AccattaRoma di Daniele Costantini è un film che non solo racconta, ma reincarna l'essenza vibrante e le sfaccettature oscure di Roma attraverso gli occhi di Massimiliano Cardia, il protagonista (e produttore con la sua Studio Cinema International) che si è fatto portavoce di una narrazione intensamente locale e universale al tempo stesso. Il film, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in sala dal 9 maggio, si snoda lungo le strade di una città eterna vista da un angolo meno esplorato, lontano dai circuiti turistici, dove la vita si svolge con un ritmo tutto suo e ogni angolo racconta una storia di margini e di memoria.
La storia segue il percorso di Vittorio, un uomo di circa quarantacinque anni interpretato da Massimiliano Cardia, nato e cresciuto ai margini della società romana. La sua giornata inizia con un viaggio dalla Via del Mandrione al rio della Grana, un luogo che conosce solo di fama e che si dice si trovi "mille metri dalla camera da letto del Papa". Lungo il cammino, Vittorio incontra i giovani della sua borgata, ciascuno alle prese con le proprie difficoltà economiche e personali. Il film dipinge un quadro di giovani disillusi e adulti intrappolati nei ricordi del passato, che vivono in un presente difficile e incerto.
Difficile e incerto come il passato che lo stesso Massimiliano Cardia ha vissuto in prima persona quando da adolescente di borgata davanti a sé aveva un bivio piuttosto complicato: un eventuale futuro in carcere o il riscatto sociale. Rivalsa che con il film AccattaRoma, Massimiliano Cardia ha ottenuto, resuscitando l'anima di una Roma meno conosciuta, quella delle periferie, con una delicatezza e una crudezza che si intrecciano in un affresco urbano di rara intensità.
Intervista esclusiva a Massimiliano Cardia
AccattaRoma è più di un semplice film in bianco e nero: è un tributo a Roma, alla sua gente e alle storie che si intrecciano nei vicoli di una città che non smette mai di sorprendere e di sfidare. Non solo celebra la cultura romana delle borgate, ma invita anche lo spettatore a riflettere sulla memoria collettiva di un luogo, sull'importanza delle radici e sulla potenza delle storie condivise.
“Sono stato criticato da tanti giornalisti: secondo loro, la mia era presunzione nel voler ricalcare il Franco Citti della situazione”, esordisce Massimiliano Cardia quando lo sente per confrontarci su AccattaRoma, il film di cui è protagonista ma anche produttore e distributore. “Ho risposto però sinceramente: non scimmiotto nessuno, sono cresciuto a Torpignattara e certi modi di parlare o di camminare mi appartengono da sempre”.
Nel film interpreti Vittorio, un personaggio dal passato complesso e tormentato. Qual è stata la sfida principale per te?
Quando il regista mi ha offerto il ruolo, non volevo nemmeno interpretarlo: volevo limitarmi alla produzione del film ma di fronte al suo insistere ho finito con l’accettare. “Tu sei come lui”, mi ripeteva, ma in realtà Vittorio assomiglia maggiormente a quello che poteva essere mio padre, cresciuto in un’epoca diversa dalla mia. Tuttavia, essendo cresciuto negli anni Novanta in periferia, conosco cosa significa la vita in certi quartieri: rispetto ad altri, sono stato molto fortunato nell’avere avuto l’opportunità di smarcarmi e di diventare un imprenditore fondando un’accademia.
Sulla carta, se ripenso al passato e al luogo da cui provengo, la mia vita doveva essere tutt’altro: è stato il cinema per certi versi a salvarmi, anche se quando cresci in una periferia sei tu stesso costretto a farlo.
Il film è un omaggio a Pier Paolo Pasolini.
È l’intento principale. Non conosco Pier Paolo Pasolini e non l’ho conosciuto ma conosco i suoi film perché da sempre mi piacciono, Franco Citti o Anna Magnani. Quando da ragazzino vedi i film, non ti concentri sul nome del regista, a vent’anni non ci pensavo, ma sui personaggi. Di conseguenza, non ho pensato a Pasolini ma ad Accattone o a Mamma Roma e al mondo delle periferie che ha raccontato: è stato uno dei pochi che ha voluto farlo. Tanto che, quando il regista mi ha proposto la realizzazione di questo film, ho proposto io il titolo, AccattaRoma, una crasi tra i due film pasoliniani.
I personaggi di AccattaRoma si muovono sullo sfondo di una periferia particolare, il Mandrione, un luogo quasi sospeso nel tempo e nello spazio.
