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Miglio: “Ognuno è libero di vivere come vuole” – Intervista esclusiva alla cantautrice

Miglio ha pubblicato il suo primo album Manifesti e immaginari sensibili, una sorta di carta d’identità per la sua musica caratterizzata da cantautorato postmoderno e scrittura cruda, personale e sincera. L’abbiamo incontrata per un’intervista esclusiva da cui emergono le sue visioni sia artistiche sia personali.
Nell'articolo:

Manifesti e immaginari sensibili (Matilde Dischi/Artist First)è il primo album di Miglio, cantautrice ventinovenne bresciana ma da tempo residente a Bologna. Nei sei brani che compongono l’album, Miglio e la sua scrittura per immagini raccontano di vita quotidiana e storie vissute. E non potrebbe essere diversamente dal momento che Miglio ama scrivere e cantare solo ciò che ha realmente vissuto o provato, che sia un amore bruciante o il ricordo del padre Raffaele che non c’è più.

Ed è anche difficile dare un’etichetta a Miglio. Per lei, potremmo parlare di cantautorato postmoderno, dal momento che i riferimenti sono Ivan Graziani, Lucio Dalla, Jeff Buckley e i Joy Division, che ascolta sin da bambina. La musica è sempre stata parte della vita di Miglio, il padre era un musicista ma ciò ha influito solo relativamente nel suo percorso, come lei stessa ci racconta in questa intervista esclusiva.

Per conoscere meglio Miglio siamo partiti dal suo album ma pian piano quella che è emersa non è solo la figura della cantautrice ma anche Alessia, la giovane donna che con la sua chitarra sale sul palco nel nome di una libertà che ha sempre cercato e preservato da retaggi o pregiudizi.

Miglio nella copertina dell'album Manifesti e immaginari sensibili.
Miglio nella copertina dell'album Manifesti e immaginari sensibili.

Intervista esclusiva a Miglio

Manifesti e immaginari sensibili è il titolo del tuo primo album. A cosa si deve?

Il titolo è arrivato mentre stavo scrivendo il disco. Quando si è affacciato alla mia testa, ho pensato che fosse giusto perché rifletteva tutto il mio lavoro. Perché dentro il disco, alla fine, c’è tutto il mio immaginario, tutto ciò che si è accumulato dentro di me negli ultimi anni, in un arco di tempo molto dilatato. Ho riversato nella musica e nei testi quello che ho dentro di me e che ho costruito attorno a me. Non c’era immagine più nitida e giusta che potesse rappresentarlo e anche aprire le porte a ciò che verrà in futuro, che mi rappresenterà ancora di più e ancora meglio di ciò che è uscito in precedenza.

Non che quanto fatto fino a oggi non mi rappresenti, anzi. Per quanto può sembrare banale, per me la scrittura ha ragione di essere se parte da qualcosa di vero. Però credo anche che esistano degli step per raggiungere un certo tipo di consapevolezza, sia artistica sia umana, per raggiungere un certo livello sonoro, di espressione e di libertà di espressione.

L’album è del 2022 ma su Spotify si trovano dei tuoi brani datati anche 2020 e 2021. Hai 29 anni e tra i tuoi riferimenti ci sono artisti senza tempo come Ivan Graziani, Jeff Buckey e i Joy Division. Come ti sei avvicinata alla musica? Quando hai sentito il richiamo della Musa?

Il mio primissimo singolo, Gli uomini elettronici, è del 2018. Effettivamente, da un punto di vista anagrafico, arrivo tardi ma io ho sempre suonato. Se penso alla mia vita e a quando la musica vi è entrata, non c’è un istante preciso in cui posso dire di aver avuto la folgorazione. Ho sempre suonato, anche se poi ho fatto altre scelte prima di dedicarmi totalmente alla musica. Sono cresciuta un po’ in mezzo alla musica: non solo per via di mio padre che era musicista ma anche grazie alla mia naturale attrazione nei confronti della musica stessa.

