Mauro Perrella non ha ancora quarant’anni, eppure il suo nome è noto a tutti quelli che vogliono potenziare la loro comunicazione digitale, studiare strategie e affermarsi con i loro brand. Si, perché Mauro Perrella da anni è ormai uno dei digital manager e digital pr più importanti a livello europeo, partner di alcune delle più importanti digital agency italiane e guru della digital communication.
Di origini molisane, Mauro Perrella è colui che più di una decina di anni fa ha introdotto per primo nel mercato europeo il concetto di personal branding, dando il via a una forma di comunicazione che avrebbe per sempre cambiato il mondo digital. Intuizione, potrebbe dire qualcuno. Tanta formazione, studio e lavoro, aggiungiamo noi.
Stare dietro alla comunicazione digitale non vuol dire stabilire solamente quali contenuti pubblicare, con che frequenza e su quale social. Significa prima di ogni cosa lottare quotidianamente con gli algoritmi, un mostro informatico che rischia di divorare tutti quelli che al web o ai social si avvicinano. Mentre una gazzella nella giungla si sveglia ogni giorno pensando che dovrà correre, Mauro Perrella si alza dal letto pensando contro quale modifica algoritmica dovrà lottare.
Tuttavia, nella sua lotta Mauro Perrella non è da solo. Ha intorno a sé una rete di nerd e ingegneri selezionati in giro per il mondo negli ultimi 12 anni in grado di affrontare qualsiasi sfida e di fornire un servizio tra i più avanzati esistenti sul mercato. Consulente digitale a livello globale e vero mago della web reputation, Mauro Perrella negli ultimi tempi si è distinto anche per aver introdotto in Europa il Live Digital: con il suo staff di collaboratori, come ama definirli lui, si occupa di eventi in tempo reale, in diretta come si dice in gergo.
Dell’uso dei social, del web e del suo lavoro abbiamo parlato con Mauro Perrella in quest’intervista esclusiva, toccando anche argomenti che interessano la vita di tutti noi: cosa serve a un contenuto per diventare virale? Sono fondati i timori su TikTok? Perché i brand si rivolgono agli influencer accantonando le celebrities?
Intervista esclusiva a Mauro Perrella
Eri poco più che un ragazzo quando in Italia hai cominciato a parlare per primo di personal branding. Che cosa ti ha spinto in quella direzione?
La prima volta in cui ho cominciato a pensare al personal branding è stata mentre parlavo con un imprenditore di un brand. A un certo punto della conversazione, mi chiese se fosse il caso di mettere la sua faccia – era oggettivamente un bell’uomo – al servizio della sua attività. Risposi che eravamo in Italia in anticipo sui tempi ma che negli Stati Uniti era qualcosa che comunque già qualcuno aveva tentato. Ci abbiamo comunque provato e il resto poi è stato sotto gli occhi di tutti.
Tutto così casualmente?
Non proprio. Provenivo da una formazione negli Stati Uniti, dove già si discuteva di personal branding anche se ancora non aveva i connotati e le caratteristiche che ha oggi.
Formazione è una parola per chi fa il tuo lavoro indispensabile. È necessaria in un settore in cui molto spesso l’improvvisazione la fa da padrone.
In materia di digital, soprattutto per quanto riguarda alcuni aspetti, c’è spesso un’improvvisazione totale. Nel mio percorso ho cercato di mixare quella che era una formazione classica, umanistica, con una serie di corsi e di stage non solo negli Stati Uniti ma anche in Italia sul digital marketing. Per digital marketing intendo proprio Google Marketing, ovvero tutto ciò che concerne la parte legata agli algoritmi e non al marketing in senso stretto.
Dopo aver notato, lo dico con una certa umiltà, di essere diventato bravo, ho cominciato a pensare di poter migliorare nel campo della digital reputation e del personal branding a livello di Google, perché ancora non c’erano i social network. L’intuizione giusta che ha segnato la svolta è stata quella di andare a selezionare, viaggiando semplicemente dal divano di casa con un telefono in mano, una serie di talenti digitali – usiamo la parola giusta, nerd, quindi tecnici – che giorno dopo giorno stavano diventando sempre più esperti delle piattaforme che man mano nascevano: da YouTube a Facebook, fino a quando nel 2011 è arrivato Instagram.