È quasi campagna ed è un luogo che è rimasto allo stesso a come poteva essere quaranta o cinquant’anni fa: non è cambiato nulla. Il luogo sa di verità come di verità sanno i personaggi che si incontrano, a partire dal mio Vittorio. Una delle mie perplessità sull’interpretare il protagonista era data proprio da ciò: a me piace fare l’attore e interpretare qualcuno al di là di me stesso ma Vittorio non me lo richiedeva, serviva essere me stesso e appellarsi alla realtà, a quello che ho vissuto dentro di me e a quello che può aver vissuto mio padre, a un racconto popolare.
Che cosa ha significato per te crescere in periferia?
Torpignattara era una giungla, dove per prima cosa dovevi imparare a essere un leone per evitare di essere sbranato tutti i giorni. Nel diventare un leone, ti accorgevi inevitabilmente di far parte anche tu di quella giungla e di non essere diverso dagli altri. Crescendo e andando avanti, hai un solo bivio di fronte: continuare a sbranare o tornare a essere un gattino fuori però da quel contesto. Ma è anche vero che, pur andando lontano da Torpignattara, il quartiere ti rimane dentro: non sarei arrivato dove sono oggi se non fossi vissuto tra quelle strade, ho dentro la forza di quel ragazzo cresciuto nella durezza della periferia. Ti lascia una fame che senti continuamente, non di denaro ma di riscatto sociale. Nel bene o nel male, Torpignattara farà sempre parte di me: m’ha insegnato ma mi ha anche levato tanto.
Che ti ha tolto?
Mi ha levato tempo, tempo dallo studio, dalla vita e da ciò che potevo fare di buono e non ho fatto fino ai 27 anni. Senza scendere nei particolari perché non è facile, sono stato il classico ragazzo del bar di periferia che viveva di espedienti. Purtroppo, ero su quella strada pericolosa il cui fine ultimo poteva essere Regina Coeli ma ero tranquillo, come se fosse un destino accettato. Ecco perché oggi mi ritengo un miracolato.
Quando hai sentito che era arrivato il momento di fare una scelta diversa?
Lo ricordo perfettamente: ero su un motorino e anche sopra le righe per essermi divertito troppo. È stato in quel momento che mi sono chiesto che vita stessi facendo. Avevo appena discusso con uno e stavo andando a discutere con un altro quando, nel cercare in me una risposta, ho capito che non ero “cattivo”.
Vittorio, il tuo personaggio, interagisce con i ragazzi della borgata. A te è mai venuta voglia di fare lo stesso per far capire loro che esistono altre possibilità?
Sono sincero: no, sentendomi in un momento della mia vita anche egoista. Sono andato via dal quartiere intorno ai 30/32 anni e da allora si sono susseguite due generazioni. È difficile tornare da quelle parti per dire ai ragazzi di fare una cosa anziché un’altra ma anche perché, nella vita di tutti i giorni, anch’io combatto ancora con quel che è rimasto dentro di me di Torpignattara, del mio carattere e della mia voglia di rispondere sempre senza esitazione.
Sono continuamente in terapia per essere costante, tirare dritto, non sbagliare, guardare avanti, aiutare la famiglia e decidere a chi essere di supporto. Non so se avrei oggi la forza o la presunzione di andare a raccontare a quei ragazzi di aver fatto un film, di girare in Porsche o di indossare un Rolex al polso quando le loro esigenze di vita non sono altro che svegliarsi la mattina e pensare a come rimediare quei soldi per tirare avanti la giornata.
Ma non voglio denigrare Torpignattara o la periferia in generale. È grazie a quei luoghi che conservo anche alcuni dei momenti e dei ricordi più felici della mia giovinezza. Ci sono attimi che mi mancano, così come quel sorriso buono della periferia che oggi non ritrovo da nessun’altra parte. È un mondo in bianco e nero, come quello del film AccattaRoma, a cui tante volte ho anche auspicato di ritornare: quello che sto calpestando oggi non è sempre così sincero come appare, è finto. In periferia, sapevo a chi credere o chi mi voleva male mentre nel contesto in cui mi muovo ora sembra che tutti ti vogliano bene quando in realtà sono pronti a colpirti alle spalle senza che tu te ne accorga.
Eppure, ai giovani hai pensato aprendo la tua accademia cinematografica, Studio Cinema International, e permettendo ad alcuni dei giovani studenti di far da protagonisti ad AccattaRoma. Cosa ti ha spinto a fondarla?
Per allontanarmi dal mondo della strada, ho cominciato a fare teatro, anche se il mio sogno era fare un giorno cinema e lavorare con il mio mito di sempre, Michele Placido. Sebbene mi permettesse di uscire dalla periferia, il teatro non mi consentiva di svoltare definitivamente: per mantenermi, facevo il cameriere e non l’attore. Ho avuto poi l’opportunità di partecipare a una masterclass a Cinecittà con Anna Strasberg, vincendo una borsa di studio con un monologo che si chiamava Figlio, dedicato a mio padre (i miei erano separati).
