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Miss Agata e la violenza contro le donne: Intervista esclusiva alla regista Anna Elena Pepe

miss agata
Miss Agata è un cortometraggio che racconta la sindrome da stress post traumatico che colpisce una giovane donna vittima di abusi domestici. Lo ha diretto, scritto e interpretato la regista Anna Elena Pepe, da tempo residente a Londra. L’abbiamo raggiunta per un'intervista in esclusiva.

Anna Elena Pepe ha interpretato, scritto e diretto (con Sebastian Maulucci) il cortometraggio Miss Agata. Avvalendosi delle interpretazioni di Andrea Bosca, Yahya Ceesay e Chiara Sani, in Miss Agata racconta la storia di Agata, una trentenne di Ferrara, all’apparenza impacciata, con un lavoro precario e una situazione instabile, sempre sull’orlo di una crisi nervi.

Agata lavora nel call center dell’amica Giulia (Chiara Sani) dopo essersi trasferita dal Piemonte per sfuggire a un ex violento, manesco e abusivo. Sta cercando di rimettere insieme i pezzi della sua vita quando l’ex, Alex (Andrea Bosca), si presenta sul luogo di lavoro per tornare a tormentarla con il suo amore tossico. In crisi e senza alcuna prospettiva risolutiva davanti, Agata intravede una possibile via di fuga in Nabil (Yahya Ceesay), un giovane immigrato che la soccorre durante uno dei suoi attacchi di panico.

Pian piano, Agata dimostra di aver sviluppato un disturbo post traumatico da stress che le vieta di ragionare con lucidità. Con una vena di sano umorismo, Anna Elena Pepe ha voluto dunque soffermarsi su un aspetto finora poco approfondito non solo dal cinema ma anche dalla letteratura psicologica: lo stato d’animo di una donna che, vittima di violenza, deve tornare a riprendere in mano il suo destino.

“Si parla spesso di violenza sulle donne e i dati sono a dir poco allarmanti: secondo l’Istat, infatti, la violenza nelle relazioni di coppia, negli ultimi 5 anni, ha riguardato più del 4,9% delle donne”, ha scritto Anna Elena Pepe nelle note di regia di Miss Agata. “Quello di cui si parla meno, però, è la conseguenza a lungo termine della violenza. Chi ha a che fare con donne che hanno subito maltrattamenti sa che si tratta di persone che sviluppano condizioni psicologiche complesse, caratterizzate dall’irrazionalità e dall’impossibilità di gestire la realtà in maniera lucida e centrata”.

Per parlare di Miss Agata abbiamo raggiunto Anna Elena Pepe a Londra, città in cui vive da quando ha terminato i suoi studi universitari, prima della partenza per gli Stati Uniti, dove il suo lavoro verrà programmato a Los Angeles al Golden State Film Festival.

Anna Elena Pepe Miss Agata
Anna Elena Pepe.

Intervista esclusiva ad Anna Elena Pepe

Come stai, prima di tutto?

Bene, dai, abbastanza bene. Ho un bambino piccolo e, quindi, la notte non si dorme alla grande. Ero incinta sul serio quando ho girato il mio film, Miss Agata, e quando erano previste delle scene in cui dovevo cadere o far altro dovevo stare molto attenta.

Cosa ha significato per te diventare mamma?

Dico spesso, anche se non tutti mi capiscono, che è come mettere gli occhi 3D e vedere il mondo con una visuale diversa. È come se si fosse aggiunto un asse cartesiano in più alla mia vita che mi porta a vedere tutto in maniera diversa, migliore o peggiore che sia. Tutto ha un peso differente: c’è una persona che ti ricorda che devi stare con lui ribaltando ogni tua priorità.

Come mai ti trovi in Inghilterra?

Sono nata e cresciuta a Ferrara ma già durante il liceo ho fatto un anno in Inghilterra. Non ero però a Londra ma nello Yorkshire, in un posto che si chiama Scarborough, sul mare. Ho cominciato con la recitazione molto presto ma i miei genitori non lo vedevano come un lavoro: ho potuto dedicarmi all’acting solo quando sono stata anche finanziariamente indipendente. Ho dunque frequentato l’Università, mi sono laureata in Biotecnologie e ho vinto una borsa di studio in Inghilterra per un dottorato in ricerca cardiovascolare. Ed è stato questo che mi ha permesso di mantenermi a Londra e cominciare a frequentare un’accademia di recitazione.

