Badiluzzi
Fa tappa a Roma lo spettacolo teatrale Penelope, scritto e diretto da Martina Badiluzzi. È una riflessione sui desideri e sentimenti di una donna sola e inascoltata che parte dall’Odissea ma parla all’oggi. Abbiamo intervistato in esclusiva la regista.

Il 29 e 30 aprile Martina Badiluzzi porta in scena al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma (e il 1° giugno al festival Primavera dei teatri) Penelope, lo spettacolo che, da lei scritto e diretto, ha debuttato con incredibile successo al Romaeuropa Festival.

Penelope, con protagonista l’attrice Federica Carruba Toscano, è il secondo capitolo dell’ideale trilogia sul femminile della drammaturga e regista Martina Badiluzzi. Il primo capitolo, The making of Anastasia, che vedeva tra le interpreti la stessa Carruba Toscano, aveva vinto il bando Biennale College under 30 e debuttato nella prestigiosa cornice della Biennale di Venezia. Il terzo, invece, andrà in scena il prossimo anno e sarà dedicato alle sorelle Bronte.

Martina Badiluzzi continua così il suo percorso di indagine sull’universo femminile contemporaneo, intessendo un legame concettuale con storie di donne del passato che contengono nella loro essenza più intima l’urgenza dell’attuale. Al centro del racconto c’è una donna che riflette sulla fine della sua stessa storia d’amore, osservando se stessa in relazione a un uomo e deducendone di essere stata una Penelope, uno dei personaggi femminili più stereotipati della letteratura.

“L’attesa di Penelope, la sua resistenza non violenta di cosa ci parla? Perché ci parla in questo momento?”, ha spiegato Martina Badiluzzi nelle note di regia. “Cosa le sta insegnando la compagnia di se stessa? Penelope non è la fotografia al negativo dell’eroico Ulisse, c’è nella sua resistenza qualcosa di vitale e profondo, la sua Odissea è smarrirsi, non in mare ma nel suo inconscio, un’immersione spaventosa nelle sue paure e nei suoi ricordi, un viaggio che le restituirà una donna matura, in contatto coi propri desideri e sentimenti”.

E noi, Martina Badiluzzi, abbiamo voluto incontrarla per parlare dello spettacolo, di donne e di stereotipi duri a morire ma anche di relazioni moderne, uso delle parole e straordinari ricordi che, come in un flusso di coscienza, si rivelano nella loro potenza freudiana.

Martina Badiluzzi.
Martina Badiluzzi.

Intervista esclusiva a Martina Badiluzzi

Come nasce Penelope?

Quella di lavorare su Penelope è un’idea che nasce quasi tre anni fa e risale, quindi, a molto prima della pandemia. Spesso ci chiedono se lo spettacolo ha a che fare con il confinamento e la risposta non può che essere affermativa, dal momento che facendo teatro contemporaneo siamo permeabili a ciò che accade nella vita e a ciò che succede. È vero che lo spettacolo era stato scritto prima ma, in un modo o nell’altro, la realtà ha finito con l’inficiare il nostro lavoro.

L’idea iniziale si deve al desiderio di fare un ragionamento sul cibo e sul come di fatto è sempre stato usato (e lo è tuttora) come un mezzo di controllo del corpo, non solo femminile. A tal proposito, l’altro giorno, spulciando nella lista dei desideri su un noto sito di acquisti online di un mio amico, sono rimasta colpita dall’estetica dei corpi maschili. Se negli ultimi anni la rappresentazione del corpo femminile si è moltiplicata, lo stesso non può dirsi di quelli maschili. Il modello era sempre lo stesso: ogni corpo era pieno di capelli e muscoli.

Poi, inevitabilmente, l’anno scorso la guerra è entrata nuovamente nelle nostre vite e Penelope è tornata a essere una donna che aspetta il ritorno di un uomo dalla guerra. Nessuno poteva aspettarsi questo punto di congiunzione con la realtà: quando si scriveva, nessuno poteva pensare alla guerra… anzi, si era abituati a pensare alla guerra come a un qualcosa che non esiste, nonostante nella realtà a ogni angolo del mondo ce ne sia una, sopita o presente, combattuta o meno. Nel caso della guerra in Ucraina, siamo rimasti molto colpiti per la vicinanza ma anche per le ripercussioni importanti che ha avuto nella nostra cultura e nella sfera politica.

