La musica contemporanea mi butta giù (Santeria/Audioglobe) è il titolo del terzo disco di Mirkoeilcane, cantautore romano apprezzato da pubblico e critica che torna a far sentire la sua voce e la sua scrittura tagliente, ironica ed elegante, in dodici nuove tracce che arrivano a cinque anni dal suo precedente album. Cinque anni durante i quali Mirkoeilcane, come ci racconta nel corso di questa intervista in esclusiva, ha vissuto il suo “qui” senza necessariamente mostrarlo agli altri, come invece la logica social imporrebbe.
Armato di carta, penna e malinconia, Mirkoeilcane affida il racconto dei suoi ultimi cinque anni di vita a un disco che riflette sull’amore, sui rapporti di coppia, sulla musica stessa, sulla morte e, in maniera originale, sulla religione, senza risultare mai ridondante o scontato. Affidandosi a un tocco leggero ma mai superficiale, Mirkoeilcane celebra nel titolo la memoria di Franco Battiato, archetipo dell’astista fedele a se stesso e alla propria ricerca musicale. Proprio come Mirkoeilcane, che avulso da ogni diktat dei social o di un’industria che punta più ai numeri che alla qualità non rinuncia alla sua idea di musica.
Nel suo viaggio tra amori, malinconie, sogni e turbamenti, lo accompagnano due ospiti d’eccezione: Giobbe Covatta, con un monologo molto tagliente (Secondo Giobbe) e Daniele Silvestri (oltre a prendere parte al featuring sul brano Serie B, ha collaborato attivamente agli arrangiamenti e alla co-produzione del brano In equilibrio).
Intervista esclusiva a Mirkoeilcane
“Considerando la lunghissima attesa, direi che la si vive con entusiasmo”, mi risponde Mirkoeilcane quando gli chiedo come si vive la release di un nuovo album a cinque anni dall’uscita del precedente. “C’è anche un po’ di emozione ma anche di sa curiosità di capire quanto sia rimasto di quello che era, di vedere quanto valore ha ancora una cosa che scrivo”.
La musica contemporanea mi butta giù è un po’ il riassunto dei tuoi ultimi cinque anni. Se volessimo definirli con una sola parola, quale sarebbe?
“Riflessione” ma è molto semplicistica, quindi scelgo “silenzio”: ho imparato quanto è importante fare mostrando a se stessi anziché agli altri. Mi riconosco più nell’assenza che nella presenza.
Un’assenza che però è fatta di una grandissima mole compositiva. Nel definire la tracklist dell’album, hai scelto dodici canzoni su una rosa di cinquanta.
Comporre così tanto senza pubblicare per così molto tempo comporta che alcune canzoni diventino inevitabilmente vecchie: perdono di attualità, soprattutto nel caso in cui si fa riferimento a qualche avvenimento contemporaneo o a quello che i più giovani direbbero trend. Ma le canzoni si scrivono per poi essere ascoltate: in un mercato discografico come quello di oggi è complicato fare un ragionamento simile per cui tante sono rimaste nel cassetto. Magari nei prossimi anni verranno rispolverate e rimodernate, chissà… Ho scelto queste dodici perché insieme formavano un bel gruppo eterogeneo e raccontavano di vari momenti.
Si ha come l’impressione che le canzoni siano in aperto dialogo l’una con l’altra, come se fossero dei dittici e in un caso un trittico.
È una giusta osservazione. Lungi da me la volontà o la presunzione di voler fare un concept album ma le canzoni non sono staccate. Ci sono dei legami e anche le posizioni che occupano nella tracklist non sono casuali. La scelta dell’ordine è sempre uno di quei momenti topici che mette in disaccordo un po’ tutti. Da non amante del singolo, mi piace sentire una canzone per poi ascoltare l’intero album: mi piace mettere le cuffiette, camminare e sentire tutto ciò che un autore ha da dire e, quindi, mi piace riferirmi a chi la pensa come me. Siamo sempre meno però esistiamo e resistiamo.
È come se ci fosse sottesa la voglia di vedere le cose sempre da due punti di vista: non ce n’è mai uno giusto o uno sbagliato. Senza voler essere qualunquisti, c’è sicuramente la possibilità di mettere in discussione ciò che mi piacerebbe questo disco comunicasse.
La musica contemporanea mi butta giù, il titolo dell’album, sembra esprimere già il tuo pensiero sull’attuale sistema musica in Italia.
