L’esordio cinematografico di Martina Scrinzi nel film Vermiglio di Maura Delpero, Leone d’Argento a Venezia 81 e al cinema da giovedì 19 settembre grazie a LuckyRed, rappresenta molto più di un semplice ingresso nel mondo del cinema. È un’esperienza che intreccia sogno e realtà, emozioni e sfide, trasformando una giovane attrice in uno specchio di complessità interiori che appartengono tanto a lei quanto ai personaggi che interpreta. Quando Maura Delpero ha dichiarato nel ricevere il Leone: “Questo film è cominciato come un sogno e si è concluso con un sogno”, ha dato voce a una verità intima e universale. Ogni percorso artistico, soprattutto il primo, nasce spesso dall’impulso di qualcosa di indefinito, di una visione che sembra troppo fragile per essere afferrata, eppure, nel suo manifestarsi, travolge chi la vive.
Martina Scrinzi, con il suo debutto, si trova al centro di questo processo, in bilico tra la meraviglia di un sogno che si avvera e la consapevolezza di tutto ciò che questo comporta. La sua esperienza in Vermiglio non è stata semplicemente un ruolo interpretato, ma una sorta di viaggio iniziatico, un passaggio da una fase della vita a un’altra, proprio come quello vissuto dal suo personaggio, Lucia. La giovane ragazza di un piccolo villaggio italiano che, immersa nel contesto della fine della Seconda Guerra Mondiale, vede la sua esistenza sconvolta dall’incontro con un soldato siciliano, Pietro, e dalle conseguenze che quel legame porterà.
Ma, come spesso accade nelle storie potenti e sottili, non è solo la narrazione esteriore che conta. È il viaggio interiore, quello che avviene sottotraccia, nelle pause, negli sguardi, nei silenzi. Così, come Lucia si confronta con temi come l’amore, la maternità e il tradimento, Martina Scrinzi ha dovuto confrontarsi con se stessa, esplorando zone della sua sensibilità che forse non aveva ancora toccato. Vermiglio la mette di fronte a dinamiche complesse, antiche e universali, che parlano non solo della storia ma anche della natura umana: l’intolleranza, il patriarcato, il peso dei ruoli imposti dalla società e dalla famiglia.
La guerra, in fondo, è qualcosa di distante per la nostra generazione, eppure l’eco delle sue devastazioni risuona ancora, soprattutto nei villaggi remoti, nei microcosmi in cui il cambiamento arriva lentamente, ma in modo inesorabile. Lucia, così come Martina Scrinzi, vive questo cambiamento sulla propria pelle, lo assorbe, lo riflette e lo trasforma. L’attrice non è solo un canale attraverso cui passa la storia, è anche co-creatrice di quel mondo, di quelle emozioni. E in questo, l’interpretazione di Scrinzi si rivela straordinaria: delicata e intensa, silenziosa e potente.
Il cinema, per lei, è stato un richiamo quasi casuale, ma profondo. Un’arte che ha incontrato grazie alla passione per il teatro e che le ha permesso di scoprire nuove forme di espressione, di scavare dentro di sé e portare alla luce sfumature che forse nemmeno sapeva di avere. E questa scoperta non si ferma al solo Vermiglio: è un percorso che continua, che evolve, proprio come la sua percezione del mestiere d’attrice. La recitazione per Martina Scrinzi non è un lavoro qualsiasi. È una necessità vitale. Lei stessa lo afferma con una forza che traspare non solo dalle parole, ma anche dal suo approccio al mestiere: "Recitare è quella linfa vitale di cui ho bisogno. Se per un lungo periodo non lo faccio, in qualche modo comincio a morire dentro".
Il ruolo di Lucia, in particolare, ha rappresentato una sfida emotiva e psicologica: una ragazza che vive in un contesto rurale e patriarcale, dove il futuro di una donna è spesso già scritto, limitato alle mura domestiche, alla maternità, alla famiglia. Eppure, la bellezza della storia risiede proprio nel modo in cui Delpero e la sua protagonista affrontano queste aspettative, le scompongono e le rimodellano. Lucia, nel corso delle quattro stagioni in cui è ambientato il film, passa da una giovane piena di sogni semplici a una donna che si confronta con le sfide e le tragedie della vita. In questo viaggio, il corpo diventa parte essenziale della narrazione: il corpo che si trasforma, che genera vita, che è testimone di tradimenti e dolori.
