Martina Gatti, giovane attrice romana, è una delle stelle emergenti del cinema italiano. Con la sua partecipazione nel film Troppo azzurro, diretto da Filippo Barbagallo, Martina Gatti ha catturato l'attenzione del pubblico e della critica grazie alla sua interpretazione del personaggio di Lara, una ragazza irraggiungibile che tutti desiderano. In questa esclusiva intervista, Martina condivide con noi le sue esperienze sul set, le sfide affrontate, e il suo percorso personale e professionale.
L'inizio della nostra conversazione è stato rinviato di un'ora per permettere a Martina Gatti di completare un selftape, una pratica che l'attrice sembra apprezzare molto: “È impegnativo fare un selftape ma in realtà a me piace farli”, ci racconta. La sua passione per i selftape deriva anche dal fatto che, quando non è il suo provino principale, riesce a sentirsi più libera e creativa.
E anche per il film Troppo azzurro Martina Gatti ha inviato un selftape anche per il ruolo di Lara, nonostante avesse inizialmente immaginato il personaggio in modo diverso da come lo ha voluto il regista Barbagallo. Questo dimostra la sua versatilità e capacità di adattamento, caratteristiche fondamentali per un'attrice del suo calibro.
Ma non di solo lavoro parliamo. Martina Gatti ci racconta anche della sua infanzia e adolescenza, trascorse nei bar di Trastevere, in particolare al San Calisto, un luogo che per lei rappresenta un microcosmo di relazioni e incontri. Questa esperienza l'ha resa accessibile e mai irraggiungibile.
Tuttavia, è un’altra la parte più sincera della nostra conversazione, quella in cui l'attrice riflette sulle difficoltà di uscire dalla propria comfort zone, una sfida personale e professionale che cerca costantemente di affrontare. La sua lotta interna con il giudizio degli altri e il desiderio di sentirsi libera dalle proprie proiezioni sono temi che la accomunano a molti attori, rendendo la sua storia ancora più autentica e ispirante.
Questa intervista offre uno sguardo intimo sulla vita di Martina Gatti, una giovane donna che, nonostante le difficoltà e le incertezze del mestiere, continua a perseguire con passione la sua carriera di attrice, con la speranza di poterlo fare per tutta la vita.
Intervista esclusiva a Martina Gatti
“È impegnativo fare un selftape ma in realtà a me piace farli”, risponde Martina Gatti dopo il saluto di turno. La domande era d’obbligo perché la nostra intervista era stata posticipata proprio per lasciarle lo spazio di finire un selftape. “Mi piace farli soprattutto quando sono la spalla e non è il mio: riesco a sbizzarrirmi maggiormente perché non ci sono le condizioni per farsi prendere dall’ansia. Stamattina, tuttavia, ho anche fatto un provino in presenza ma non sono più abituata a farli tanto credo di avere trovato la mia dimensione ideale proprio nel selftape… ci si può correggere tutte le volte che si vuole e farsi aiutare da chi ne capisce: ho la fortuna di farli sempre con amici che stimo molto e di cui mi fido, lasciando che mi correggano quando serve”.
E per Troppo azzurro, il film che ti vede attualmente in sala, com’è andata? Provino in presenza o selftape?
Selftape, anche se mi ero immaginata Lara del tutto differente da come poi l’ha voluta il regista Filippo Barbagallo. Nella mia idea era una ragazza di Roma Nord con una certa attitudine alla vita tanto che avevo realizzato il selftape indossando un camicione di mio papà, una borsetta a tracolla e gli occhiali da sole, sicuramente diversa da come è poi stata.
Lara è la ragazza irraggiungibile della storia, quella che tutti desiderano. Ti sei mai sentita irraggiungibile?
Sono sempre stata l’esatta contrario. Come amo ripetere in ogni intervista, sono cresciuta al bar e con il culto del bar. Da quando ho sedici anni, frequento il San Calisto, il bar di Trastevere, e lì nessuno è irraggiungibile: tutti parlano e si relazionano con tutti creando un microcosmo in cui tutti sono amici di tutti e le nuove conoscenze sono quasi un must. Semmai, mi sono resa irraggiungibile quando non volevo essere raggiunta ma è un altro discorso (ride, ndr).
