Quella a Matteo Marchese doveva essere un’intervista “musicale” come tante altre. Lo spunto di partenza era dato dall’uscita del suo primo album da solista, Dot (The Prisoner Records / Soundzone / The Orchard), dopo un’intera vita da batterista, produttore e arrangiatore. Eppure, si è trasformata in qualcosa di più profondo sin dall’inizio: al posto del musicista mi sono ritrovato davanti l’uomo, quello che ha cambiato vita per dedicarsi alle persone meno fortunate, come si direbbe con un elegante luogo comune.
Tuttavia, comune non è l’esperienza di Matteo Marchese. Oggi si dedica infatti alla musicoterapia ma lo fa in maniera particolare. I suoi “pazienti” sono tutte persone affette da disabilità varie. Un lavoro che tutti i giorni lo porta a contatto con quella sofferenza che cerca di rendere più lieve grazie a uno scambio di percezioni e sensazioni che fanno bene alla testa e al fisico.
Se ciò che fai è ciò che ti definisce, Matteo Marchese è un musicista dell’anima. E quell’anima è contenuta anche all’interno di Dot e delle sue nuove tracce frutto di collaborazioni volute e ricercate al di là di ogni logica di mercato: tra amici e artisti che Matteo Marchese ha sempre amato. Dalla compagna Ila a Diamante, da Giulietta Passera a Riccardo Onori.
Intervista esclusiva a Matteo Marchese
Com’è che da musicista, produttore e batterista di artisti anche molto affermati arrivi a occuparti di musicoterapia? A un certo punto della tua vita, hai venduto anche il tuo studio di registrazione per metterti al servizio di chi aveva maggiormente bisogno.
A un certo punto della mia vita, una persona incontrata e poi diventata mio mentore, Carlo Sinigaglia, mi ha fatto comprendere che quella era solo forma, un cartonato sotto cui c’è una persona. E quella persona che cos’è? Cosa fa? E cosa vuole? Non era sicuramente in linea con ciò che facevo e mi sentivo prima, un musicista o un discografico. Ho cominciato quindi per curiosità a iniziare un percorso di musicoterapia.
Con Carlo abbiamo cominciato a lavorare insieme. Sono oramai vent’anni che collaboriamo ed è grazie a lui che mi sono accorto di che cosa fa in realtà la musica. La musica non è solo roba che si suona o che si ascolta: entra proprio nella biologia della persona, portandoti in una zona di te dove non scendi spesso. Suonare tanto per suonare era non sterile ma intollerabile. Ed è così cambiato il mio approccio alla musica, alla vita e alle relazioni con le persone.
Da quel momento in poi, ho aspettato che si creassero delle condizioni favorevoli per vendere lo studio e per partire con la mia nuova avventura, per capire dove ti porta in realtà la musica. Con Carlo abbiamo anche scritto un libro, Il giorno in cui abbiamo inventato l’acqua calda, e abbiamo messo a punto il nostro modo di fare musicoterapia.
Di primo acchito, nessuno capiva cosa facessimo perché io suono e massaggio le persone musicalmente mentre lui suona la chitarra: normalmente, la musicoterapia non arriva al massaggio. Non lo capivano né i primari degli ospedali né i familiari delle persone disabili. La scrittura del libro nasceva proprio dall’esigenza di spiegare quale fosse la nostra idea: è una sorta di biglietto da visita, anche un po’ divertente, utile a capire l’impostazione filosofica del nostro lavoro.
Medici e familiari non capivano. I pazienti, invece?
Le risposte dei pazienti erano incredibili. La loro situazione si modificava in maniera importante. Tanto che a volte gli effetti andavano seguiti anche in altro modo. È un po’ brutto da dire ma spesso i familiari non erano pronti a gestire il cambiamento: all’interno delle case si rompeva un’abitudine e si eran tutti chiamati a rimodificare la loro routine. Ovviamente, non tutti hanno le risorse per affrontare un altro grande cambiamento. Si creavano situazioni in cui madri che vedevano i loro figli autistici migliorare tendevano a riportare l’autismo verso la gravità.
