Raccontare e intrecciare la vita di persone che condividono storie di bellezza, coraggio e resilienza: è questa la volontà di Martina Maccari e del suo progetto editoriale innovativo, Nèttare, che ha visto partire la prima iniziativa, Sulla stessa strada, proprio nel maggio di un anno fa.
Era il 1° maggio 2022 quando Martina Maccari si apprestava ad affrontare un viaggio di 26 giorni e 576 km percorrendo il tragitto che va dal Delta del Po fino a Torino, documentato dalla docuserie in tre episodi disponibile su RaiPlay Sulla stessa strada. Tre episodi che, fruibili come un unico film, restituiscono un’idea unica di ciò che rappresenta un cammino nato nel segno del bene.
Sulla stessa strada è infatti figlio dall’esperienza vissuta in prima persona da Martina Maccari, dal marito Leonardo Bonucci e dalla loro intera famiglia. Era il 2016 quando i Bonucci incontravano sulla loro strada il reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale Regina Margherita di Torino, dove al loro piccolo Matteo veniva donata una nuova vita. Ed è a quello stesso ospedale che Martina Maccari desiderava “restituire” qualcosa, accompagnata da quanti si sarebbero uniti a lei durante il cammino.
E sulla stessa strada Martina Maccari ha trovato tanti alleati, amici e conoscenti, che le hanno permesso tramite l’Onlus Neuroland di donare all’ospedale ben 260 mila euro, utili all’acquisto di uno strumento indispensabile come l’esoscopio.
Di Sulla stessa strada e dell’esperienza vissuta abbiamo voluto parlare con Martina Maccari in un’intervista esclusiva in cui abbiamo voluto conoscere la donna che è, autodeterminata, coraggiosa e combattiva, desiderosa di continuare il suo cammino di inclusione sociale e lontanissima dallo stereotipo della “moglie del calciatore”. Tanto che in un ribaltamento di ruoli e di empowerment al femminile ci piace pensare che sia Leonardo Bonucci a essere “il marito di”.
Intervista esclusiva a Martina Maccari
Ci incontriamo a distanza di un anno esatto dal tuo cammino, quello dal Delta de Po fino a Torino. Com’è nato Sulla stessa strada?
Siamo ritardo di qualche giorno dal primo anniversario: ho pensato molto a questa prima ricorrenza. Sulla stessa strada, come tutto quello che gravita intorno al progetto editoriale di Nettare, nasce da un’esigenza di restituire in maniera concreta ciò che mi è stato dato nei giorni e nelle settimane in cui come famiglia siamo stati più in emergenza per quanto riguarda la salute di mio figlio Matteo.
In quel periodo, per me sono stati necessari e vitali la vicinanza e il sostegno veramente concreti della famiglia, degli amici e delle persone a me care, accorse letteralmente al mio fianco. Non so come sarei rimasta in piedi se non avessi avuto loro vicini. Quindi, Sulla stessa strada nasce proprio dalla voglia di condividere qualcosa insieme per ritrova quel sentimento di unione che ci faceva andare tutti in una stessa direzione e sentire vicini.
Mio padre è un grande ciclista: va in giro per l’Italia in bicicletta. Lo scorso anno aveva partecipato a un giro lungo tutta la penisola per raccogliere dei fondi. È lui ad aver ispirato l’idea. Volevo però che tutte le persone avessero la possibilità di seguirmi. E come avrebbero potuto farlo se non a piedi?
Le immagini di Sulla stessa strada su RaiPlay ci mostrano come il tuo viaggio comincia con un numero esiguo di persone che pian piano diventa sempre più numeroso. Cosa hai provato ogni volta che vedevi qualcuno unirsi al tuo cammino?
Il sentimento costante di quei giorni è sempre stato l’incredulità: sin dal primo giorno, ero incredula per tutto quello che si è manifestato nei miei confronti. Incredulità e meraviglia sono state le parole che mi hanno accompagnata ogni giorno, dal mattino fino a quando non arrivavamo nel punto di ritrovo, dove incontravo anche persone che ogni tanto mi davano aggiornamenti sui soldi raccolti.