Per Martina Scrinzi, interpretare Lucia ha significato anche mettersi in gioco in modo fisico. Ha dovuto confrontarsi con l’idea della maternità, un tema che non le appartiene nella vita reale, ma che nel film diventa centrale. "Non ho molto spirito materno e non ho neanche voglia di sposarmi o di creare una famiglia tutta mia", confessa. Eppure, paradossalmente, è proprio nel dar vita a queste situazioni che non le appartengono che ha scoperto una nuova profondità di emozioni. Le scene più intime, quelle che riguardano la nascita della figlia di Lucia, l’hanno toccata profondamente, mettendo in discussione alcune delle sue stesse certezze.
In fondo, il cinema è anche questo: un esercizio di empatia. Interpretare un personaggio significa immergersi nella sua storia, nei suoi conflitti, nelle sue paure. Per Martina Scrinzi, che ha iniziato a recitare quasi per caso, spinta dal suggerimento di una tutor durante gli anni del liceo, l’arte è diventata una via di espressione potente e indispensabile. Ed è proprio attraverso il cinema che ha scoperto nuove sfaccettature di se stessa, sia come artista sia come persona.
Martina Scrinzi, con la sua presenza delicata ma incisiva, porta sullo schermo una semplicità che incanta. Ma questa semplicità è solo apparente: dentro di lei convivono forze profonde, una determinazione silenziosa e un’intensità emotiva che traspare in ogni sguardo, in ogni movimento. Con Vermiglio, ha fatto il suo ingresso in un mondo che, seppur sconosciuto, sembra appartenerle naturalmente. Un mondo fatto di sogni che si trasformano in realtà, di sfide che diventano opportunità, e di storie che, come quella di Lucia, parlano di noi tutti. E se questo è solo l'inizio, possiamo solo immaginare cosa riserverà il futuro di questa promettente attrice.
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Intervista esclusiva a Martina Scrinzi
“Questo film è cominciato come un sogno e si è concluso con un sogno”, sono le parole che Maura Delpero ha pronunciato nel suo discorso di ringraziamento per il Gran Premio della Giuria allo scorso Festival di Venezia. Sposi le sue parole?
È stata veramente una sorpresa, per tutti. E, per di più, Vermiglio non ha vinto solo quel premio ma ne sono arrivati anche altri collaterali, tra i quali il Sorriso Diverso, e ora anche la designazione a Film della Critica da parte del SNCCI. Siamo passati da una serie di notizie bomba per poi arrivare a una iper, mega, super esplosione. Sono state tante le emozioni vissute.
Hai avuto il tempo di metabolizzarle tutte?
Non ne ho ancora avuto il tempo. Sono rientrata a Roma da Venezia ma nel frattempo mi hanno già richiamata per presentare il film in Trentino e per prendere parte ad altri eventi come, ad esempio, i saluti in sala. Sono sicuramente tanto stanca ma molto felice e contenta.
Prima di Vermiglio, avevi già girato un film che è ancora in attesa di distribuzione, l’horror Mostro intruso aspro, diretto dal regista Kia Khalili Pir, anche tuo partner sentimentale. Il fatto che il film di Delpero abbia visto riconosciuto il suo valore con un premio così importante, ha in qualche modo accentuato le aspettative che nutri sul tuo conto?