Ricordo che ho preso in mano la chitarra intorno ai 13 o 14 anni. Suonavo in maniera dapprima spensierata, con la passione dell’autodidatta. Il sabato pomeriggio i miei compagni di classe del liceo uscivano mentre io tornavo a casa per suonare. Intorno ai 19 anni, ho poi cominciato a fare esperienze fuori di casa e a suonare con gli altri. Per tanti anni ho suonato ovunque, prima a Brescia, dove sono nata. E poi a Bologna, dove invece ora mi sono trasferita. Bologna è una città che per certi versi mi ha “deviata”: vivevo ancora stabilmente a Brescia quando ho cominciato a fare la spola per suonare a Bologna!

Miglio.
Miglio.

Scrivere canzoni per te è, a grandi linee, un mix di creazione ed evoluzione.

La maturità, come accennavo prima, è qualcosa che si raggiunge con il tempo, piano piano. E ho ancora tantissimo da fare in relazione a questo lavoro, che è una continua scoperta. Scrivere un disco ti fa evolvere giorno dopo giorno, anche grazie alle persone che si hanno intorno, come ad esempio Marco Bertoni, il produttore con cui ho collaborato e che mi ha aiutato tantissimo. Confrontarsi con un mentore che arriva da altre esperienze e lasciarsi contaminare è sempre costruttivo. Ho scoperto che fare musica permette, se si ha voglia, di mettersi in gioco e di evolversi continuamente: sento proprio di star cambiando. E credo che continuerò a far musica fino a quando avrò la percezione dell’evoluzione. Se non dovessi più averla, significherebbe che c’è qualcosa che non va e che sto perdendo qualcosa.

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Sei una giovane donna e la domanda è d’obbligo. Hai avuto difficoltà nel pubblicare il tuo primo disco? Hanno tentato di uniformarti a qualcosa che già c’era oppure ti hanno lasciato libera?

La risposta è estremamente ampia ma la domanda è centratissima, dal momento che è un argomento ricorrente dei discorsi che mi capita di affrontare anche nel quotidiano. Per quanto riguarda il disco, sono stata liberissima di fare ciò che avevo voglia di fare e non ho trovato alcun tipo di ostacolo. Avrei altrimenti cambiato rotta e mi sarei circondata di altre persone. La mia visione della vita è molto libera e la libertà di espressione è in cima a ogni cosa. Quindi, io ho lavorato liberamente e riesco ancora a farlo come voglio.

È semmai il contesto dove andranno a finire le canzoni o in cui mi capita di gravitare che è un po’ più limitato. Soprattutto per le donne. Si incontrano maggiori difficoltà in termini di rispetto: persiste una forte distinzione di genere. Ciò si evince e mi rattrista molto. Si fa molta fatica, a livello culturale persistono degli stereotipi che è difficile abbattere. Da una cantante donna, ci si aspetta sempre un certo tipo di modello, magari lo stesso che viene loro proposto dalla tv o dalla radio. Quasi ironicamente, se vuoi essere libera di fare quello che vuoi non sei completamente in linea con quello che richiede non il mercato ma chi vi gravita intorno.

Vedono le donne spesso come prive di coraggio, ci vogliono sempre “buone buone”. Sul palco mi capita spesso di presentarmi in versione acustica, voce e chitarra. Beh, l’ultima volta hanno chiesto alla ragazza che mi segue: “Lei suona piano, vero?”, come se le donne non potessero suonare la chitarra come si deve, come se fosse una cosa più da macho. Per non addentrarci poi a livello dei contenuti e della loro pubblicazione: alcuni addetti ai lavori apprezzano moltissimo una donna che propone contenuti diversi, altri invece non sanno nemmeno dove collocarla.

Nel 2022 vorrei che non esistesse più la distinzione tra uomo e donna. È dura vincere quella percezione per cui un uomo può stare su un palco e una donna deve rimanere più defilata. C’è una difficoltà che, secondo me, è tutta italiana: all’estero funziona diversamente.

Ad aprire il tuo album, Manifesti immaginari e sensibili è Autostrade, una delle due canzoni dell’album che parlano di un luogo non luogo (l’altra è Giardini pubblici). Canti “fammi uscire dalle cose che non so spiegare”. Quali sono le cose che non sai spiegare?

Sono tante le cose che chiaramente non mi so spiegare, in tantissimi ambiti. Autostrade è uno di quei pezzi scritti in una fase di personale evoluzione. È stato il mio modo di buttare fuori alcune cose che mi sono capitate nella vita e che non si riescono a spiegare. Di conseguenza, è un brano molto introspettivo ma anche un po’ oscuro che si illumina alla fine. Le autostrade sono un po’ le braccia che si aprono nella mia mente, sono la luce che si ritrova dopo che si sono vissuti periodi un po’ più bui.