Instagram ha segnato il punto di svolta: il personal branding ha cominciato sempre più a prendere piede, surrogato dai fatti.
Sei un digital manager, professione attorno alla quale ruotano mille interrogativi. Chi sta dall’altro lato, tende a pensare che il digital manager sia colui che gestisce i social di un talent postando al suo posto, ignorando quanto lavoro ci sia invece dietro.
Io e i miei collaboratori – non mi piace definirli dipendenti ma partner, tutti molto più bravi di me – siamo costantemente al lavoro sugli algoritmi e sullo studio dei contenuti da pubblicare. La promozione varia in base al mezzo che la ospita: social, motori di ricerca, sito… ma c’è qualcosa che non varia mai: l’attenzione alle strategie da mettere in atto e alle tecniche digital da usare: occorre avere lauree in ingegneria informatica avanzata per contrastare ad esempio gli algoritmi e capirne le metodiche, considerando che si aggiornano in continuazione e ultimamente anche di giorno in giorno.
Google li cambia un paio di volte all’anno mentre Instagram è un po’ più birichino facendolo senza preavviso, con una frequenza allucinante, e creano non pochi problemi. Non è un lavoro che si può improvvisare ma spesso si fa fatica a spiegarlo: ricordo ancora quanta ce n’è voluta in Italia i primi tempi per spiegare cosa facessi e quanto fosse complesso.
Abbiamo visto la comunicazione su Instagram cambiare continuamente. Una volta andavano i post, poi le stories, dopo i reels… come ci si adatta al cambiamento?
Non è semplice: Instagram fa veramente delle modifiche che poi alla fine sono epocali. In Italia se ne parla ad esempio ancora poco ma tra qualche settimana tutti noteranno come tutti potranno avere la famosa spunta blu. Di per sé, è già un cambiamento enorme ma come reagirà la gente? In base alla valenza che diamo oggi alla spunta blu, si sentiranno tutti Beyoncé o Rihanna ma… dopo un mese o due, scopriranno che sul profilo ci sarà una scritta che specificherà se la spunta blu è stata pagata oppure no.
I cambiamenti non sono mai facili da gestire o da spiegare al cliente: “Pubblica contenuti con una certa cadenza. Ora dimentica e comincia a postarli in maniera random. Concentrati suoi video. È cambiato di nuovo l’algoritmo: pensa ai pixel dei contenuti”. Ovviamente, tutti ci guardano come se fossimo noi i padroni del mezzo e non gli intermediari e il pensiero che vogliamo prenderli per i fondelli qualche volta, soprattutto con i clienti meno esperti, si fa strada.
A proposito di cambiamenti, c’è un social che ultimamente ci ha stravolto l’esistenza: TikTok. È però quello che sta sotto la lente, soprattutto nei Paesi occidentali, per i timori legati alla privacy.
C’è stata di recente una puntata di Report, una trasmissione giornalistica di un certo peso e autorevole, in cui un addetto ai lavori spiegava come TikTok fosse un po’ come la somma di tutti i social messi insieme, una sorta di sintesi di quelli americani. Se già i social statunitensi hanno problemi di privacy e policy, vuoi che non li abbia TikTok? Quindi, è vero che comporta problemi di privacy ma sono gli stessi in cui si può incorrere in tutti i social.
Policy e privacy, da te citati, sono due di quegli aspetti la cui concezione è per necessità cambiata. Quanto influiscono sul tuo lavoro?
Abbastanza, direi. Anche perché in questo momento è difficile, almeno in un approccio iniziale, spiegare ai clienti di una certa caratura a cui sei stato appena introdotto e che hanno deciso di mettersi nelle mani della tua agenzia in cosa consista il nostro lavoro nel rispettarle. Anche perché, come dicevamo già prima, ogni giorno sorge una complicazione nuova, a cui a volte non c’è nemmeno una via di uscita: il nostro lavoro consiste nel cercare di gestirla nei limiti del possibile. Tutti i giorni ci ritroviamo a capire cos’è, a studiarla e poi a cercare di tradurla in un linguaggio meno tecnico e più comprensibile per i nostri clienti.
Diversity e inclusion sono diventati man mano sempre più importanti nella comunicazione digitale. Nei casi di personal branding, come si gestisce uno “scivolone” che urta la sensibilità?