Assolutamente sì. Non posso lamentarmi per tutto ciò che è arrivato da Vermiglio o che arriverà, partendo proprio da Venezia. Anche solo andare semplicemente in concorso al festival per me è stata una bellissima sorpresa che si è tramutata in un’esperienza unica. Tra l’altro, mi bastava quasi quello, esserci, tanto che non avevo tenuto nemmeno in considerazione la serata della premiazione: avevo già programmato il mio ritorno a Roma prima di quella data, a testimonianza di quanto imprevedibile sia la vita e di come gli eventi sfuggano al nostro controllo. Posso dire di essere molto soddisfatta di com’è andata e al contempo non vedo l’ora di abbracciare un nuovo progetto: i premi sono un po’ come lo zucchero, ti alzano la glicemia e ne vorresti ancora.
Chi è stata la prima persona che hai chiamato quando hai saputo del Leone d’Argento a Vermiglio?
Ho chiamato i miei genitori, due persone che il mondo dello spettacolo non l’hanno mai visto nemmeno col cannocchiale da lontano. Nessuno in famiglia ha mai recitato e mai nessuno è stato artista, ragione per cui si son chiesti cosa fosse quel premio, cosa volesse dire e cosa rappresentasse. Ero appena tornata anche dalla premiazione per il Talent Awards del Nuovo Imaie e, quindi, non capivano nemmeno a chi andasse il premio, se a me o al film.
Erano però increduli e molto sorpresi, anche perché poi il giorno successivo si sono ritrovati la figlia intervistata dal quotidiano locale, L’Adige, in un servizio a due pagine sul film, in compagnia della stessa regista e dell’attore Patrick Gardner, che in Vermiglio interpreta mio fratello Dino. Forse è stato lì che hanno realizzato che si trattava di qualcosa di molto grande.
Sei di origine trentina. Che effetto ti farà accompagnare il film nella tua terra non da Martina ma come una delle attrici protagoniste, se non la protagonista?
Ne chiacchieravo di recente con il mio fidanzato: per la prima volta, porto in sala con me la mia famiglia e i miei amici per la proiezione di un film di cui non sono solo spettatrice ma anche attrice e mi fa molto strano. Non so ancora come prenderla o viverla: di sicuro, sarò la Martina di sempre. In qualsiasi occasione, cerco di non perdere mai di vista chi sono, anche se riguardare su grande schermo alcune delle scene comunque intime o abbastanza combattute insieme ai miei genitori molto probabilmente non sarà facile.
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Il tuo personaggio è quello di Lucia, la giovane ragazza che si innamora di un soldato siciliano. Cosa hai pensato di lei nel momento in cui hai saputo che la parte era tua e hai avuto modo di leggere l’intera sceneggiatura?
Ho subito pensato che Lucia fosse una persona semplice, genuina e sincera. Ma ciò che mi piaceva era anche scoprire che tipo di relazioni aveva con gli altri. Sono rimasta, ad esempio, sorpresa dal legame che nel corso della storia avrà con Anna, interpretata da Sara Serraiocco, una relazione/non relazione fatta di giochi di sguardi e qualche battuta.
Leggendo la sceneggiatura, però, si capiva quanto il tutto fosse intimo per Maura, si avvertiva una certa familiarità di fondo. In qualche modo, sapevo che Lucia poteva essere il riflesso di una persona che nella vita reale la regista ha conosciuto, anche se non so bene chi: Maura non ci ha mai detto da chi erano ispirati i personaggi ma sono convinta che ognuno di loro appartenga al suo mondo.
Non ti spaventava doverti confrontare con temi come la guerra, la maternità e il tradimento, decisamente molto più grandi di noi?
Si tratta di temi grandissimi. La guerra è qualcosa che la nostra generazione non conosce se non attraverso i libri di storia: non ne abbiamo esperienza diretta come invece i nostri nonni o bisnonni. Dalla mia, però, avevo il fatto che, essendo donna, Lucia è molto lontana dal conflitto: è giovane e non lo vive come i suoi coetanei maschi, ne ha percezione solo tramite i racconti, i sentito dire e i giornali. Con una battuta, diciamo pure che mi è andata bene rispetto a Giuseppe De Domenico che ha dovuto invece interpretare un soldato tornato dal fronte: credo che lui abbia dovuto approfondire meglio la questione. Alcune delle frasi pronunciate da Lucia in merito sono quelle che venivano in mente a me, Martina: le proponevo alla regista e lei le inseriva nella storia.