Mentre Autostrade ha un finale ottimista, chiamiamolo così, Giardini pubblici racconta sì della voglia di rinascere ma anche e soprattutto della disillusione che ti circonda. I giardini pubblici sono luoghi spesso popolati da tante persone ma tu ci ritrovi la solitudine.

I giardini pubblici sono un po’ come dei luoghi di culto. Ci passa tanta gente, sono super popolati da persone che vanno e vengono. È vero che sono pieni ma alla fine, se ci pensiamo, le persone finiscono anche con il non incontrarsi mai. Capita di passare dai giardini pubblici da soli o di ritrovarsi comunque lì in piena solitudine. E a me è capitato realmente. La canzone in un primo momento doveva chiamarsi Parco Ducos, un giardino pubblico di Brescia, e l’ho scritta nel 2017 (anche se poi l’ho rimaneggiata), quando facevo ancora la spola tra Bologna e la mia città, in un momento in cui appunto mi sono ritrovata da sola in questo grande parco.

È una canzone che parla di solitudine ma anche di forza. La solitudine non deve necessariamente essere vista come qualcosa di negativo. Ha anche i suoi lati positivi: permette di rimanere con se stessi e di analizzarsi. Vengono fuori molte cose quando si rimane soli.

I tuoi testi hanno sempre una connotazione quasi fotografica. O, meglio, cinematografica. Con tale connotazione, mi sembra di capire che sia nata India, una canzone scritta dopo aver visto San Luca, a Bologna, illuminato. Nel testo, dici di voler portare la musica indiana al centro di Ferrara. La città ospita un festival dedicato ai buskers e agli artisti di strada, che portano la loro arte al servizio della gente. Un po’ come si fa nei piccoli locali o nei piccoli club, uno scenario che ti avrà accompagnata soprattutto all’inizio.

Assolutamente sì. Ho cominciato a suonare nei vicoli più piccoli di Brescia per poi muovermi anche in altre zone ma erano sempre posti tutti piccolini. Alcuni me li ricordo anche con molto piacere. Quella è un’esperienza che serve tantissimo, rappresenta quasi le prove vere e proprie e ti permette di imparare tanto. Suonavo prima da sola e poi con altri ragazzi, giravamo le zone vicino Brescia ma poi abbiamo cominciato a spingerci anche oltre, fino ad arrivare, appunto, a Bologna. Siamo passati per piccoli club, caffè letterari o centri sociali, dove a volte il massimo che guadagnavamo era una birra. Sono stati anni importantissimi, che mi hanno permesso di toccare con mano una serie di cose che mi stanno tornando tantissimo anche adesso.

Manifesto è una canzone che sembra parlare della tua biografia, dove si passa dalle case popolari alla nebbia emiliana e si pone la differenza tra il contesto che hai conosciuto a Brescia e quello che hai provato a Bologna.

È un pezzo in cui ritorna sicuramente il dualismo delle due città che fanno parte di me, del mio passato, del mio presente e del futuro. Le mie radici sono e rimarranno sempre a Brescia, però il mio presente (e spero anche il mio futuro) è a Bologna.

Le case popolari nel mio passato ci sono state ma non perché ci vivevo. Le ho conosciute però perché mia madre vive ora in case che un tempo erano popolari. Brescia è una città che in passato non capivo. Tutte le volte che ci tornavo c’era un po’ di conflitto e in Manifesto ciò è molto presente: ci sono stracci di sensazioni e di cose vissute.

Come dicevi, la mia scrittura è fotografica. Mi capita anche di scrivere di luoghi che ad altri non vogliono dire nulla ma che a me affascinano tantissimo.

Sempre in Manifesto, canti che lasciare andare è un atto di coraggio. In che cosa sei stata coraggiosa?

Sì, lasciare andare è un atto di coraggio ma non devo necessariamente averlo fatto io. Capita anche di subirlo e solo con il passare del tempo se ne capisce il senso. È un atto di coraggio ma non è una cosa facile riuscire a lasciar andare cose che magari ti hanno assorbito per tantissimo.