Si sono, quindi, riaperte tutta una serie di questioni di contenuto che sono subentrate nel lavoro e che hanno trasformato radicalmente il pensiero di Penelope e anche i nostri desideri artistici. Il perché del monologo al centro dello spettacolo è diventato molto più chiaro. Da teatrante, trovo che il monologo sia una forma strana o bizzarra non solo per il pubblico ma anche per gli attori, per cui bisogna sempre chiarire a chi si parla. Si parla al pubblico? Si parla a se stessi?

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E cos’è nello specifico?

Abbiamo tutti chiara l’idea di Penelope come emblema dell’essere umano che si accontenta, così almeno la vogliono le semplificazioni. Invece, è molto più complessa. Penelope è il monologo di una donna sola e inascoltata che non ha un referente con cui parlare e confrontarsi, che trova le sue basi nella ricostruzione dell’Odissea di Omero che abbiamo fatto in fase di scrittura. Studiando, abbiamo scoperto dei passi dimenticati del testo e, in particolare, un episodio che quasi nessuno di noi ha letto a meno che non abbia fatto studi specifici. Quello in cui Ulisse e Telemaco, più il secondo che il primo, progettano un sistema complesso di impiccagione per far fuori tutte le ancelle della madre.

È molto interessante a tal proposito quando scritto da Margaret Atwood in un libro che si chiama Il canto di Penelope: il corpo delle ancelle va eliminato in quanto condiviso con i Proci. E nella sua riflessione Penelope si chiede come mai vadano eliminati quei corpi attraverso i quali quelle donne hanno servito e protetto il “potere” di Ulisse. Tutto ciò ha finito con l’influenzare anche la nostra scelta facendoci pensare alla necessità di far parlare Penelope dopo un evento del genere.

La storia delle ancelle in un certo qual modo sembra parlare a noi e a quest’epoca fatta anche di rapporti tossici che, basandosi sull’idea di possesso del corpo, sfociano in violenza.

Penelope parla soprattutto del disgregamento delle relazioni che noto attorno a me. Vedo molti amici che fanno fatica a stare insieme e che sono spinti dal pensare di poter trovare sempre qualcosa di meglio. Anche le relazioni amorose sono diventate performative: il/la prossimo/a saranno migliori per poi rendersi conto che così non è e fare un passo indietro. Penelope, dunque, parla a noi perché solo una donna che ama realmente può sopportare il saltellare di Ulisse: il suo non è un amore romantico ma un amore puro. È anche questo il motivo per cui i classici continuano a parlarci: sono arrivati prima di noi a determinati argomenti e conclusioni.

Federica Carruba Toscano in un momento di Penelope (foto di Guido Mencari).
Federica Carruba Toscano in un momento di Penelope (foto di Guido Mencari).

Penelope è anche il simbolo della resistenza e dell’autodeteminazione femminile. Quanta ne serve a voi per portare avanti una compagnia tutta al femminile?

Tanta. A volte, responsabilmente, mi chiedo il perché di tanta fatica e la risposta è sempre la stessa: forse perché siamo donne. È una domanda che mi accompagna sin da quando abbiamo cominciato a lavorare a questo progetto sulle figure femminili. Spesso mi sento chiedere se il nostro è un teatro femminile, è una domanda ricorrente a cui rispondo sempre che è teatro: se fatto da un uomo, gli chiedete se è teatro maschile?

È come se ci fosse il giudizio per cui tutto ciò che riguarda il femminile o i personaggi femminili appartenessero a una cultura minoritaria e secondaria. Di difficoltà ce ne sono tante: si continua a percepire ciò che viene da una donna o che parla di una donna come appartenente a un genere inferiore a sé stante.

Da attrice, so anche che il confronto con la letteratura teatrale è a vantaggio degli uomini. Esistono molte più storie e personaggi maschili e spesso è difficile anche trovare dei ruoli, anche se con il teatro contemporaneo qualcosa sta cambiando ed esistono anche esempi illuminati di autrici ed autori che si sono presi la briga di scrivere storie femminili interessanti.

Siamo una compagnia di donne ma lavoriamo anche con gli uomini. Nel prossimo spettacolo dedicato alle sorelle Bronte ci sarà anche un attore in scena (il primo che entra nella compagnia) ma dietro le quinte lavorano diversi uomini. Ma il fatto che abbiamo scelto di raccontare storie femminili trasforma il nostro lavoro in qualcosa al femminile: è un po’ come se avessimo le “nostre cose” da fare, un’espressione che sembra ingenua ma che rivela tutto il peso della disparità.

Federica Carruba Toscano in un momento di Penelope (foto di Guido Mencari).
Federica Carruba Toscano in un momento di Penelope (foto di Guido Mencari).

La vostra non è però una battaglia di donne contro uomini ma più un invito alla collaborazione.