Se sulla guerra io e Lucia siamo allineate, diversa è la concezione che abbiamo della maternità. a differenza sua, vivo in un momento (ma credo che sarà così anche in futuro) in cui non mi sento particolarmente predisposta all’essere madre: non ho molto spirito materno e non ho neanche voglia di sposarmi o di creare una famiglia tutta mia. Diventare madre per Lucia, invece, è l’obiettivo finale: non desidera altro che rimanere a vivere in montagna con una famiglia tutta sua per una vita che la farebbe contenta. È la sua massima aspirazione, anche se poi vari eventi la spingono verso un’altra direzione.
Dal mio punto di vista, è stato molto interessante portare in scena qualcosa che non mi apparteneva: curiosamente, diverse situazioni, soprattutto con la bambina che poi Lucia mette al mondo, mi hanno molto presa facendo sì che le sentissi molto. Mi ha toccato, ad esempio, lasciare poi la bambina.
Il tradimento… bella sfida anche quella. Parliamo nel caso della storia di Pietro e Lucia di bugie e non detti ma non solo da parte di lui. Quando con Maura Delpero abbiamo provato quelle scene (non abbiamo fatto molte prove generali sulla maternità ma sul ‘tradimento’ sì), ci siamo anche date una possibile interpretazione: che Attilio, il cugino di Lucia, fosse a conoscenza della moglie di Pietro, del figlio che già aveva e della sua vita in Sicilia. Non è stato semplice per me a livello emotivo rapportarmi con il tradimento.
Sarà stato per te più semplice rapporti con la recitazione: quando è arrivata nella tua vita?
Ero al secondo anno di liceo e avevo dei voti che facevano pietà, soprattutto in alcune materie. Non riuscivo a trovare una via d’uscita e stavo anche perdendo la voglia di far ogni cosa: facevo fatica in tutto. Una possibilità mi si è aperta quando sono stata affiancata da una tutor, una sorta di psicologa o comunque un sostegno. È stata lei a consigliarmi di cantare in un coro e di fare teatro. Ho cominciato allora con il canto e poi, grazie a una collaborazione tra il coro e il gruppo teatrale del liceo, sono stata notata dal regista. Devo alla sua intuizione e al suo “puoi dare tanto di più” i miei primi passi da attrice quando avevo più o meno sedici anni.
E qual è stata la reazione iniziale dei tuoi genitori di fronte alla tua vena artistica appena scoperta?
Anche in quel caso, sono rimasti molto sorpresi proprio perché, come accennavo prima, nessuno in famiglia è mai stato artista. I miei svolgono entrambi lavori molto pratici e, inizialmente, qualche chissà se lo sono chiesti, pensando che si trattasse dell’infatuazione del momento. E, invece, grazie a quel primo regista che mi ha notata la prima volta, sono andata avanti, continuando con i corsi di teatro e raccogliendo l’incoraggiamento di altri insegnanti a perseguire su quella strada… fino a quando poi non è arrivato il cinema: la mia prima esperienza è stata quella che citavi con Kia, che è poi diventato il mio ragazzo: è stato lui a darmi una grandissima mano d’aiuto sia con la tecnica recitativa sia con l’autostima, infondendomi la voglia di continuare anche con questo mezzo.
Qual è stata la prima cosa che hai pensato quando ti sei ritrovata su un set?
Di solito, quando recito, non penso e non mi pongo molto domande. Studio tanto prima, mi piace arrivare preparata sul set e avere più soluzioni ma una volta che comincio mi butto, senza troppi retropensieri. È sempre stato così, sia a teatro sia sul set.
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Cosa significa per te recitare?
Recitare è quella linfa vitale di cui ho bisogno. Se per un lungo periodo non lo faccio, in qualche modo comincio a morire dentro: è come se mi mancassero cibo e acqua.
Ed è facile condividere la stessa passione con la persona che si ama?