Tra gli incontri fatti durante il tragitto ce ne sono alcuni colmi di dolore e contemporaneamente di speranza. Cosa lasciava in te ogni incontro?
Mi ha molto toccato incontrare tante persone che hanno avuto a che fare con un dolore molto grande come la perdita di un figlio. È un dolore che posso solo immaginare: sono stata a un passo dal provarlo ma non l’ho vissuto. Non posso avere la presunzione di sapere come ci si possa sentire nel viverlo ma immagino che arrivi un certo punto in cui quel dolore, pur accompagnandoti per sempre, ti lasci nuovamente la possibilità di riprendere a respirare. Ed è allora che il tuo mondo cambia radicalmente: se hai provato tanto dolore, sei anche capace di vedere anche il bello in altro, seppur con l’ombra di qualcosa che ti manca. Dubito che un genitore che perde un figlio possa essere mai felice al 100%. Immagino però che trovi un altro modo di vivere la felicità.
Durante il cammino, porti con te la foto di una bambina che si trovava in ospedale insieme al tuo Matteo e che non ce l’ha fatta. Perché hai scelto di averla con te?
Nicole è entrata in ospedale forse un paio di giorni dopo Matteo. Tornato Matteo in reparto dopo alcuni giorni di terapia intensiva, ne ho conosciuto la mamma, Emanuela, e la prima cosa che mi ha raccontata è stata ciò che Nicole, con la sua ingenuità di bambina, aveva detto dopo aver saputo che anche Matteo si trovava lì: “Se ci sono loro, vuol dire che è un posto giusto”. Per qualche tempo, abbiamo condiviso quell’esperienza. Nicole ha poi avuto un destino diverso ma non ho mai perso i rapporti con sua madre, un esempio di quelle persone che continuano ad avere come punti fermi l’amore, la gioia e la condivisione, nonostante il dolore.
Io ho camminato anche per Nicole, lo dico sempre. Quando ha saputo che stavo affrontando il cammino, Emanuela (che qualche volta è venuta anche a camminare) mi ha chiesto di portarla con me. E così ho fatto. Ma come ho fatto anche con le foto di che mi hanno dato altre persone che ho incontrato sulla stessa strada. E per me è stato un piacere farlo.
Sulla stessa strada è legato a una charity particolare che ti impegna nella condivisione di storie di bellezza, coraggio e resilienza. Cosa significano per te?
È una domanda molto difficile a cui rispondere. Parto da ciò che sento più vicino a me: la resilienza. Penso che si possano usare tante parole diverse per raccontarla portando anche esempio differenti ma, in poche parole, credo che sia un po’ quella forza che ci fa tornare a sorridere, anche dopo aver vissuto un dolore. La resilienza per me è il riuscire ad avere come obiettivo quello di tornare a essere felice: spesso le difficoltà e il dolore tendono ad avvilupparci, con il rischio di farci rimanere rinchiusi in un bozzolo che non ci fa più vedere la bellezza che ci circonda.
E, invece, la bellezza è ovunque, come mi sono accorta io un giorno a metà del cammino, quando una ragazza che ha camminato con noi ci ha invitato in un agriturismo. Qui, suo marito aveva preparato il pranzo e abbiamo trovato un tavolo apparecchiato con dei piatti di ceramica con disegnati dei girasoli e pieni di verdure, qualcosa che non vedevo da una ventina di giorni segnati da pasti a base di barrette o panini. Ed è in quel momento che mi sono accorto di quanta bellezza ci fosse in quella roba lì, che siamo abituati a vedere tutti i giorni senza attribuirle la giusta importanza. Ricordo anche di aver mandato una foto a casa per mostrare a tutti quanta bellezza ci fosse: spesso siamo troppo occupati per accorgercene.
Potrei dire che tutti hanno coraggio. Sarebbe bello ma non tutti hanno coraggio e spirito di sopravvivenza. Molto probabilmente è qualcosa che devi trovare lavorando con te stesso rispetto a quell’orizzonte di felicità da trovare anche nei momenti di dolore. Se vuoi essere felice, devi cercarlo.
