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Michele WAD Caporosso: “Siamo tutti uguali dove si balla” – Intervista esclusiva

Michele WAD Caporosso
Conduttore dell’iconico programma di Radio Deejay Say Waaad?, Michele WAD Caporosso porterà la sua esperienza ai giovani delle università italiane in 12 incontri in cui si affronteranno anche molti dei temi cari a TheWom.it: dalla circular fashion alla narrazione della perfezione. Lo abbiamo raggiunto per un’intervista inedita tesa a conoscere non solo il personaggio ma anche il giovane uomo.
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Michele WAD Caporosso non è solo il conduttore dell’iconico programma Say Waaad? in onda dal lunedì al venerdì dalle 20 alle 22 su Radio Deejay. È anche una delle figure più influenti del settore urban italiano e un punto di riferimento per numerosi giovani della Gen Z.

Ed è il sentirsi per loro un fratello maggiore una delle vere ragioni che si cela dietro al Say Waaad meets students, l’University Tour con cui Michele WAD Caporosso girerà l’Italia da aprile a maggio 2023 facendo tappa in 12 atenei italiani. La prima tappa è stata lo scorso 3 aprile a Cagliari mentre l’ultima sarà a Milano il 24 maggio.

Nel vero e proprio talk itinerante, Michele WAD Caporosso racconterà in primis la costruzione del suo iconico programma svelandone la parte redazionale, dalla scelta quotidiana degli argomenti da trattare alla preparazione dell'intervista con l'ospite fino a come affrontare una diretta. Ma il talk coi ragazzi verterà anche su temi trasversali della nostra contemporaneità, come cancel culturecircular fashionsalute mentale e il rapporto col successo all’interno dell’imperante narrazione della perfezione.

Alla vigilia della tappa del 13 aprile all’Università di Perugia, abbiamo raggiunto Michele WAD Caporosso per un’intervista che, nata per farci spiegare il tour, ci svela chi è il giovane WAD con una prospettiva molto personale e inedita. Abbiamo così scoperto cosa significa per lui vivere tanto, chi sono i suoi maestri, le sue passioni, le sue sofferenze e ciò che ha capito di se stesso negli anni.

Michele WAD Caporosso.
Michele WAD Caporosso.

Intervista esclusiva a Michele WAD Caporosso

Dopo l’esperienza lo scorso anno negli atenei milanesi, hai appena cominciato il lungo tour che ti porterà in varie università italiane. La tappa di partenza è stata Cagliari: com’è andata?

A Cagliari è stato bellissimo. Intanto, mi è piaciuto molto partire dalla Sardegna, una terra che viene sempre considerata marginale soprattutto nell’ambito dei tour: noi invece siamo partiti da Cagliari e più avanti andremo a Sassari. Ero già stato in Sardegna, la frequento per le serate nei club, ma incontrare i ragazzi all’università è stato magico: abbiamo assistito a scene di abbracci, di lacrime e di benessere, nel senso di stare bene insieme. È stata un’esperienza che ci ha lasciato una bellissima vibe.

E che effetto ti ha fatto relazionarti con un auditorio composto da quasi tuoi coetanei?

In realtà, gran parte degli studenti erano più piccoli di me. Io sono un millennial mentre loro erano per lo più ragazzi appartenenti alla Gen Z: gli incontri sono aperti anche agli studenti delle scuole superiori che si preparano per affrontare la vita universitaria. L’effetto è stato comunque strano perché noto che, al di là di una certa curiosità o di un certo voyeurismo legato al mondo della musica, ai ragazzi interessa – glielo leggo negli occhi e me lo dicono – qual è la strada da percorrere per raggiungere il lavoro dei sogni.

Chiaramente, non conosco quale sia la strada però noto che a loro fa molto piacere avere dei racconti veri che possano servire da esempio, racconti di un’esperienza concreta e non digitale, presunta o probabilmente falsa e inventata.  

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Come sono organizzati gli incontri? Hanno una scaletta preordinata o sono lasciati alla totale libertà del momento?

Gli incontri sono un continuo scambio, un flusso di dialogo tra me e loro che passa dalla mia esperienza in radio ai tanti temi di attualità che anche nel mio programma si affrontano. Ogni università sceglie di concentrarsi su quello che è l’aspetto più interessante: chi studia radio o comunicazione, ad esempio, è più interessato alla parte tecnica e artistica; chi come a Cagliari studia invece materie umanistiche è guidato da una sorta di approccio quasi filosofico al lavoro.

L’andamento di ogni incontro dipende quindi da ogni singola università, non c’è una schematizzazione netta: nell’arco di un’ora e mezza si toccano diversi argomenti, da quelli più tecnici a quelli più collegati all’oggi, alla musica, alla cultura di internet e alla diversità. Si parla molto di personaggi che rappresentano delle minoranze ma anche un po’ di politica nella maniera più leggera possibile.