Non vuole essere nulla di presuntuoso o di negativo, anche perché nella musica contemporanea vengo contenuto anch’io con le mie canzoni: sarei piuttosto autocritico. Quel titolo vuole essere un omaggio al maestro Franco Battiato ma riflette un po’ anche il mio pensiero su ciò che viene oggi offerto. Non ritengo che tutto ciò che musicalmente esca sia di poco valore: ritengo piuttosto che vengano adottati pesi e misure molto sbagliati.
Non si può basare tutto sui conteggi numerici o sui “mi piace”, perché tengono conto soltanto di una certa fascia adolescenziale di ascoltatori: la maggior parte di coloro che passano il pomeriggio con lo smartphone acceso a sentire Spotify sono ragazzi, sono loro a generare i milioni di ascolti. Togliendo la parte in cui uno sembra rosicare, mi aspetto un po’ di più da certe manifestazioni, da certe radio, da certi giornali e da certe critiche.
Non credi che negli ultimi tempi sia un po’ troppo usurato il nome di Franco Battiato. Per qualsiasi album cantautoriale, si è soliti dire o scrivere “con echi di Franco Battiato”…
Non ho avuto il piacere di incontro ma credo che non avrebbe fatto piacere nemmeno a lui in persona. È bello celebrare la memoria o i fasti di chi ci ha preceduto ma non è mai positivo il confronto. Riportandolo nella vita quotidiana, è come se, uscendo con una ragazza o un ragazzo, qualcuno gli dicesse che è il suo nuovo ex.
Gli “echi di Franco Battiato” sono inevitabili nel momento in cui un cantautore usa una parola che non sta nella prima pagina del vocabolario. Accade perché ormai si è diventati veramente disabituati a un certo tipo di linguaggio: andiamo tutti avanti con emoticon e gif. Talvolta mi trovo in difficoltà quando scrivo: se uso questo termine, chi lo capisce? Forse manca un po’ di lettura.
Con una battuta, potremmo dire che avresti potuto allegare un dizionario per il testo di Gesù, una delle canzoni del tuo disco con un linguaggio anche molto poco comune. Quanto tempo occorre per scrivere un testo come quello?
Non per smentirti ma credo che quella sia stata la canzone scritta nella maniera più veloce di tutte. Era già nato il personaggio di Giovanni, il protagonista della canzone precedente a cui Gesù risponde: c’erano le domande del povero Giovanni a cui dare seguito. Mi ha divertito semmai usare il plurale maiestatis. Non voglio però sembrare presuntuoso: ci sono state altre canzoni sui cui testi ho passato giorni, cancellando e strappando i fogli su cui scrivevo. Non so dare una misura del tempo che impiego, anche perché ognuno di noi ha le sue modalità.
L’album ha al suo interno due ospiti: Giobbe Covatta, che con la sua Storia di Giobbe introduce il trittico di canzoni su Giovanni, Gesù e il nipote di Giovanni, e Daniele Silvestri.
Il monologo di Giobbe Covatta fa un po’ da spartiacque: il trittico cambia l’atmosfera del disco. Dopo una canzone che tratta di rapporti umani, non volevo entrare a gamba tesa con Giovanni e il suo amico Gesù: non mi sembrava leale nei confronti dell’ascoltatore, mi piaceva quindi “prepararlo”. Mi trovavo per altri motivi a casa di “zio Giobbe”, come lo chiamo io, quando, facendogli sentire il mix delle tre canzoni appena ricevuto, è rimasto piacevolmente colpito. È stato lui a propormi il suo monologo, tra l’altro in parte già noto per far parte di un suo spettacolo, riadattato per l’occasione.
L’apporto di Giobbe Covatta è come quello di Daniele Silvestri: ho cercato di aggiungere valore alle canzoni avvalendomi di due persone verso cui ho un’incredibile ammirazione. Non ho mai pensato di accalappiare chissà quale attenzione o chissà quale eco sfruttando la loro fama.
La musica contemporanea mi butta giù si apre con Venissero a cercarmi qui. Nel testo ci sono due parole che saltano subito all’occhio: libertà e solitudine. Cosa sono per te?
Il riassunto dei miei cinque anni, per ricollegarci alla domanda con cui abbiamo cominciato. Sono due concetti strettamente collegati per quanto m riguarda che spesso mi portano a combattere e a scontrarmi con persone che si reputano più aperte o che necessitano un po’ più di compagnia. Mi reputo una persona sola ma non con un’accezione malinconica del termine: intendo la solitudine come una manifestazione di libertà, un’occasione per pensare, produrre, ascoltare, imparare, leggere.