Dipende ovviamente agli accordi in essere ma gestire la patata bollente è molto difficile. Chiaramente c’è un confronto diretto, che può essere anche aspro in base alla posizione dei diretti interessati. Per quanto possibile, cerchiamo di essere dei problem solver ma non sempre è possibile: in alcuni casi, siamo dei semplici spettatori dei disastri che alcuni provocano su se stessi, volontariamente o involontariamente.
Diciamocelo francamente: tutti noi abbiamo il sogno di postare contenuti che diventino virali il prima possibile. Cosa deve avere un contenuto affinché ciò accada?
Non accade dall’oggi al domani e soprattutto non accade per caso. Servono creatività, diversità e contestualizzazione: non si può pubblicare un contenuto ad esempio invernale quando siamo in piena estate. Occorrono gli hashtag giusti e, con il nuovo algoritmo di Instagram, tanti digital manager bravi che sanno come ottimizzarlo. La vedo altrimenti durissima, nonostante gli accorgimenti: l’algoritmo è molto cattivello per non dire complesso… quindi, è molto difficile viralizzare da soli un contenuto: ci si può anche riuscire, non dico di no, ma è molto complesso.
Brand, contenuti, prodotti, marketing, influencer: non è il mercato social saturo?
Non sono in parte d’accordo con chi lo afferma. Che il mercato sia saturo è un assunto reale con cui tutti dobbiamo fare i conti. Ma lo è il mercato in generale non sono quello social: è aumentata la popolazione adulta, c’è più competizione e la concorrenza è forte in qualsiasi settore. A fare la differenza possono essere però due semplici parole, che per me spesso sono anche sinonimi: qualità e spessore. Se ci atteniamo a esse, la massa si riduce a una nicchia molto ristretta che sa come lavorare e offrire un prodotto di eccellenza.
Non credo dunque che il mercato del digital sia saturo. È vero che c’è tutto e il contrario di tutto dentro ma proviamo a immaginare cosa sarebbe la nostra vita senza la comunicazione digitale: io e te staremmo senza un lavoro, come lo sarebbero migliaia di persone, e milioni di altre non saprebbero come prenotare un viaggio, come spostare un treno o dove acquistare qualcosa. Oramai è tutto digitale!
Proviamo a dire a un brand di non fare promozione sui social perché oramai sono inflazionati quando le aziende cercano proprio quella peculiarità: se è inflazionato è perché c’è tanta gente, miliardi di potenziali acquirenti.
E gli utenti dei social sono in gran parte giovanissimi: millennials e Gen Z, una fetta importante di pubblico a cui rivolgersi. Per rivolgersi a loro, non si usano più le celebrities ma gli influencer. Se anni fa compravamo un paio di scarpe perché li vedevamo indosso a una celebrità, oggi lo facciamo perché ce le mostra un influencer con tanto di scritta #adv sotto. Cosa è cambiato?
Tutto si è massificato talmente tanto che i social hanno dato la possibilità di parlare: hanno dato voce e concesso l’accesso alle informazioni a chi prima non poteva averle. Anche chi non ha particolare talento artistico è diventato famoso perché abile nella comunicazione. E chi ha intercettato questa tendenza per primo oggi si ha accumulato un vantaggio notevolissimo sugli altri.
I social danno voce tutti ma non tutti sono influencer. In tanti si sentono di esserlo ma è il mercato che decide chi lo è veramente e chi no: funziona e funzionerà sempre così. Tanti talent, poi, si sono ritrovati a dover aprire a tutti i costi un profilo social e a rimettersi nelle mani di un digital manager per non perdere terreno nei confronti di chi li stava surclassando a livello numerico. E, purtroppo, nella nostra società i numeri hanno un peso e fanno la differenza.
L’età media degli influencer oggi si è notevolmente ridotta. Non fa paura vedere quindicenni su Instagram che, anziché vivere la loro età, si atteggiano a persone navigate e super esperte?
Fa paura. È il tema dei temi, ragione per cui i social stanno cercando di mettere delle limitazioni. Anche se, nello stesso tempo, c’è molta ipocrisia al riguardo: sui social si cerca sempre più quella massa di persone per nutrire i propri guadagni, non perché siano nativi digitali ma perché molto più propensi a consumare il prodotto. Gen Z e millennials occupano una fetta importante di mercato e contrastare il fenomeno dei giovani influencer usati per rivolgersi a loro è pressoché impossibile. Aspettiamo di vedere l’evoluzione, sperando che sia positiva e non tragica.