Lo dico senza alcun tipo di giudizio: quando si è abituati per tanti anni a un certo modus operandi radicato, è difficile cambiare. È anche un modo per proteggersi da altre sofferenze, da altro eventuale dolore. Quindi, nel fare il mio lavoro occorre essere estremamente cauti nel modificare sia la biologia sia la psicologia delle persone.
Questo tipo di esperienza che cosa lascia in te?
Noi occidentali cerchiamo di rifuggire dal dolore il più possibile. Con questo lavoro, entri in un mondo dove ti sembra di essere tra i supereroi della Marvel, tra i salvatori dell’universo. I primi anni l’ego tendo a montare un pochino ma per fortuna il ruolo del maestro è quello di farti ritornare con i piedi per terra. Con i pazienti c’è un continuo scambio ma quello che deve rimanere fermo è il tuo equilibrio psicologico. Rischi di diventare altrimenti un santone e trasformare quasi le persone in strumento del tuo piacere. Il confine è labile e spetta a te stabilire qual è il punto da non oltrepassare per non diventare un guru con tanti adepti al seguito.
Heidegger ha dato delle definizioni di cura che secondo me sono incredibili. La cura non deve essere sostituzione: si deve fare in modo che il paziente non si aggrappi a chi lo sta curando. La cura è un processo per cui il “curatore” porta il paziente a stare bene e a lasciarlo andare per la sua strada. Si rischia altrimenti di creare dipendenza e di cadere in dinamiche da rapporto tossico: non si può sostituire la dipendenza dal dolore con quella dal curatore.
In cosa consiste tecnicamente il massaggio?
È sostanzialmente un mix di tecniche percussive, apprese dallo studio delle percussioni, e buona conoscenza del corpo umano, dal punto di vista sia della medicina occidentale sia di quella orientale, per cui vado a lavorare anche sui punti energetici dell’agopuntura piuttosto che sull’attivazione dei chakra. Sto approssimando per difetto: il bello della tecnica musicale è che, mentre suoni, non pensi alla tecnica che stai usando!
È il momento che ti porta a capire come muoverti. È qualcosa che possiamo ritrovare anche in quello che normalmente fa un musicista quando suono, nella relazione con i suoi compagni di band e nella relazione con il pubblico. Che il musicista ne sia più o meno conscio è irrilevante. Durante il massaggio, osservo come respira il pazienti, guardo quali sono le tonicità del suo corpo, vedo dove sono le tensioni e dove gli fa male, affinché un dolore psicologico non vada ad abbattersi sul corpo e viceversa. Siamo pur sempre una macchina complessa.
La musica ti permette di parlare a livello inconscio, di bypassare anche contesti in cui la relazione interpersonale non è possibile. Io suono il paziente e a lui non chiedo niente, può anche non essere d’accordo con quanto sta avvenendo. Tuttavia, solitamente il paziente si rende conto da solo che il mix della musica di Carlo, del mio messaggio e dell’ambiente che si crea va a modificare la sua relazione con il mondo intorno. Ed è questa la prima porta che apre per far sì che cambi chi è.
La musica è sempre stata tua compagna di viaggio. Eppure, arrivi solo oggi a realizzare il tuo primo album. Come mai?
Dopo aver preso in mano quello che era il mio studio, ho avuto un periodo di rigetto fortissimo per la produzione musicale. Mi ero accorto che avveniva per motivi che non mi facevano stare bene. Dopo averlo venduto, per tranquillità familiare, ho continuato ad arrangiare i pezzi della mia compagna, Ila, tutte le volte che me lo chiedeva. Il richiamo della musica è qualcosa a cui non si può non rispondere ed è così che mi sono accorto che la musica era una fonte per me importantissima di nutrimento, non era solo una cosa che mi piaceva fare.
Ho allora, pian piano, cominciato a riavvicinarmi alla musica fino a quando non ho comprato su internet una tastierina 2 ottave con i tasti dei colori invertiti. Era uno strumento per bambini, molto lontano da quelle professionali: non sapevo che avrebbe finito per spegnere il rifiuto e riportarmi a scrivere.