Nel corso dei talk emergono spesso aspetti legati a temi sensibili. Gli incontri non sono autoreferenziali: anzi, cerco di parlare il meno possibile di me perché so di non essere il fulcro concettuale principale.

Ti diverte passare dal ruolo di intervistatore a quello di intervistato?

È molto più facile essere intervistato perché sai già cosa rispondere: conosci la risposta esatta perché è la tua. Più che altro, mi accorgo che cambia a seconda di quella che è la curiosità delle persone: c’è chi cerca di scoprire o di approfondire aneddoti legati a degli artisti che ho incontrato e chi invece (e questo riguarda molto la Gen Z) prova a scoprire qual è il segreto del mio lavoro, come se ci fosse poi un segreto.

In questo, mi sento molto fratello maggiore e un po’ lo sono: ogni sera in radio ospito vari esponenti della Gen Z (tiktoker, creator, influencer) e, quindi, ormai mi considerano davvero come tale. Cerco però di spiegare loro che il fratello maggiore non deve indicarti necessariamente la strada giusta: deve semmai mostrarti una strada possibile da perseguire e che solo con il giusto background, lo studio, si può raggiungere un risultato.

So di avere di fronte una generazione disillusa e anche molto frustrata. Lo capisco, è qualcosa che un po’ tocca anche me ma tocca maggiormente le prossime generazioni, e quindi sento tanto il sentimento dell’abbraccio da fratello maggiore: se a loro può far bene, sono contento di raccontarmi e di abbracciarli tutte le volte che verranno.

Anche tu sei ancora nell’età in cui hai bisogno di un fratello maggiore?

Assolutamente sì. Credo che sia qualcosa che non finirà mai: tutti abbiamo bisogno di riferimento, di fratelli maggiori, in maniera costante e sotto tanti punti di vista. Qualche tempo fa, ho chiesto in diretta a Jovanotti di insegnarci a vivere e come facesse ad avere tutta l’energia che ha. Parlando di maestri, mi ha risposto che ha sempre bisogno di maestri nuovi e che i maestri non si presentano mai come tali: non arrivano dicendoci “sono il tuo maestro e ti insegno la vita”. Mi ha poi fatto l’esempio di come anche un gatto, possa essere un maestro e indicarti la strada.

Michele WAD Caporosso.
Michele WAD Caporosso.

Vivere tanto per vivere meglio. Cosa significa vivere tanto per te?

Vuol dire non fermarsi. Quando incontro personaggi come Jovanotti, Barbara d’Urso o Corrado Augias, personaggi di un’altra epoca che hanno una carriera importantissima, mi accorgo che li accomuna il fatto di essere instancabili: non si fermano mai di pensare, di creare, di progettare e di mettere in piedi nuove cose. Questo non vuol dire che non riescano a ritagliarsi dei momenti di relax o di svago, ovviamente lo fanno e sono necessari. Tuttavia, il loro è un bel vivere tanto. E vivere tanto per me permette di accumulare esperienze e punti di vista e di avere credibilità: vivendo tanto, scopri tanto raggiungendo un livello di cultura che la scuola non ti darà mai. Vivere tanto non è il vivere a lungo: nessuno conosce la formula per quello.

In questo senso, vivere tanto non comporta una piccola dose di ansia da prestazione?

Sicuramente ma dipende anche un po’ da quello che fai. Io cerco sempre di fare cose che sono mie e che sento mie. Non riesco a cimentarmi in attività che sento troppo lontane da me. Viviamo in un’epoca in cui tutti, oltre a essere esperti di tutto, siamo affetti da una patologia, incredibile, particolarmente diffusa: il tentare tutte le strade perché vanno di moda.

Io provo a essere esente da tale patologia: non voglio far tutto ma solo quello che mi piace e per cui mi sento bene. La radio, in primis. Ma anche la televisione se posso rimanere nel mio mondo, come accaduto per The Rap Game su RaiPlay: altrimenti, non mi interessa andare soltanto per apparire, ho imparato a dire di no. Non mi servirebbe a niente se non ad avere un po’ di soldi in più e i soldi sono qualcosa che mi interessano.

Se ci si muove in questo modo, l’ansia da prestazione è più controllabile: si rimane nel proprio campionato, non si gioca negli altri, e si hanno gli strumenti per il possesso palla.

Quando hai cominciato il tuo percorso in una piccola radio di Altamura avresti mai immaginato il corso che avrebbe preso?

No. assolutamente no. Se incontrassi il mio io bambino e gli dicessi quello che sto facendo oggi, non mi crederebbe mai. Per me, era qualcosa che andava oltre il sogno possibile: non lo consideravo nemmeno per quanto era troppo grande. Quando ho iniziato a lavorare in radio, l’ho fatto perché spinto dalla passione: tuttora lo considero tale e non un lavoro a tutti gli effetti. L’andare in onda è la parte meno lavorativa della mia giornata!