Siamo d’altro canto tutti diventati venditori di qualcosa. Chi della propria immagine e chi di prodotti destinati al consumo, spesso venduti durante le cosiddette dirette con risultati tragici. Ovviamente anche con il live digital non si improvvisa, come ci insegna chi fa il tuo lavoro. Curare la diretta di un evento social non è una passeggiata, come ci puoi ben spiegare tu stesso.
È abbastanza complesso. Ho curato la diretta, ad esempio, della premiere del film House of Gucci e tanti erano i fattori da tenere in considerazione non dimenticando che l’obiettivo principale era quello di emozionare con qualcosa che stava avvenendo in tempo reale e che si sarebbe confrontato con le immagini di un film diretto da mani super esperte con il meglio che la tecnologia poteva offrire. Occorreva mixare bene gli ingredienti a disposizione e non dimenticare il contesto: il periodo pandemico, l’attesa per quello che poteva essere un colossal, la presenza di un’attrice premio Oscar e quella di uno dei tre o quattro marchi di moda più famosi al mondo. Il segreto della riuscita consiste nel pensare sempre che a vedere quelle immagini è qualcuno che sta da un’altra parte: devi coinvolgerlo e farlo sentire presente.
Informare, educare e divertire, mi sembra di capire: l’invincibile modello BBC.
Lo reputo vincente: a mio parere, è un modello infallibile che si può applicare a ogni mezzo. I social e il web in generale non sono altro che un mix di cose che già ci sono: ci può essere spazio per la creatività ma c’è tanto altro da sapere e tanta routine da rispettare.
Creatività: che ne pensi del guerrilla marketing?
È una tecnica di comunicazione che nel tempo ha preso nomi differenti ma che di base è rimasta sempre la stessa, cambiando semplicemente gli strumenti per portarla avanti. Credo sia il modo migliore per promuovere qualcosa: il caos e l’andare controtendenza in maniera pianificata e organizzata sono una delle strategie più efficaci nel costruire un evento o la campagna di promozione di un contenuto. E in questo gli americani fanno scuola.
Come tutti, anche tu hai un profilo social. Conoscendo tutti gli aspetti tecnici che ci stanno dietro, non sei assalito dall’ansia di prestazione quando devi postare qualcosa?
Dipende molto dal ricordarmi o meno di avere un profilo molto seguito soprattutto dagli addetti ai lavori. Quando non lo ricordo, ho gente del mio staff che mi riprende e mi riporta alla realtà: “non puoi fare come se avessi trenta follower!”. Non è semplice e non si vive benissimo, anche se con il passare degli anni ci fai l’abitudine…
Paga l’imperfezione sui social in un momento in cui tutti vogliono apparire perfetti?
Decisamente. È un errore gravissimo quello di mostrarsi perfetti quando poi nella vita reale non lo si è. si rischia l’effetto “rinculo”: quando spari con un fucile, devi tenerlo in conto, altrimenti rischi di farti male. È un fenomeno fisico quello del rimbalzo che torna anche nella vita di tutti i giorni… pian piano stiamo tutti ritornando a una dimensione live, più vera e veritiera, e i social non devono essere considerati una realtà virtuale: le imperfezioni vincono sulle perfezioni perché rendono ognuno di noi diverso dall’altro. Non è la standardizzazione che la gente certa ma l’unicità: vogliamo tutti vedere cose diverse e non i nostri cloni. Se volessimo vedere i nostri cloni, ci sarebbe qualcosa di sbagliato in noi.
Quindi, in senso lato, mai inseguire i trend…
A livello aziendale, in alcuni casi le aziende hanno anche l’obbligo di seguire il mercato e cavalcare l’onda. A livello personale, invece, occorre andare fuori dagli schemi e dai trend: occorrere costruire dei feed e dei profili che non cerchino di discostarsi dai trend per fare la differenza. È in corso, ad esempio, la Milano Design Week: posteranno tutti foto degli eventi o delle situazioni più cool ma io, pur vivendo a Milano, cercherò di non farlo o, se lo farò, cercherò di essere fuori dagli schemi. Non dico di ignorare i trend ma di differenziarsi: il massimo sarebbe sempre quello di creare un trend e non inseguirlo.