E di coraggio te n’è servito tanto nel 2016 dopo aver appreso delle condizioni di Matteo?
Non so se quello è stato coraggio, incoscienza o il sentimento di una mamma che fino all’ultimo cerca qualcosa. Ricordo perfettamente il momento della diagnosi. La mia prima reazione è stata pensare al da farsi, non c’era tempo da dedicare altro o a me stessa. Uscita dal colloquio con i medici, sono stata molto chiara: non ho tempo per piangere o disperarmi. Mi sono presa quel tempo forse due mesi dopo, quando ho deciso che quello era il mio momento: ci vuole coraggio per farlo, non tutti hanno le skills per andare avanti e dipende molto anche dell’educazione ricevuta.
Educazione è una parola che mi colpisce molto e che mi fa pensare anche al perché del cammino. Quasi a prevenire l’accusa di chi avrebbe potuto dirti che potevate permettervi di donare l’esoscopio di tasca vostra senza particolari problemi, in Sulla stessa strada spieghi di aver fatto una scelta diversa per lanciare a tuo figlio un messaggio concreto sul sacrificio.
Ho sempre fatto i conti con la mia reticenza a far parte di un certo mondo ma non per giudizio ma perché semplicemente è un mondo in cui non mi ritrovo. Non significa criticarlo ma semplicemente di gusto: non mi piace il giallo, preferisco il verde e quindi compro una maglia verde da indossare. L’ho fatto per prevenire una critica? Anche. Sin dai tempi dell’inizio della mia relazione con Leonardo, so perfettamente come funziona e come le persone siano portate anche in maniera leggera a criticare o a essere anche un po’ arrabbiati verso chi sembra avere meno difficoltà (e le capisco anche, soprattutto in un momento di crisi).
Mi piace dunque mettermi in una situazione di non attaccabilità: nessuno è inattaccabile ma almeno ci provo. Ma forse in questo caso ho anche sbagliato: non ho mai ricevuto un solo commento negativo sulla mia scelta. Voler prevenire i commenti non è stato un gesto per difendere me ma per proteggere la mia famiglia e i miei figli.
Detto ciò, credo anche che ogni cosa abbia un maggior valore e senso se accompagnata da una spiegazione. Non che l’esoscopio avesse avuto meno valore se lo avessi comprato in maniera privata e donato all’ospedale ma sarebbe cambiato l’esempio da dare anche ai miei figli. Mi piace pensare di aver seminato qualcosa che tra qualche anno farà nascere dell’altro o avvierà un percorso simile a quello. Ma, anche se non nascesse, avrei comunque fatto la mia “parte”.
Da quanto Matteo è stato male, c’è una domanda ricorrente che mi pongo: “Cosa lascerò?”. È una di quelle situazioni che ti fa capire come tutto possa finire all’improvviso e, da persona che pensa fin troppo, vorrei lasciare qualcosa ai miei figli e alle persone che mi conoscono. E, fortunatamente, il cerchio della semina si sta un po’ allargando, cosa che mi rende ancora più felice.
“Ti piace il verde ma non il giallo”: quanta autodeterminazione ci vuole per non essere semplicemente la “moglie di”?
Molta. Io a oggi non mi sento gialla e sono assolutamente fuori da quella ridondanza di colore perché non fa parte di me. Ma ci ho messo tanto per uscire da quella scia di colore: ci sono entrata quand’ero più piccola e a vent’anni non sempre hai la capacità di capire o valutare le cose chiaramente, occorre maturità per capire chi sei e cosa vuoi. Ci vuole molta fatica e costanza per essere coerente con te stessa: rischi in simpatia e di rimanere fuori da una certa cerchia di persone. E ci vuole anche carattere.
Tra le tante persone che ti hanno sostenuta nel cammino ci sono stati familiari e amici. Che valore hanno per te le parole “famiglia” e “amico”?