In poche parole, l’Inghilterra mi ha dato la possibilità di continuare a studiare e a mantenermi, possibilità che se fossi rimasta in Italia non avrei avuto. Per frequentare l’accademia vinsi ad esempio una borsa di studio europea ma mi sono mantenuta anche facendo tutoring di scienze e matematica ai ragazzini durante la pausa di half term. Mi sono creata molto presto tutto in sistema per cui ero finanziariamente indipendente e riuscivo a fare ciò che volevo: la mia formazione scientifica in Italia mi ha permesso di continuare la mia formazione in acting prima e in screenwriting dopo in Inghilterra.

Finita l’accademia, ho trovato qui un’agenzia che mi rappresentava e ho cominciato a lavorare come attrice, sceneggiatrice e regista. Il resto è venuto di conseguenza. Oggi lavoro anche in Italia e ho preso la green card di special talent per gli Stati Uniti.

A me è sempre piaciuto scrivere e l’Inghilterra per me rappresentava il Paese in cui l’autore era considerato importante. Mentre in Italia c’è la tendenza a dare maggior importanza alla regia, in Inghilterra l’autore ha una maggiore considerazione perché è appunto chi ha scritto la storia sia a teatro sia nel cinema. L’Accademia che ho frequentato, ad esempio, anche se studiassi per attore, richiedeva che si scrivesse almeno un cortometraggio o un piccolo pezzo di teatro. La mia passione per la scrittura e la regia è nata da lì.

Quali difficoltà hai dovuto affrontare nel trasferirti a 21 anni?

All’epoca non erano ancora così diffusi i social media e, di conseguenza, non si poteva nemmeno cercare su Facebook qualche italiano nelle vicinanze… arrivare grazie a una borsa di studio mi ha reso un pochino le cose più facili: ero impegnata tutti i giorni con l’università e avevo altri studenti con cui potermi confrontare. Ero, come dire, strutturata e non all’avventura.

Ci sono state tuttavia difficoltà anche divertenti. Qui a Londra si usano i duvet ma io avevo portato con me solo le lenzuola: non sapevo come fare o dove materialmente comprare i duvet. Ho fatto un’ora di autobus per recarmi in un posto di periferia dove secondo me era possibile trovarli: era l’unico posto che conoscevo!

La mia filosofia è quella di muoversi come prima cosa. E mentre mi muovo affronto le difficoltà e capisco come risolverle. Non ho mai amato la pianificazione al minimo dettaglio: basta un minimo di planning e si va. Un po’ come è successo con la realizzazione di Miss Agata: non si capivano se arrivavano o meno i fondi e sono nel frattempo rimasta incinta. Ma l’ho girato, inglobando la gravidanza nella scrittura e dando un motivo in più alla protagonista per agire.

Anna Elena Pepe.
Anna Elena Pepe.

Cosa ti ha spinto a voler raccontare in Miss Agata non tanto la violenza contro le donne ma quanto il trauma che ne consegue, con annesso disturbo da stress post traumatico?

Mi sono resa conto che nella narrativa cinematografica nessuno si è mai chiesto cosa accade a una vittima di violenza. Una volta rimosso il perpetratore, la vittima sembra vivere felice e contenta. Nessuno ha mai posto il desiderio di vedere come queste vittime, distrutte da quello che è loro accaduto, reagiscano emotivamente. Mi sembrava quindi giusto raccontare con umorismo la storia del dopo la violenza che interessa questa ragazza che sembra all’apparenza un po’ ambigua e un po’ buffa, à la Bridget Jones.

È solo pian piano che si scopre quale motivo reale ci sia dietro al suo non vivere la vita o capire le cose belle che intanto le accadono intorno. Parlando con molte psicologhe che si occupano del tema, ho appreso che molto spesso le vittime faticano a reinserirsi in società perché non processano gli avvenimenti in maniera normale.

Il ritorno nella società non è affatto così scontato come si può pensare, tanto è vero che a volte funziona ma altre volte no. In Inghilterra o negli Stati Uniti si parla di Battered Woman Syndrome, la “sindrome della donna sbatacchiata”, per cui in caso estremi alcune delle donne vittime di abusi finiscono anche anni dopo con il reagire nei momenti più impensabili contro il loro abusatore.

In Italia, non se ne parla quasi per nulla, a meno che non accadono episodi eclatanti. Molte vittime di violenza non riescono ad andare avanti con la loro vita, a raggiungere buoni risultati sul lavoro o a instaurare nuove relazioni: però, a quanto pare, questo non fa notizia. Io ho voluto invece raccontare di loro in modo che qualcuna rivedendosi possa sentirsi capita e, soprattutto, riconoscendosi trovi la forza anche di chiedere aiuto per risolvere un trauma ancora inesplorato o analizzato in superficie.