Con chi andavi al bar?
Andavo con le mie amiche, con cui formavamo, in senso positivo, una gang al femminile. Ma quella del bar è una tradizione per chi marina la scuola che si tramanda di generazione in generazione: ancora oggi, nel passare lì davanti, ti accorgi che sono in tanti i ragazzi che, quando non entrano a lezione, stanno lì davanti come facevo io. Passavo delle giornate intere seduta al bar, dalla colazione all’aperitivo: mi alzavo solo per prendere un pezzo di pizza, tornavo, mi risedevo e davanti a me si alternavano i miei amici. Era ed è un microcosmo in cui sei, più o meno, protetto.
Stavi per la felicità dei tuoi genitori…
In realtà è stata mamma che mi ha insegnato a stare al bar. Sono cresciuta su un bancone di un bar a Viale Aventino perché abitavamo nel quartiere di San Saba e da quando avevo zero anni mamma mi portava con sé.
Quindi, non sarà sorpresa quando leggerà l’intervista di aver avuto una figlia “scapestrata”.
No, anche perché lo sapeva già. Scapestrata posso essere stata in altre occasioni ma non al bar, quello era ed è casa. Ogni volta che saltavo scuola, la avvisavo. Ma devo anche dire la verità a proposito: la saltavo per studiare. Non andavo nel caso in cui avevo un’interrogazione per cui non ero preparata e di prendere tre non avevo voglia (ride, ndr). Al bar, comunque, ero anche capace di studiare perché, comunque, a me piaceva farlo ed ero anche abbastanza brava nelle materie che mi piacevano: italiano, greco e latino.
Rimanere nella comfort zone o lasciarsi andare è uno degli interrogativi che pone un film come Troppo azzurro. Cosa preferisce Martina Gatti: rimanere nella zona sicura o lasciarsi andare all’istinto quando non ha una meta sicura?
Martina lotta costantemente col suo bisogno di sentirsi una che esce dalla comfort zone ma, purtroppo, ci sta dentro con tutte le scarpe. Provo a farlo ma mi sono resa conto di soffrire un po’ il giudizio altrui: anche quando mi capita di pensare di fare anche solo scherzi o qualcosa di divertente, mi sento frenata e non riesco ad andare oltre. Vorrei poterci lavorare sopra per smettere di sentirmi così giudicata, anche perché c’è stato un momento della mia vita, in età adolescenziale, in cui tale timore era stato superato e mi sentivo decisamente molto più libera di adesso.
Da cosa nasce secondo te?
Molto probabilmente proietto negli altri il giudizio che ho io di me stessa. È un tipo di atteggiamento che riscontro in molti attori: è frequente che si sia ipercritici nei confronti di se stessi quando ci si guarda dall’esterno ma lo trovo sbagliato… chi vuol fare questo lavoro, deve essere liberissimo ma non è facile non sentire quel giudizio che alla fine è tuo. In parole povere, ci si frega con le proprie mani: è solo se non ti giudichi che gli altri non ti giudicheranno.
A me piacerebbe vedermi più libera dalle mie stesse proiezioni e invidio tantissimo chi lo è, come un mio carissimo amico che non teme nulla e non si vergogna di essere come vuole. Qualche sera fa anche a lui hanno chiesto della comfort zone e la sua risposta è stata eloquente: “Sempre fuori”. Ed è vero che è lì che bisognerebbe stare perché, se stai fuori, qualcosa si muove, bello o brutto che sia: è lì che mi piacerebbe stare per provare sensazioni ed emozioni che non mi toglierei più di dosso e che potrebbero trasformarsi in un promemoria anche per il mio lavoro. Anche perché pensa che noi altrimenti ripetersi in continuazione e non aprirsi alle differenze: sarebbe un terribile incubo. Ah, che faticosa la mia vita (ride, ndr)!