Ci siamo incontrati grazie alla nostra passione e al nostro lavoro, ce li portiamo spesso anche nella vita privata di tutti i giorni, ne parliamo ma non ci stanchiamo di farlo. Ci piace farlo e, quindi, la nostra è una bellissima relazione! Oltre a lavorare benissimo insieme, ci aiutiamo a vicenda e ci diciamo sempre la verità. Siamo una bella squadra, anche se ogni tanto qualche domanda ce la facciamo: ma stiamo insieme solo per il lavoro o anche per altro? Ed è lì che ci imponiamo dei time-out, decidendo di lasciare il lavoro fuori.
Recitare vuol dire anche esplorarsi diversamente, sia sul set sia fuori. A Venezia, ad esempio, hai dovuto fare i conti con un’esplorazione diversa del tuo corpo, tra make-up artist e stylist pronti a farti risplendere sul red carpet. Che relazione ha Martina Scrinzi con il proprio corpo? Cosa vedi quando ti guardi allo specchio?
È una domanda che mi pongo spesso, soprattutto da quando sono entrata nel mondo del cinema: a teatro, la questione ha meno rilevanza e certi interrogativi non nascono. Prima di stare davanti a una macchina da presa, non davo troppa importanza al fisico, all’apparenza o all’estetica: il cinema, invece, ti impone di rifletterci forse perché ti inducono a farlo o a “stare attenta”.
Sono diventata ora leggermente più insicura sul mio aspetto fisico. Per fortuna, però, ho intorno a me persone che mi invitano a stare tranquilla, rassicurandomi su come non sia un aspetto rilevante: un’attrice non è una modella… Cerco di lavorare quindi su me stessa e di dirmi che così come sono vado bene. E, quando a Venezia, mi guardavo allo specchio con quegli abiti, quei capelli e con tutto quel trucco, quasi mi veniva da ridere: dietro c’ero sempre io, nonostante sembrassi una bellezza da panico!
Sì, sono un’attrice perché è quello il lavoro che sento mio ma in fondo sono sempre la stessa persona che incontri per strada, che ama il rapporto diretto con gli altri, che al darsi le arie preferisce il rimanere con i piedi per terra. Rimango la stessa persona semplice di sempre: questa è Martina, una ragazza semplice.
Vermiglio: le foto del film
1 / 6Per Lucia, hai dovuto in qualche modo metter mano sul tuo corpo?
Per rimanere coerente al personaggio e risultare attinente con i canoni estetici del periodo in cui vive, ho deciso ad esempio di non depilarmi gambe, ascelle ed inguine. Mi serviva non solo per entrare meglio nei panni del personaggio ma anche per essere pronta a eventuali richieste da parte della regista o del direttore della fotografia: se avessero voluto improvvisamente riprendere un polpaccio, non sarei stata credibile perfettamente depilata.
Qual è a oggi il tuo rapporto con i social media?
Inevitabilmente, sono diventati parte integrante, grandissima direi, del lavoro: ti viene persino detto che è indispensabile per un’attrice avere un profilo Instagram. Fino a poco prima del Festival di Venezia, il mio profilo sul social era quasi vuoto! L’importante è non finirne ingoiati.
Di cosa ha paura Martina?
Di tante cose. Comincio dalle più concrete e semplici, quelle per cui in famiglia mi prendono anche in giro: ho da sempre paura del buio e del nero, di tutto ciò che è scuro. In casa cerco di avere sempre cose colorate e chiare, anche nell’arredamento, e non mi piacciono nemmeno i vestiti neri…
Ma la mia paura più grande è dimenticare… cose, situazioni, pezzi, battute. Forse è un timore legato al mondo del teatro, al dimenticare le battute, ma il mio incubo più grande è oggi dimenticare quello che ho fatto, ciò che le persone hanno fatto per me e persino la mia stessa storia. Con la mia compagnia teatrale, ho lavorato a uno spettacolo sull’Alzheimer e su cosa significhi dimenticare un’intera vita e te stesso.
Non hai paura della solitudine?
Tantissimo. Ma più che una paura è qualcosa che odio e non mi piace proprio perché ogni tanto devo farci i conti.