Qui, rischio di commuovermi perché sono per me molto importanti. Parlavo prima di semina: famiglia e amici sono fondamentali in quanto alimentano quel mulino per cui si dà e si prende, si riceve e si dona. Sono un po’ il fertilizzante di quel vaso in cui cerchi di far crescere qualcosa. Ritengo che la mia più grande fortuna sia quella di essere circondate da persone che mi vogliono bene e che mi apprezzano per come sono, seppur con le mie rigidità e i miei spigoli. Ma è una fortuna che ritengo di essermi un po’ meritata: mi faccio in quattro per le persone a cui voglio bene, casa mia è sempre aperta nel momento in cui qualcuno ha bisogno di qualcosa.
E tra gli amici che ti hanno accompagnata nel cammino c’è anche Alena Seredova.
Alena è una persona che ho imparato a conoscere negli anni. Quando sono arrivata a Torino, lei era già la grande Alena mentre io una ragazzina. Per molto tempo, non ci siamo nemmeno frequentate e non ricordo nemmeno cosa ha acceso la fiamma della nostra amicizia. Ma, quando si è accesa, niente ha potuto spegnerla. Ad unirci è un sodalizio di fedeltà, di vicinanza e di riconoscimento di certi valori, nonostante le nostre vite siano comunque diverse.
Matteo, tuo figlio, ha visto Sulla stessa strada?
Matteo è l’unica persona della famiglia che non se ne è interessato. È passato, ha dato un’occhiata e se n’è andato da tutt’altra parte. Ma lo capisco perfettamente. Se da una parte può essere un orgoglio (da bambino sensibile qual è, era molto commosso al mio ritorno), dall’altra parte sa a quali rischi è andato incontro e cosa poteva capitargli: non gli ho mai nascosto o fatto mistero di quello che poteva succedere. Credo che il passare e non soffermarsi troppo sia frutto di una scelta che tutti quanti rispettiamo.
Che evoluzione avrà ora Sulla stessa strada?
Sogniamo che possa diventare l’inizio di una serie di altri cammini. Sogno di poter continuare ad andare in giro e incontrare le persone, aiutandole in vari modi. È già successo una volta e ho capito quanto sia quello il mio posto e ciò che voglio fare.
Cosa ti ha lasciato il cammino?
Il cammino mi ha permesso di vedermi per la prima volta uscendo dal quotidiano. Erano dieci anni che non avevo la possibilità di confrontarmi con me stessa al di fuori dei miei contesti abituali. Mi avevano avvisato di come i pellegrinaggi cambino le persone ma, son sincera, non credevo di poter ritrovare un’altra persona dentro me stessa. Sono molto grata a quello che è stato e che si è aperto davanti a me: non ho voglia di lasciare quello che ho trovato.
Penso che sia un’esperienza che ognuno di noi dovrebbe fare: mi rendo conto che è un lusso avere la possibilità di non lavorare per un mese però dovrebbe essere un’esperienza fondamentale, soprattutto quando c’è il rischio di perdere di vista chi si è perché intorno c’è troppo rumore e confusione.
Stai bene oggi?
Si, sto bene. Sono felice e in continuo movimento, molto più di prima. Non è sempre rilassante, anche perché quando si agitano le acque si tira fuori un sacco di roba che poi si è costretti a ricollocare e a sistemare. Però, non tornei indietro.
A livello pratico, il cammino ha portato alla raccolta di 260 mila euro per l’Ospedale Regina Margherita di Torino. Sai già se sono stati usati?
Sono serviti tutti per l’acquisto dell’esoscopio. Giusto un paio di settimane fa mi ha chiamata la dottoressa Paola Peretta (direttrice della struttura complessa di Neurochirurgia pediatrica, ndr) per dirmi che erano riusciti finalmente a portarlo in sala operatoria. Dal momento in cui abbiamo consegnato la cifra è partito tutto un iter burocratico, il cui cerchio si è chiuso quasi un anno dopo.
Sei in continuo movimento. Qual è il tuo prossimo obiettivo?
Mi piacerebbe partire prima dell’estate con un progetto in giro per l’Italia, con un meccanismo un po’ diverso rispetto al cammino, coinvolgendo le associazioni locali. Non sarà come il cammino qualcosa di lungo e duratura ma diviso per slot in varie città.