Il lasciar andare è coraggioso così come il dimenticare. Hai paura, ad esempio, di dimenticare tuo padre, come canti in Baby baby balla balla. Chi legge il titolo potrebbe pensare a una canzone leggera, a un tormentone stivo, ma poi ascoltando la canzone si ritrova davanti a tutt’altro. È forse il pezzo più intimo dell’album, dove ti metti a nudo come figlia.

Il rapporto che avevo con mio padre era fortissimo. La canzone è venuta fuori in maniera quasi naturale ed è bellissima l’analisi che ne hai fatto: chi vede solo il titolo, non capirebbe mai di cosa parla. Tra l’altro, la canzone ha anche un forte contrasto tra musica e testo: ha parole molto profonde ma anche una cassa dritta che dal vivo si sente anche parecchio. Me la chiedono spesso come bis ai live, dove vedo la gente ballare e scatenarsi su un contenuto per me così privato, personale e profondo. Non so spiegare che sensazione mi genera ma è molto bella: in un certo senso, è come se fosse una specie di rito in suo onore. Mi godo il momento, è emozionante ma allo stesso tempo liberatorio.

Mio padre è venuto a mancare quando avevo 21 anni, un’età per me un po’ particolare. La sua perdita mi ha molto segnata e ancora lo farà. Probabilmente, scriverò di lui ancora altre mille volte in modi diversi. C’è un aneddoto che non ho mai raccontato prima di ora: il baby baby balla balla non è una mia invenzione. Era qualcosa che mi diceva lui quando ero bambina e cominciava a suonare la chitarra. Era una specie di mantra che s’era inventato e che, con una cadenza molto più bresciana, mi diceva su un giro di blues.

Ricordi ancora quel giro? Potresti metterlo come intro in una canzone.

Lo ricordo ancora. Potrebbe anche essere una perfetta intro, magari ci provo in uno dei prossimi live.

Con la tua saliva è il brano tra i sei che compongono Manifesti e immaginari sensibili più passionale e viscerale, se vogliamo. Racconta del prendersi e del lasciarsi, di paure momentanee e di simulazione della fine. Ed è l’unico pezzo in cui si evince che l’altra persona che compone la coppia è anche lei una lei.

Non ci vedo nulla di strano nel raccontarlo. Lo faccio in maniera molto naturale perché fa parte della mia vita. Non c’è mai stato un attimo in cui ho pensato di declinare quell’unico riferimento al maschile. Se qualcuno ci denota qualcosa di negativo, dipende solo da un fattore culturale, da come è stato cresciuto e dalle visioni che ha. Siamo nel 2022 e, come ho già detto, ognuno dovrebbe vivere come vuole. Io non avrei potuto dirlo diversamente. Perché? C’è ancora qualcuno che oggi si nasconde? Ovviamente, la domanda è provocatoria: so che accade ma, cavolo!, non dovrebbe essere così.

Con la tua saliva mi permette anche di fare un collegamento con Pornomania, una delle tue canzoni passate. In quel testo, si descrive una situazione di sessualità tutta al femminile che non è facile trovare in una canzone. Oggi si tende a nascondere il lato erotico o sessuale come se ci fosse qualcosa di torbido. Le due canzoni dimostrano invece che se ne può cantare anche in maniera evidente e pulita senza cadere nel volgare.

Ricordo ancora quando ho scritto Pornomania. Ero tornata a casa mia per le vacanze di Natale e non stavo nemmeno bene, avevo la febbre alta. Ho raccontato quello che era un pezzo della mia vita in quel momento, una situazione che stavo vivendo: un vortice di passione e non solo. Spesso, non sono brava a dire le cose a voce: mi riesce farlo meglio con la scrittura. E mi fa piacere che tutti mi dicano che non è volgare, non era quella la sensazione che volevo arrivasse, e che arrivi quando la suono dal vivo (seppur con un arrangiamento diverso da quello con cui l’ho registrata).

https://www.youtube.com/watch?v=0O5hD1Dp4UQ

Chi è Miglio? Come ti definiresti?

Ho risposto a domande più personali ma a questa faccio fatica. Direi che Miglio è Alessia. Non potrei mai impersonificare qualcun altro: continuerà a esserci Miglio finché riuscirò a essere libera di essere anche Alessia.

Miglio.
Miglio.
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