Quando ho cominciato a lavorare a Radio Deejay, chi seguiva i miei social non sapeva nemmeno che stessi facendo radio. Nessuno sapeva di questa mia passione: a me bastava portarla avanti e avere un programma tutto mio. Ma mai avrei pensato che potesse succedere. Ci sono tante “c” che determinano la vita di una persona: cultura, credibilità, coerenza e, nel mio caso, anche culo!

Sindrome dell’impostore?

No, culo perché Milano è una città molto lontana dal Sud Italia, dove sono cresciuto io. Ed è una città che all’arrivo tende a respingerti, non è subito accogliente: lo diventerà dopo. Quindi, serve comunque anche una grossa dose di fortuna, chiamiamola così, per finire in un circuito ed essere apprezzato. Poi, non so se me lo meritavo ma di sicuro faccio di tutto per meritarmelo, almeno questo posso garantirlo.

Michele WAD Caporosso.
Michele WAD Caporosso.

La passione ha avuto un peso fondamentale nel tuo percorso. Quali sono le altre tue passioni?

Ci pensavo qualche giorno fa dopo aver letto in un libro di un personaggio che diceva che la sua più grande passione erano le passioni. È una frase che posso fare anche mia: da sempre sono appassionato alle passioni e alla gente appassionata: quando leggo negli occhi degli altri la passione per quello che fanno, sono felice. E la passione è anche ciò che provo a raccontare tutte le sere in radio: mi auguro che chi ascolta il mio programma percepisca la mia ma anche quella delle persone che ospito.

Tra le mie passioni, oltre alla radio, c’è la scrittura. Ho sempre scritto per vari magazine, da Rolling Stones a Vogue, GQ o Wired. Da sempre sono appassionato di quello che in America chiamavano gonzo journalism, di un giornalismo frontale, colloquiale e molto poco impostato, un po’ come me: sono l’esatto contrario dell’impostato e per questo imperfetto. Mi appassiona la danza quanto il club perché è lì che riesco a sentire l’energia delle persone e capire quanto una canzone possa unire e annullare le differenze sociali, economiche, razziali e di genere: siamo tutti uguali dove si balla.

La parola passione ha la sua radice nel verbo latino patire. Cos’è che ti fa patire e ti genera sofferenza?

Rinunciare a del tempo con la famiglia: è il più grande sacrificio che una persona possa fare. Mi è capitato di parlarne anche in trasmissione con Marco D’Amore: quando devi inseguire il tuo fuoco, inevitabilmente devi fare delle rinunce e dei sacrifici. Il più grosso per me è il rinunciare a dedicare del tempo alla famiglia ma anche ai rapporti sociali non finalizzati solo al lavoro.

Hai di recente pubblicato Ruba (le frasi) di questo libro per Baldini+Castoldi.

È ispirato a un manuale di Abbie Hoffman degli anni Settanta, manifesto della controcultura hippie scritto in un periodo molto lontano dal nostro, quello della beat generation. Era un manuale di guerriglia in cui spiegava come combattere il sistema in un senso molto politico (allora di poteva fare, oggi è difficilissimo).

Il mio più che un manuale di guerriglia è un manuale di sopravvivenza: contiene screenshot di conversazioni avvenute nell’ultimo anno di Say Waaad? che hanno un loro peso – leggero, introspettivo, forte o anche politico o sociologico. Un peso che, vivendo in un’epoca in cui si ha una soglia di attenzione minima, sarebbe andato perso.

Ci sono dunque delle frase che, per quanto estrapolate dal loro contesto, possono dare tanto nel momento in cui se ne ha bisogno. Perché una frase può darti veramente tanto, almeno così è stato nel mio caso: annoto citazioni e frasi nelle note del mio smartphone. Quando perdo il telefono, la mia più grande frustrazione non è l’aver perso foto o numeri ma le note! Le parole per me sono davvero fondamentali: mi indicano la strada.

Cosa significa per te sopravvivere?

Stare bene in questo mondo: crearsi un proprio spazio e una propria strada per lasciare il segno del proprio passaggio.

Con errori annessi?

Di errori ne faccio tantissimi ma do loro il giusto peso. Cerco però di non fare errori che siano troppo esagerati, chiaramente ne ho fatti. Viviamo oggi in un periodo storico in cui è facilissimo fare un errore soprattutto dal punto di vista del linguaggio: una parola sbagliata o un accento sbagliato possono significare tanto e, quindi, cerco di sbagliare il meno possibile. Dal mio punto di vista, se viene fatto da qualcuno che è sincero e autentico, l’errore si perdona più facilmente. Se invece è frutto di leggerezza, approssimazione e ignoranza, diventa più grave perché rischia anche di offendere qualcuno.