Il passaggio successivo è stato quello di suonare per gli altri. Da un lato, era per entrare nel loro viaggio ma dall’altro lato era per osservarli. Ho chiesto ad amici e artisti se avevano voglia di fare lo stesso e di osservare me mentre mandavo loro l’input della mia vita per restituirmi dopo la loro versione. Sono nate così le collaborazioni che poi sono rimaste nelle tracce dell’album Dot. Dopo averle incise, il lavoro per me era finito: non avevo l’esigenza di un’uscita sul mercato. Sono state la mia compagna e FiloQ a convincermi a pubblicarlo: è come avere un figlio e tenerlo chiuso in casa, mi dicevano.
Nel disco ci sono tanti amici e artisti. Ma sono dei nomi lontani da quelli mainstream con cui hai collaborato in passato. Perché proprio loro e non altri?
Uno dei fuochi del disco è stato comunque la contaminazione e l’impressione che l’Africa ha lasciato dentro di me. Parlo di ascolti musicali perché non sono mai stato in Africa. Sono super affascinato da quello che la musica afro produce dentro di me, dalle onde che si propagano all’interno del mio sistema. Ho voluto quindi che con me ci fossero musicisti che, conosciuti negli anni, mi ricordassero quel profumo. Per ogni traccia ho cercato l’artista che, anche se proveniente da altri generi, facessero risuonare quei mondi in me: da Broomdogs a Diamante, passando per Ila o Riccardo Onori. Ho voluto musicisti che amo molto: non mi interessava la loro posizione di mercato, proprio perché il disco nelle mie intenzioni non doveva nemmeno uscire.
È comunque impossibile non farsi influenzare dall’Africa quando si vive un momento storico contrassegnato anche dalle tante problematiche del continente che si riflettono sulle vite di tutti noi. Penso ad esempio alla questione immigrati.
Su questa tematica, Daniele Diamante (che è brasiliano e che l’Africa non l’ha mai vista) ha scritto un paio di frasi in Africa tornerò che sono molto potenti. Parla dell’Africa che scompare nel mare e poi riappare per ricreare la sensazione del viaggio che molti affrontano per arrivare da noi.
Un altro aspetto, se vogliamo, curioso è la presenza di bambini all’interno di Dot. Penso al brano Joe e Agnese.
Giosuè e Agnese sono figli di amici. Quando la loro mamma era incinta, ho fatto con lei una sessione di musicoterapia. A distanza di anni da allora, i due bambini, gemelli, mi hanno raccontato che ricordavano quel momento e le sensazioni che hanno provato: ha creato un legame molto forte. La cosa bella è che sono stati i due bambini, a cena a casa mia con i genitori, a sollevare l’argomento, in particolar modo Agnese (Giosuè lamentava un po’ di fastidio perché dei due era quello che stava sotto!). Per me è stato come guardare una puntata di Guerre stellari!
Quella stessa sera, il padre, super appassionato di musica, mi ha chiesto di far provare loro qualcosa. E si sono messi a suonare la melodia che sentite nella canzone: ho avuto la prontezza di registrarla subito e intorno vi ho costruito l’intero pezzo, armonizzando qua e là.
Oltre a loro due, c’è in maniera indiretta anche un’altra bambina, in Viola.
Ero al telefono con il papà di Viola, Stefano Iascone, trombettista. A un certo punto, per far capire al padre che si era un po’ rotta le scatole di aspettarlo, Viola ha cominciato a urlare producendo suoni a un volume devastante! Tanto che la prima versione del pezzo di chiamava 130 db (decibel, ndr).
Tu sei padre?
No.
Ma sei figlio. Vivi oggi a Bergamo, dopo essere cresciuto a Brescia e nato a Genova.
Sono rimasto a Genova quaranta giorni. E il perché fa anche ridere: i quaranta giorni sono stati determinati dal giorno del mio battesimo. Mio padre aveva all’epoca trovato lavoro in Valcamonica, in provincia di Brescia e i miei non volevano farmi fare il primo viaggio senza essere battezzato: non si sa mai quello che sarebbe potuto succedere durante il tragitto! A Genova, tuttavia, sono rimasti i miei nonni: motivo per cui ci sono ritornato tutte le estati. Ho un bellissimo rapporto con quella città, tanto che il disco l’ho realizzato lì dove sono le mie radici.
E a Brescia cominci ovviamente a fare musica. Non eri di certo in una grande metropoli. Com’è stato?