Ho un rapporto bellissimo con la solitudine. È ovvio che ci sono stati momenti in cui era troppa e, come in tutto, occorre trovare un equilibrio. Ma ognuno di noi ha il carattere che ha: c’è chi preferisce andare in discoteca e chi rimanere a casa.
Venissero a cercarmi qui e Qui, sono i titoli di due canzoni in cui si ripete l’avverbio “qui”. Cos’è il “qui” per Mirkoeilcane?
Il qui è proprio quello della solitudine. Ognuno di noi ha una parte di sé che tiene più nascosta e che ha meno coraggio di esprimere: non ho mai la sensazione di conoscere esattamente la maggior parte delle persone che incontro e conosco, fatta eccezione per i parenti più stretti. Il mio qui, senza scomodare Jung e compagnia cantante, non è quindi un luogo fisico ma insito in se stessi.
In Circa una storia, hai due biglietti di sola andata per un posto che non sai bene dove sia. Ragionando per assurdo, dove andresti?
A un concerto dei Beatles al completo (ride, ndr). Tornando alla canzone, senza che diventi un discorso politico, il luogo dove andrei è piuttosto utopico: è un non luogo in cui ci si può esprimere senza tutto quel politically correct che oggi ci attanaglia. Mi piacerebbe che tutti potessero dire ciò che pensano senza limitarsi. È abbastanza ironico, si inneggia alla libertà ma poi non si può dire liberamente ciò che realmente si pensa, quasi à la Fahrenheit 451. Purtroppo, la censura è sempre esistita e ancora esiste: ce la facciamo da soli e passa attraverso i “mi piace” e i “non mi piace”.
“Quanti ricordi da non ricordare” è uno dei versi di Non mi ricordo più. Quali sono per te i ricordi da non ricordare?
Quelli che hanno poco valore, a fronte del fatto che ho pochi ricordi e che quei pochi che ho sono stupidi… stupidi ma legati ad avvenimenti importanti. La mia memoria è sempre stata oggetto di scherzo da parte di amici, parenti e compagnia bella ma non vivo di ricordi e non vivo nel passato. Ed è un guaio per certe cose: mi dimentico anche di ciò che invece sarebbe molto importante.
Contravvenendo quasi alle logiche della canzone pop sentimentale e smentendo persino il caro Riccardo Cocciante, nel testo di Non mi ricordo più asserisci anche che “se finisce un amore, c’è da festeggiare”.
Se qualcosa finisce, è evidente che non fosse amore. Qui si aprirebbe un lungo discorso sull’amore che non merita di essere riferito a due esseri umani ma a qualcosa di molto più largo. Se ci limitiamo a due persone, l’amore che finisce è da festeggiare perché non sussisteva il sentimento. Va da sé che poi è molto complicato sorridere o stappare una bottiglia di spumante nel vedere la propria amata andare via di casa: sarebbe distopico.
In In equilibrio, singolo scelto per lanciare l’album, la prospettiva è quella femminile. È un artificio letterario per parlare di se stessi e analizzare la propria parte femminile?
Non saprei. Però, sicuramente, c’era la volontà di mettersi nei panni di una donna. Lo avevo fatto anche nel disco precedente, con una canzone che si chiamava Beatrice. È molto pericolosa come sfida ma mi piaceva farlo.
In equilibrio nasce dalla necessità di raccontare una rinascita in conseguenza ad alcuni eventi e non per analizzare la mia parte femminile, sarebbe difficile scavarsi così addentro. Il punto di vista femminile, un esercizio di stile come direbbe qualcun altro, mi preoccupava non poco ma, dopo che la canzone è uscita, ho ricevuto tanti messaggi da donne e da ragazze che mi hanno ringraziato e che mi sollevano dal fatto di non essere stato invadente, maschilista e banale.
Serie B racconta invece della relazione tra Vanessa e Marco, due personaggi in cui si intravede una leggera critica a come si sono evolute le dinamiche di potere all’interno delle relazioni.
Il riferimento non era a nessuno in particolare, Vanessa e Marco potrebbero anche essere la stessa persona. Forse più di tante altre, la canzone è frutto di una diretta esperienza personale a cui ho assistito per un periodo di vita. Un’esperienza che mi faceva ridere pochissimo e paura moltissimo. In quell’occasione, ho potuto riflettere come dietro a tanti successi “social” ci sia sempre qualche poveretto costretto a fare il gregario. Mi piaceva l’idea di raccontarlo anche con una punta di astio perché non c’è sempre bisogno di essere delicatissimi su tutto. Non ho condiviso l’idea che si debba per forza condividere le scelte dell’altro, senza necessariamente farsi a pezzetti l’uno con l’altro.