L’offesa è l’arma a cui ricorrono spesso gli haters sui social. Che rapporto hai con le offese gratuite?

All’inizio fanno male, conosco la sensazione, soprattutto quando non colpiscono solo te ma anche le persone attorno a te. Ho imparato a evitarle. In pochi lo dicono ma l’hating è facile da stimolare, basta pubblicare un contenuto provocatorio per far sì che sia inevitabile: c’è gente che ha costruito un’intera carriera sull’essere divisivo per poi far la vittima o lamentarsi di avere tanti haters, basterebbe non stimolarli. C’è stata una fase in cui anch’io mi divertivo a farlo, però da diverso tempo vivo sono nella fase di totale disinteresse. Oggi vedo i commenti negativi o gli insulti ma non mi toccano per niente ma conosco persone che li vivono davvero molto male… anche perché su dieci commenti l’occhio casca sempre su quello negativo: qualche psicologo prima o poi dovrà spiegarci perché accade!

Quanto sei cresciuto negli ultimi anni?

È una valutazione che non so fare su di me. Mi sento in una fase di crescita che passa attraverso un’autoanalisi costante: non si arriva mai a un punto in cui ci si sente cresciuti ma è un continuo cammino, si impara sempre e si impara dai grandi. Ho imparato ad esempio dai grandi come essere ma anche come non essere. Le vecchie generazioni ci hanno lasciato un mondo apparentemente distrutto ai cui problemi dobbiamo trovare delle soluzioni con poco budget e tutto fatturato mentre loro hanno consumato tutto in nero e senza fattura. Pretendono rispetto e riconoscenza dalle nuove generazioni – è giusto darglieli – mentre loro non garantiscono il giusto rispetto e il giusto supporto: non è corretto.

A te chi dà il giusto supporto?

L’energia delle persone, sia di quelle che ho intorno sia di quelle che incontro durante il tour nelle università o nelle serate in discoteca. Non vado in giro né per motivi economici né per alimentare il mio ego ma per l’energia che ricevo: muove tutto il resto…  motivo per cui nel periodo della pandemia la mancanza di incontri mi ha abbattuto.

E come ti sei salvato quando, per ovvie ragioni, non potevi ricevere l’energia che ti serviva? A cosa hai fatto appello?

La radio ha avuto un ruolo terapeutico sia per me sia per molti altri che l’hanno fatta e per chi l’ha ascoltata. Per un paio di ore al giorno permetteva di entrare in connessione, anche se digitale, con delle persone. La radio è stata molto importante ma anche la famiglia.

Uno scatto dal Say Waaad meets students.
Uno scatto dal Say Waaad meets students.

Oggi stai bene?

Cerco di star bene tutti i giorni in un continuo roller coaster di emozioni e di frustrazioni, di felicità e di depressioni: è inevitabile. Ricordo spesso quanto detto da Achille Lauro mentre era ospite della mia trasmissione: nella vita nessuno ci ha insegnato che il fallimento è parte del percorso, non bisogna sfuggire ai momenti di down. E non è una vita facile quella su questo pianeta.

Lo scorso anno sei stato nominato ai Diversity Media Awards. Cosa ha rappresentato quel riconoscimento del tuo lavoro?

È stato molto importante per un semplice motivo. Sono un essere umano bianco etero nato nel Paese in cui vivo e il fatto che una prestigiosa organizzazione come Diversity, che dedica la vita all’abbattimento delle diversità, abbia riconosciuto in me e in quello che faccio alla radio una fonte di indicazione di sensibilizzazione su alcuni temi mi ha dato un segnale più che positivo: anche chi non proviene da un gruppo sottorappresentato può ascoltare e dare voce a chi subisce disagi psicologi o sociali.

L’ascolto è alla base della parola inclusività.

Nelle mie due ore di programma parlo tanto ma nella vita in generale sono quello che ama ascoltare. Non sono l’animatore ma colui che ascolta: mi alleno quotidianamente all’ascolto delle persone e dei loro racconti, sia in maniera privata sia in maniera pubblica ospitando nel mio programma persone che possono portarmi in territori inesplorati.

E ascolti te stesso?

Ascolto parecchio me stesso ma cerco di non ascoltare solo me stesso: si rischia altrimenti di cadere nella trappola della megalomania. Cerco di mantenere un equilibrio tra quello che sono e quello che vorrei essere ma anche di capire come vorrei colorare a mio modo questa piccola parte di mondo lasciando spazio sulla mia tela ad altre persone per far sì che mettano il loro colore.

Le tappe del Say Waaad meets students: University Tour 2023.
Le tappe del Say Waaad meets students: University Tour 2023.
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