Perché faticosa?
È un po’ il mio mantra e me lo dico in continuazione. Poi penso che non sia diversa da quella di tanti altri, così come non sono diversa io, con i miei pregi e difetti.
Ce ne elenchi qualcuno?
Uno dei miei più grandi pregi è di non essere per nulla permalosa: non me la prendo quasi mai e sono una giocherellona, letteralmente. Credo di essere abbastanza simpatica ma, per non peccare di immodestia, andrebbe chiesto agli altri e non a me.
Beh, siamo al telefono da un po’ e posso confermarlo.
Me lo confermi? Ecco, allora puoi scrivere che lo confermi (ride, ndr). Ma poi ho anche dei difetti enormi che da qualcuno avrò ereditato: sono ad esempio molto precisa ed esserlo mi preclude un po’ gli orizzonti. E sono anche abbastanza possessiva dei miei ricordi e delle mie ‘cose’, comprese quelle materiali. Mi sto scoprendo anche gelosa ed è un aspetto che non mi piace così tanto, proprio per questo sto capendo come affrontarlo perché è la prima volta che mi succede. In più, ho ultimamente anche cominciato a litigare: non l’avevo mai fatto…
Ma lasciar uscire la rabbia, come ci insegnano i film Disney, è un buon segno.
È liberatorio ed è un’evoluzione della tristezza. Sono sempre stata una persona che si intristiva terribilmente e ho anche passato dei periodi in cui ero davvero molto blu, dovuti, secondo la mia psicologa, anche al fatto per cui non davo mai di matto. E non farlo mi inquinava: tenevo tutto dentro e mi tarpava le ali quando invece la rabbia, nella giusta misura, è un’emozione che va provata e non allontanata, al pari delle altre.
Cosa ti ha portava a essere così blu?
Il motivo più profondo è quasi insondabile. Non è da molto che sono in terapia e cercare la risposta richiede tanto tempo oltre che tanti soldi, un aspetto che sottolineo pensando a chi non può occuparsi come si deve del proprio benessere mentale. Di sicuro, so che affidarmi alla tristezza era in qualche modo diventato la mia comfort zone: era come se fosse diventato molto comodo essere triste. Ma mi inquinava: in certi momenti mi sentivo come incapace di provare felicità, avevo perso l’entusiasmo per qualsiasi cosa. Non c’era mai nulla che mi restituisse la giusta carica. Oltretutto, è accaduto anche d’inverno, quel periodo dell’anno che anche per via delle condizioni atmosferiche tende al blu: fa freddo, piove e c’è tanto malumore in giro ed è tutto tristissimo.
Troppo azzurro: Le foto del film
1 / 41Troppo azzurro parla anche di amore. Cos’è per te l’amore?
Credo di essere molto fortunata nell’avere tanti amici… e per me l’amore vero consiste nell’amicizia sincera: se poi pensiamo che sono adesso fidanzata con quello che era un mio grande amico, per me si è coronato un pensiero! Non so dare una definizione di amore, personalmente non ce la faccio a formulare una frase mia però mi capita spesso di leggerne qualcuna su Instagram, su un profilo di aforismi, e di ritrovarmici… direi che per me amore è sapere che da qualche pate del mondo hai qualcuno che per te è casa. Mi piace molto l’idea di casa umana.
Ho poi avuto la fortuna di conoscere l’amore in molte forme perché ho, appunto, molti amici tutti molto diversi tra loro con cui mi trovo bene e che considero miei fratelli e sorelle. Ed è un tipo di amore che conosco da tempo perché alcuni di loro sono i miei amici storici.
Dopo aver frequentato il liceo classico, ti sei laureata in Filosofia e Scienze Psicologiche.
Non è stato facile decidere cosa fare. Una volta uscita dal liceo, ero smarrita: non sapevo letteralmente cosa fare nella mia vita. Considerando che mi piacevano le materie classiche, ho allora deciso di iscrivermi a Lettere all’Università La Sapienza, dove speravo di trovare sin subito qualcosa che mi appassionasse o dei professori che mi facessero amare certe materie come quelli incredibili che ho avuto al liceo.
