Nagasaki (Cantieri Sonori) è il nuovo singolo di Mavì, giovane artista romana. Classe 1996, Mavì è il nome d’arte scelto da Ludovica, ragazza molto determinata che sa ciò che vuole dalla vita. Amante dell’arte, Mavì in Nagasaki, scritta a quattro mani insieme a Marco Canigiula, racconta di una storia d’amore che va avanti per inerzia e i cui due protagonisti non sanno accettarne la fine. Per insicurezza o paura, non hanno il coraggio di andare avanti e di scrivere la parola basta a una relazione che si trascina lenta ed è allo sbaraglio.
“Nagasaki nasce da una riflessione: ci lasciamo trasportare dalla quotidianità dimenticandoci il nostro vero scopo, la serenità”, ha dichiarato Mavì. E la serenità è tutto ciò che ha sempre segnato il suo percorso, sin da quando a dieci anni si è ritrovata protagonista nella parte di solista in una recita a scuola. Ancora oggi, ripensa a quell’episodio e sorride, come ci racconta nel corso di quest’intervista esclusiva: da allora ha conservato lo stesso modo di presentarsi sul palco o di tenere in microfono in mano.
Selezionata lo scorso anno tra i 40 artisti del Deejay on Stage, Mavì suona anche il pianoforte e si è laureata in lingue straniere alla Sapienza, dove ha studiato inglese e russo, anche se non nasconde di aver incontrato delle difficoltà a portare a termine il percorso a causa dei dubbi sulla scelta fatta. L’uscita di Nagasaki ci ha permesso di entrare in punta di piedi nel mondo di Mavì: non vi resta che scoprirlo.
Intervista esclusiva a Mavì
Cosa racconta Nagasaki?
Nagasaki parla di una coppia scoppiata che non trova il coraggio di ammettere di essere… scoppiata! Al centro della narrativa della canzone c’è una storia che non è formalmente finita ma che lo è nei fatti. I due protagonisti hanno paura probabilmente di dirselo e di lasciarsi andare. Spesso tutti noi viviamo storie simili per paura di rimanere poi da soli.
Nella canzone si canta di un addio a Napoli. Perché come titolo hai scelto proprio Nagasaki? È una città che fin da subito richiama alla mente un fatto storico ben definito.
Esatto. Alla base del titolo c’era un po’ l’idea di disastro, di relazione per l’appunto esplosa come una bomba.
All’anagrafe, ti chiami Ludovica. Ma hai scelto come nome d’arte Mavì. Altro non sarebbe che la traslitterazione del francese ma vie.
Ho scelto Mavì perché volevo un nome che rispecchiasse la mia scelta di raccontare attraverso la musica la mia vita. Come nome, suonava abbastanza elegante e particolare, molto adatto a me.
La passione per il francese nasce dalla tua laurea in lingue straniere?
Si, sono laureata in lingue straniere ma vi do uno scoop… Non ho studiato francese! Avrei voluto sempre studiarlo, però: i suoni della lingua mi sono sempre piaciuti ma alla fine mi sono concentrata sull’inglese e il russo. La passione per il russo è nata quasi per caso: mi sono incuriosita dopo la prima lezione che ho seguito. Ero andata sia alla prima lezione di russo sia alla prima di cinese. Il cinese mi affascinava ma in molti mi hanno poi scoraggiato per le difficoltà legate alla lingua stessa. Il russo, invece, mi è subito piaciuto: l’ho scelto senza far tanti ragionamenti dietro.
E mentre studiavi all’università hai continuato a cantare? Tu hai cominciato da bambina a farlo: hai proseguito anche durante il percorso accademico?
Io ho sempre cantato. La laurea ha rappresentato una tappa importante della mia biografia ma non ho mai messo da parte il canto. Del resto, ho sempre avuto il sostegno dei miei genitori: erano tante volte loro a spingermi a posare il libro che avevo in mano per andare un po’ a cantare. Non hanno mai considerato una cosa più importante dell’altra e non hanno mai ostacolato le mie scelte.
Hai sempre comunque dato molta importanza alla musica. A dieci anni hai “debuttato” come solista in una recita scolastica mentre a tredici anni. Cosa ti colpiva della musica?
Con la musica, detto papale papale, mi facevo certi viaggi… non metaforici ma reali! Ricordo che quand’ero in macchina da bambina avevo costantemente le cuffiette alle orecchie. I miei si lamentavano anche della mia “non presenza” e mi prendevano anche in giro. Non sentivo però nulla di quello che dicevano: mi isolavo totalmente, ascoltando di tutto. In quel periodo, ascoltavo tantissimo Rihanna…
Ricordo altresì benissimo la recita scolastica. Frequentavo la scuola elementare dalle suore e mi era stata affidata la parte della cantante solista in una di quelle rappresentazioni che si facevano ogni anno per Natale. È la prima immagine che ho di me legata alla musica e la cosa buffa è che ancora oggi ricordo ogni singola parola della canzone che cantavo. Ho ancora il video di quella prima esibizione. Ogni volta che lo guardo non posso fare a meno di ridere perché mi rendo conto come da allora molte cose non siano mai cambiate: certe espressioni mentre canto o il modo di tenere il microfono sono rimasti gli stessi!