Tuttavia, non l’ho potuta sfruttare: era per studiare negli Stati Uniti e non avevo i soldi per farlo. Ne è conseguito un periodo di grande depressione per cui sono stato chiuso dentro caso per ben nove mesi: non volevo più proseguire con la recitazione e mi limitavo a servire i tavoli. Ripensavo alla mia vita, rimettendo tutto in discussione: non mi sentivo né carne né pesce, non sapevo se continuare a sperare in qualcosa di diverso o se ritornare per strada. Fino a quando non è scattato in me qualcosa che mi ha portato a organizzare io delle masterclass come quella a cui avevo preso parte.
Ciò mi ha permesso di conoscere varie persone, che a loro volta mi hanno presentato Michele Placido. Ed è a lui che, pur non avendo i soldi necessari, ho offerto un cachet per invitarlo a tenere uno stage. Tutto è iniziato così, dal suo dire ‘sì’ che ha poi aperto le porte ad altre collaborazioni, da Giorgio Albertazzi a Lindsay Kemp: tutti accettavano per la mia semplicità e verità.
Studio Cinema nasce è nato dall’incontro con Giancarlo Giannini, colui che mi ha insegnato tutto standogli vicino per tanti anni. È stato il primo a credere nell’accademia (sono venuti dopo Muccino o Ozpetek), una scuola che permettesse ai ragazzi di avere ciò che non avevo voluto io e che ha funzionato anche grazie a Pino Pellegrino, responsabile casting che mi è stato sempre vicino. In quell’attimo, ho messo da parte le mie aspirazioni di attore, ci avrei pensato dopo a farmi conoscere. E
Hai quindi affrontato la depressione all’incirca a trent’anni quando non riuscivi ad affermare la tua identità e ti confrontavi con il fallimento.
Era il fallimento del mio riscatto sociale, del mio desiderio di far vedere a tutti, alla gente del popolo, di essere cambiato e di avercela fatta. Non c’ero ancora riuscito, non avevo soldi e continuavo a lavorare umilmente. M’ero stufato di avere fame e di non poter affermare quell’ego da leader che sapevo essere insito in me. A trent’anni, vivevo ancora con mia madre, non avevo una mia posizione e non volevo più girare in mezzo alla gente perché mi generava veri e propri attacchi di panico. Non volevo tornare per strada e finire in carcere…
Vittorio alla fine del film non trova quello che stava cercando. Massimiliano, invece, l’ha trovato?
Ci pensavo la scorsa notte: ‘AccattaRoma sarà il mio ultimo film sia da attore sia da produttore e distributore. Nonostante gli sforzi e la partecipazione alla Festa del Cinema di Roma, il film esce però solo in 7 sale quando altri ne hanno a disposizione 400. Chi me lo faceva fare? Potevo dare i soldi spesi a mia figlia o conservarli in banca’. Eppure, subito dopo ho pensato che qualcosa di positivo in tutto ciò c’era: ho coronato quel sogno che avevo pur partendo da zero. Ho vinto, allora: per essere felice, mi basta passare sotto un cartellone che pubblicizza AccattaRoma e vedere il mio nome che campeggia per la città.
Hai una figlia di sette anni. Cosa ha portato nella tua vita?
Quando è nata mia figlia ho capito cosa vuol dire la parola ‘papà’. Mi ha permesso di comprendere meglio come i bambini abbiano una fragilità enorme insegnandomi anche come ciò che si vede a quell’età rimane sempre in noi: riguardandomi nei suoi occhi, rivedo me e, attraverso il suo sguardo, capisco che il mondo è più colorato e non così in bianco e nero come l’ho vissuto io. Al Massimiliano bambino è mancato suo padre, fondamentalmente: dopo la separazione, per anni non l’ho più rivisto ma non perché fosse un uomo ‘cattivo’ ma per via di altre circostanze legate alla vita di periferia. Sono cresciuto a casa di nonna, con le zie, e per anni ho covato dentro tanta rabbia: mia figlia sta curando quella mia parte.
Quale messaggio speri che arrivi ai giovani che sceglieranno di andare a vedere un film come AccattaRoma?
Vorrei che ai giovani arrivasse il messaggio per cui un po’ anche di passato possa far loro bene. Staccandosi dai loro smartphone per un’ora e mezza, potrebbero scoprire com’era la Roma di prima: magari potrebbe far nascere in loro il desiderio di andare su YouTube, scrivere Mamma Roma e scoprire cos’era il cinema, quel medium al quale quasi non si avvicinano più.