Ho però presto scoperto che al primo anno non si studiava né greco né latino ma materie come Linguistica o Geografia Umana, qualcosa che a me non piaceva. Ho allora pensato ad Archeologia, sostenendo anche un esame di Storia Greca prima di finire a frequentare Psicologia e a prendere una laurea triennale in Filosofia e Scienze Psicologiche. Nel frattempo, in tutto questo vagare di facoltà in facoltà, ho iniziato a lavorare come attrice proprio mentre cominciavo l’università a Perugia… Alla fine, ho preso la laurea con due anni di ritardo proprio perché lavoravo: l’ho incorniciata con una bella cornice d’oro, sobria direi (ride, ndr), e l’ho appesa in bagno…
Quando hai capito che sarebbe stata poi la recitazione la tua strada?
Non da subito. La passione per questo lavoro è cominciata sul set del primo film che ho girato, Mollami. Ricordo quell’esperienza come una prova: non ho tanta stima della me che ha recitato in Mollami perché ero molto acerba, al punto che non mi sono mai rivista. Non perché sia ipercritica nei miei confronti ma, oggettivamente, non è stato un lavoro per cui mi darei 10.
Tuttavia, nonostante le difficoltà vissute (ho anche pianto per non riuscire a fare ciò che mi si richiedeva), è stato su quel set che ho imparato ad amare l’ambiente di lavoro che si era creato… e ancora oggi di questo lavoro amo l’ambiente che si crea, forse anche più delle sceneggiature. Amo poter lavorare con persone che ti fanno sentire a casa e che creano una dimensione di gioco perché in fondo ogni lavoro dovrebbe essere percepito come tale.
Eppure, avevi lavorato prima anche le prime due prime stagioni di Skam Italia, serie tv cult: era già arrivata la notorietà…
…ma non l’ho mai avvertita. Ancora oggi non è così frequente che mi fermino per strada, neanche dopo aver preso parte a Il migliore dei mondi, il film di Maccio Capatonda.
Sei ipercritica nei tuoi confronti ma sei stata scelta da uno dei registi più apprezzati al mondo, Abel Ferrara, per Padre Pio.
Che per fortuna, essendo un film estremamente corale, non poggiava sulle mie spalle e non mi lasciava chissà quale responsabilità. Ero anche molto preoccupata per una scena che mi agitava: avrei dovuto piangere sulla bara di quello che era mio marito, qualcosa che non avevo mai fatto. Fortunatamente, in quel frangente studiavo con Gisella Burinato, la mia coach che mi è stata molto d’aiuto. Devo anche a lei e ai suoi insegnamenti l’essere stata scelta al provino per quel film, un provino molto particolare e unico nel suo genere. Consisteva in due step diversi: chi veniva provinato si ritrovava come spalla chi era stato provinato prima e a sua volta diventata spalla di chi arrivava dopo.
Anche su quel set si è poi creato un bel clima. È stato tutto molto divertente, giravamo fuori Roma in Puglia e non sarei più voluta tornare nella capitale…
Cosa ti aspetti da questo lavoro?
Mi aspetto solo di farlo per tutta la vita. Ci spero perché un lavoro che non dà certezza alcuna. Ho dunque sempre paura che l’ultimo film che faccio sia l’ultimo… tendendo sempre al disfattismo o al pessimismo, mi terrorizza il fatto che tra un paio d’anni entrerò nella fascia d’età per cui non esistono ruoli per le donne al cinema.
Ti senti più portata per il dramma o la commedia?
Per il dramma. La commedia ha uno studio dietro che è molto complesso: è fatta di tempi comici e di ritmi, è difficile far ridere. Ed io credo di essere più comica nella vita che sul set. Non nego che mi piacerebbe cimentarmi sempre più in ruoli comici ma per quella tendenza al blu di cui dicevamo prima mi sento molto più drammatica.