In Leggera, in cui ritorna il tuo modo di intendere la musica, canti di scrivere con la penna, il foglio e la malinconia. Cos’è la malinconia per te?
Potrei citare un certo Luigi Tenco. Quando gli chiedevano perché scrivesse tutte canzoni tristi, con la sua tagliente lingua rispondeva che quando era felice preferiva uscire con gli amici anziché scrivere. Vale un po’ anche per me: una canzone nasce da un pensiero che in qualche modo ti blocca, ti ferma rispetto ad altri. La malinconia, oltre a essere una parola che mi piace, è un concetto non necessariamente connotato negativamente: nel mio caso, è riferito alla capacità di essere introspettivi… è la voglia di sedersi e di capire cosa succede intorno: c’è chi lo fa con il pennello, con il movimento del corpo o scolpendo una pietra, e c’è chi come me lo fa con carta e penna. La mia vita mi ha portato a strimpellare e a scrivere. E son ben felice di farlo per vedere le reazioni degli altri.
Caro amico ti scrivo è una canzone dedicata a un amico che non c’è più.
È una canzone che avrei preferito non doverla mai scrivere. È più che un saluto: è semmai un incontro, impossibile, con quell’amico e non è nata con l’intenzione di sedersi a scriverla: è successo che un giorno sono passato da un posto che eravamo soliti frequentare assieme. Ciò che ha fatto sì che le parole uscissero una di seguito all’altra e non ho trovato nemmeno giusto tradurla: non c’era altra lingua migliore del romano.
Giovanni, Gesù e Il nipote di Giovanni, il trittico introdotto da Giobbe Covatta, è il risultato di un’osservazione attenta di tutto ciò che ti gira intorno.
L’argomento di base è la religione, un tema che mi ha sempre spaventato. Non sono credente ma sono cresciuto circondato da persone che lo erano. Sebbene io non abbia mai sviluppato grande fiducia nei confronti di una religione per cui non provo né odio né rancore, mi ha sempre incuriosito come le persone trovino conforto in qualcosa di così lontano da noi. Se vogliamo, Giovanni sono io a novant’anni (qualora avessi la fortuna di arrivarci) … Volevo rendere contemporaneo un concetto che oggi, mi perdoneranno i più credenti, appare poco credibile.
Nel trittico, assistiamo al ritorno di Gesù in terra e al cambiamento che apporta: i talent in tv saranno sostituiti dai programmi di botanica. Una tua passione?
No. Al di là della metrica che entra in gioco quando si scrive una canzone, c’era dietro il desiderio di cercare qualcosa che fosse il più alieno possibile dalla gioventù moderna, come la fisica quantistica o la botanica. Sfido chiunque a trovare un quattordicenne che sappia distinguere una pianta o un fiore dall’altro. Volevo creare la maggior distanza possibile tra i tutorial su YouTube e qualcosa di completamente desueto e dimenticato.
…e il Parlamento viene sostituito dal cinema. Pensandoci, il trittico è molto cinematografico.
Esiste delle tre canzoni un cortometraggio che si chiama La cattiva novella, che ha partecipato anche al Festival di Torino. Peccato, che sia rimasto insabbiato ma da qualche parte c’è: peccato che, per vari motivi con la produzione, io non ci possa rimettere mano sopra o pubblicarlo.
A proposito di libertà, vuoi spiegarci perché Mirkoeilcane?
Anche questa volta no, conservo il mistero. È un piccolissimo segreto che ha dietro una motivazione talmente particolare e personale, legata a un singolo evento. Se lo dicessi, svanirebbe anche il mistero stesso: senza volerlo troppo mitizzare, è una cosetta piccola mia che mi piacerebbe rimanesse tale.
Hai partecipato a Sanremo nel 2018 classificandoti al secondo posto tra i giovani. Ti piacerebbe ripetere l’esperienza?
Al di là dei pro e dei contro, mi piacerebbe risalire su quel palco perché è il luogo che permette a una bella canzone di arrivare alle orecchie di tanti. Il problema è che spesso le belle canzoni non interessano a Sanremo: non sono io a fare il prezioso.