Ho avuto la fortuna di crescere nella Valcamonica degli anni Novanta, in un momento in cui si è creata una bolla artistica molto particolare. In una zona che si estende per una sessantina di chilometri, dal lago di Iseo fino a Edolo, c’erano tantissimi locali che facevano musica dal vivo in ogni paese. Ogni giorno c’era un posto diverso in cui andare a suonare e in cui richiedevano solo musica originale e non cover. È stato in uno di quei locali che ho fatto il mio primo concerto di musica inedita.
Come tutti quanti in quel periodo, sono cresciuto influenzato dal grunge. Non c’era molta varietà musicale: facevi cantautorato o metal o grunge. Bisognava comunque scrivere, confrontarsi e far la propria musica.
Tra le tante collaborazioni del tuo percorso artistico, a pochi giorni dalla Giornata della Memoria, non posso non ricordare quella con Moni Ovadia.
È stata un’esperienza incredibile. Carlo Sinigaglia, che è ovviamente musicista, collaborava con Ares Tavolazzi e Michele Fedrigotti, a lungo collaboratori di Franco Battiato. Insieme, avevano deciso di fare un disco di canzoni per bambini con uno stile preciso: da padre a figlio (Sette veli intorno al re). Hanno coinvolto diversi nomi, tra cui Battiato, Guccini, De Gregori e Ovadia. È stato molto belli vedere ognuno di loro mostrare non solo il loro lato artistico ma anche quello paterno. Ovadia ha fatto un pezzo, una ninnananna ebraica, che è stato reinterpretato anche da Faisal Taher, un cantante palestinese. Nello stesso album erano presenti entrambe le versioni, con due visioni culturali diverse dell’essere padre.
E tu che tipo di padre hai avuto?
Mio padre è morto lo scorso 20 novembre. Molte cose che avrei potuto dire prima di quella data non hanno più senso di esistere. Quella di mio padre è stata una figura molto forte, non tanto fisicamente quanto per imprinting. Era un chimico - per lui, se una cosa non la avessi veduta, non sarebbe esistita – ma estremamente innamorato della musica classica, un super wagneriano amante della musica lirica.
Ho voluto scappare il più lontano possibile da lui, sia a livello artistico sia a livello filosofico: da uno così, non poteva venir fuori che un umanista come me, l’esatto opposto. Allo stesso tempo, da lui ho imparato che si resta anche in condizioni avverse, convinzione che mi ha poi portato nel mondo della disabilità. Sarebbe stato troppo facile andarsene, prendere le distanze o allontanarsi: è sicuramente più difficile avere un figlio che a un certo punto molla l’università per fare il musicista. Ricordo quando gliel’ho detto: “non so di cosa stai parlando perché non conosco il mondo della musica, non so come darti una mano” è stata la sua risposta.
Lo stesso discorso potrei farlo anche per mia madre, biologa marina. Ma ho voluto bene a entrambi: è una buona descrizione di quello che dovrebbe essere l’amore in generale. Non è detto che l’amore sia capirsi e darsi il cinque perché si pensa la stessa cosa. L’amore è anche comprendere la differenza dell’altro e dire “se sei felice, sono felice anch’io”.
Non sapevo di tuo padre, avrei evitato la domanda.
Ho fatto tutti i passaggi necessari per elaborare il lutto. Faccio ancora fatica a vedere le fotografie ma per il resto va bene.
Significa che hai un rapporto “risolto” con la morte?
Si, un po’ per abitudine lavorativa. Dopo aver vissuto per vent’anni nel mondo del dolore, ho come le spalle coperte per elaborare il mio non negandomi nulla e non cercando di nascondere niente. Non ho sacchetti nascosti che vanno in putrefazione all’interno della mia psicologia. Mi sono fatto i miei pianti e ho accettato ciò che andava accettato. Poi, è chiaro che la nostalgia è forte: mi fa ancora strano che non ci sia. Occorre sin da subito fare i conti con la scomparsa e il processo di negazione che spesso un lutto comporta. Il negare ti priva della reale comprensione del valore del momento che stai vivendo. Se chiudiamo la porta, non vediamo quello che sta succedendo.