A tredici anni ho poi cominciato a studiare canto in una scuola di musica che era vicino casa. Con l’insegnante di canto siamo tuttora amiche: ho studiato con lei per anni. Ma ho iniziato per passione, per gioco, senza sapere che il canto sarebbe diventato una parte fondamentale della mia vita.
Ed era facile da adolescente coniugare la passione per il canto con la tua quotidianità?
Sì. Non ho mai vissuto il canto come una costrizione o una pesantezza. Avevo anche la fortuna di avere in casa un piano tutto dedicato alla musica: non è mai stato un obbligo o un peso. Diverso invece è stato il mio approccio con lo studio del pianoforte. Ho cominciato intorno ai 15 anni o forse anche più in là nel tempo.
Frequentavo comunque il liceo ma non avevo per il pianoforte la stessa predisposizione che avevo per il canto e questo mi portava a non esercitarmi tutto i giorni. Ora sì, lo so suonare ma non ho quella che si può definire una preparazione accademica: ho preso lezioni più che altro per accompagnare il canto. Una volta imparate le basi per poi accompagnarmi, non sono più stata dietro con lo studio.
Il tuo primo singolo è stato Noire. Anche in quel caso di parlava della fine di una relazione ma non si era a Napoli ma a Parigi.
A differenza di Nagasaki, Noire era un brano un po’ più autobiografico. Insieme al mio team di autori, abbiamo però giocato con i personaggi in modo che la canzone potesse adattarsi a qualunque situazione. Parlavamo sì di una relazione sentimentale ma di fonde c’era quel sentimento di rabbia che ognuno può esprimere anche in contesti amicali o familiari.
E come vivi tu le tue relazioni? Sei pronta a riconoscere subito la fine o tendi a procrastinarla come in Nagasaki?
Un po’ e un po’. Non riesco a essere netta e dire se mi rivedo più nella prima o nella seconda situazione.
La ragazza di vetro, il tuo secondo singolo, parla tra i suoi versi del rapporto che hai con la percezione del tuo corpo.
La ragazza di vetro è un brano molto autobiografico in cui ho tirato fuori quella che era un’insicurezza che mi sono porta dietro negli anni. Un’insicurezza dovuta a come mi vedevano gli altri, il cui pensiero mi influenzava. Fortunatamente, poi ho capito che avrei dovuto disinteressarmene e oggi sono molto più consapevole di me e tranquilla. Ovviamente, non tutte le insicurezze sono sparite. Non le ho proprio risolte tutte.
Ma erano insicurezze che venivano dall’esterno o erano interne?
Sicuramente qualcosa mi arrivava dagli altri ma principalmente erano insicurezze che nascevano dalla mia testa e da quell’idea di perfezione che col tempo ho capito che non esiste. Mi ponevo molte domande e molti problemi inutili. La ragazza di vetro è stato uno sfogo, non facile ma uno sfogo. Ammettere le proprie insicurezze non è mai facile, anche se è costruttivo. Bisogna accettare che siamo perfetti così come siamo.
Prima di Nagasaki, c’è stato un altro singolo, Malinteso.
Anche Malinteso parla della relazione tra due persone: ci si chiede cosa vede l’altro che io non vedo. Anche in questo caso la relazione non è necessariamente personale. Racconta di una situazione non autobiografica e trae spunto da circostanze che hanno vissuto persone a me vicine. Io ho semplicemente dato un finale diverso a ciò che ancora loro non hanno capito vivendo in una situazione di limbo e vedendo qualcosa di più rispetto al semplice rapporto di amicizia.
Ti definiresti una ragazza determinata?
Sono determinata a raggiungere quello che voglio. Se mi metto in testa qualcosa, non mi fermo fino a quando non ho agguantato il mio obiettivo.
Quel è l’obiettivo che finora ti è costato più raggiungere finora?
Sicuramente lo studio. Mi sono laureata in ritardo rispetto ai tempi previsti proprio perché mi è pesato tanto. Paradossalmente, gli anni della pandemia, seppur pesanti, mi hanno aiutato a finire gli studi ma ricordo di aver vissuto un periodo di pesantezza dettato anche dall’incertezza sul percorso formativo che avevo scelto. L’insicurezza si è riversata su tutto, anche sul tempo che dedicavo allo studio. Ma la determinazione mi ha aiutata anche in questo caso: se inizio qualcosa, la devo finire. Non c’è mai stata l’idea di mollare, anche quando c’erano molti dubbi da risolvere.