Potrò definirmi soddisfatta quando si comincerà a pensare al mondo come a un luogo in cui le uniche operazioni matematiche da tenere in considerazione sono la moltiplicazione e l’addizione e non la divisione e la sottrazione. Solo pensando al mondo come il luogo della diversità riusciremo a far sentire tutti sullo stesso piano, anche dal punto di vista dei diritti e della rappresentanza. Tutti devono essere rappresentati e per rappresentare tutti bisogna immaginare la diversità come l’unica opzione possibile: per abbattere stereotipi e pregiudizi, bisogna moltiplicare.

Può sembrare banale ma non è così scontato. Pensiamo ad esempio a quanto si sia semplificata negli ultimi anni la lingua pubblica: i politici parlano come parla il popolo. “Ma come parlate?”, mi verrebbe da dire citando Moretti (con cui ha lavorato Arianna Pozzoli, parte della compagnia, ndr). Che vuol dire parlare alla pancia della gente? La pancia digerisce in maniera meccanica ed espelle attraverso un processo inconscio che non passa per la mente o per il pensiero. E non stimolare il pensiero è la cosa peggiore che possiamo scegliere di fare. Ecco perché per me continua ad avere senso fare teatro di posa e continuare a scrivere e immaginare persone parlanti: il linguaggio forma il mondo e lo determina.

Federica Carruba Toscano in un momento di Penelope (foto di Guido Mencari).
Federica Carruba Toscano in un momento di Penelope (foto di Guido Mencari).

Fai ormai teatro da molti anni. Com’è nata la tua passione?

Da bambina, a casa di mia nonna c’era una raccolta di libri di biografie (non so che fine abbiano fatto, mia madre dice che li abbiamo regalati) di personaggi storici, anche illustrati. Erano quasi tutti uomini ma tra questi spiccava la figura della regina Elisabetta, in cui c’era anche tutta una parte riguardante il teatro e la sua nascita. Ne sono rimasta affascinata.

Poi, da piccola, ho sempre considerato il teatro quasi sacro. Andare a teatro era un evento e mia madre mi vestiva bene, per cui per me presenziare a uno spettacolo assumeva una dimensione di sacralità che mi ha suggestionata. Ancora oggi mi prendono in giro perché mi vesto bene per andare a teatro: è un po’ come quando ci si veste bene per entrare in Chiesa… il teatro è un po’ la mia chiesa: è il luogo di purificazione, in cui vai a sospendere il pensiero e ascolti una strana liturgia.

Inconsciamente o no, hai citato due figure femminili, tua madre e tua nonna. Hanno in qualche modo inficiato la tua scelta di raccontare determinate storie?

Mia madre è stata un riferimento. Da piccola ha dovuto rinunciare agli studi per andare a lavorare. E forse da lei parte il mio desiderio di rivalsa: mia madre è stata una grande motivatrice e, come anche mio padre, ha sostenuto la mia scelta forse un po’ bizzarra di ragazza della provincia ricca e borghese di affrontare questo viaggio un po’ bohemien.

Mia nonna è morta quando ero molto piccola. Ma aveva alle spalle una storia affascinante. Apparteneva a una famiglia austroungarica ed è emigrata in Italia durante la Rivoluzione d’Ungheria. La sua vicenda ha molti non detti e buchi difficili da colmare: è arrivata in Italia tramite un fratellastro austriaco che ha fornito a lei e all’altra sorella dei documenti falsi, prima di aprire una filatelica a una e un negozio da parrucchiera all’altra. Mia nonna non ha mai parlato apertamente delle sue origini, si pensa anche che fossero ebree: si spiegano così le lacune e la sua esigenza di inventare o narrare a modo suo le zone d’ombre. Questo ha molto a che fare con la scrittura e l’immaginazione, non ci avevo mai pensato prima della tua domanda.

Lavori con tre attrici come Arianna Pozzoli, Barbara Chichiarelli e Federica Carruba Toscano. Quest’ultima è la protagonista di Penelope. Perché non tu visto che sei anche attrice?

Una cosa di cui mi fregio quando scriviamo uno spettacolo è che si tratta di qualcosa che da attrice mi piacerebbe recitare, una sfida che vorrei affrontare. Penelope è un lavoro molto complesso che richiede una presenza trasversale e non avrei mai potuto stare in scena e contemporaneamente dirigere la compagnia. Ci sono registi e attori che riescono a farlo magnificamente ma non è il mio caso: tolgo a me la possibilità di fare delle scoperte come attrice per consentire agli altri di essere guidati come si deve.

Martina Badiluzzi
Martina Badiluzzi.
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