Pensi che se ne parli poco perché viene considerato un problema di genere?

Negli Stati Uniti il tema del disturbo da stress post traumatico è più sentito ed esplorato per via dei veterani di guerra. Vi si presta particolare attenzione e si è sviluppata tutta una letteratura. Se ne parla anche in termini di violenza non fisica e c’è più attenzione nei confronti della salute mentale. Lì si parla molto di gaslighting, ghosting o mobbing, percepiti come abusi. Da noi, se ne accenna ma non vengono considerati quasi mali tali.

Il poster di Miss Agata.
Il poster di Miss Agata.

Per il racconto di Miss Agata hai però scelto una chiave da dramedy, con molto umorismo dentro. E affidi a Chiara Sani il compito di portare in scena un personaggio che, seppur all’apparenza inclusivo, è portatrice di tutti gli stereotipi che ogni giorno andrebbero combattuti.

Persone come quel personaggio esistono purtroppo realmente. Sono coloro che organizzano le cene di beneficienza in favore degli immigrati ma che poi vietano ai figli di giocare con loro al parco, che mandano i loro ragazzi alle scuole internazionali ma che poi parlano sempre in italiano e di multiculturalità non sanno nulla. La loro apertura è più uno status sociale che un movimento interiore.

E inserisci un personaggio, Nabil, che è un immigrato gambiano.

Yahya Ceesay, il ragazzo che lo interpreta, è davvero un richiedente asilo proveniente dal Gambia. Il cortometraggio ha contribuito al suo caso di integrazione: anche se non dovesse accadere nient’altro al film, Miss Agata è riuscito a far qualcosa di buono.

Ho inserito il personaggio perché ho tratto ispirazione dal mondo di provincia in cui ho vissuto. Vedevo tanti ragazzi immigrati che, seduti al parco, stavano sempre con il cellulare in mano ad ascoltare musica. Ho cominciato a capire la loro realtà quando un mio insegnante di teatro al liceo faceva dei lavori con loro nei centri di accoglienza. Mi sono avvicinata a loro e ho cercato di capire perché si isolassero tramite la musica e ho scoperto che era il loro modo per evadere dalla realtà e ricordare casa.

Quindi, Nabil in un momento di sconforto l’unica cosa che può offrire ad Agata, ai margini come lui, è un auricolare per ascoltare della musica. Sì, perché nonostante le diversità anche Agata è a suo modo un’emarginata: viene derisa dall’amica, non ha tanti soldi, vive ancora a casa della nonna e ha un lavoro del tutto precario. È una sopravvissuta, proprio come Nabil, l’unico a capire che in lei c’è qualcosa che non va: si capiscono senza bisogno di parlare, la società non è un posto per loro. Non ho voluto chiudere co un finale romantico ma a suo modo c’è un happy end, un messaggio di speranza e non di sconfitta.

Miss Agata: Le foto del cortometraggio

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E tu quando ti sei sentita sconfitta?

Come attrice e artista, ci si sente sconfitti tante volte, soprattutto quando si hanno dei rifiuti. Personalmente, non ho mai vissuto la sconfitta che mi ha fatto gettare la spugna, anche se continuano tutti i giorni ad essere tante piccole sconfitte che possono rimettermi in discussione. L’importante è comunque avere un senso di missione, una motivazione intrinseca per continuare a credere in quello che fai, anche se il riconoscimento non potrebbe arrivare mai.

Nel caso in cui la violenza contro le donne ti riguardasse da vicino quale sarebbe il primo passo che faresti?

Riconoscere innanzitutto che ci sia un abuso in atto. È difficile riconoscere la violenza soprattutto quando ci sei dentro. Attraversa vari stadi e non sempre riconosciamo facilmente le cosiddette red flags: quando si è innamorati, è difficile considerare violento il comportamento dell’altra persona. Sottovalutiamo i piccoli segni e non valutiamo come violenza il divieto di uscire con le amiche o l’invito a mangiare di meno: anche quella è manipolazione. Se sono libera, devo decidere io cosa mangiare o se voglio stare a dieta. Andrebbe fatta una campagna di sensibilizzazione su come riconoscere il prima possibile eventuali abusi e su come evitare che la vittima, sottostando al volere dell’abusatore, rimanga isolata.

Anna Elena Pepe.
Anna Elena Pepe.
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