Nadia Kibout è un’attrice italiana. Non lo è nata italiana ma lo è diventata per scelta. Ha recitato in molte serie di successo come Nero a metà e Vita da Carlo. Sempre diretta da Carlo Verdone, era nel cast di Sotto una buona stella. È anche regista e ha ricevuto i complimenti di Pietro Grasso, all’epoca in cui era Presidente del Senato, per un’opera teatrale sull’immigrazione.
La vediamo in questi giorni su Sky Cinema in L’afide e la formica nei panni difficili di Amina, una donna in perenne attesa di un marito che non tornerà mai più. Nadia conosce bene l’universo che il film racconta: è nata a Saint-Etienne, in Francia, da genitori algerini.
Nel suo sangue scorre la speranza. Non è un caso che la madre l’abbia chiamata Nadia. Ultima di nove fratelli maschi, Nadia Kibout rappresentava per la madre la speranza di un futuro diverso, lontano dalle angherie e dai soprusi degli uomini. Come racconta l’attrice in uno splendido racconto, tanto toccante quante personale, la speranza di Nadia Kibout è quella di vedere un mondo finalmente unito, senza distinzione di razza, di sesso e di colore.
Non è stata facile la vita per Nadia Kibout. Non le ha regalato nulla. L’ha fatta crescere in un ambiente in cui amore e affetto erano solo miraggi. La famiglia, quella che dovrebbe dare l’imprinting che ti accompagnerà per sempre, è per lei una prigione. E non è una questione di religione, è una questione di uomini.
Ma, quando le mani non sanno accarezzarti, devi trovare dentro di te la forza di far nascere un fiore. Devi raccogliere te stessa e capire cosa fare. Ritirarsi dal mondo dentro a un convento è la prima delle opzioni: cerchi pace e serenità al caos che hai dentro e fuori di te. Però, è la più sbagliata quando hai altre ambizioni da perseguire, altri sogni da concretizzare e fame di vita da accontentare. E Nadia Kibout ha avuto fame di vita, fame di conoscenza, fame di bellezza. Perché non tutto intorno è fango che ti avvolge: la voglia di un domani migliore l’ha fatta da padrone e Nadia l’ha scoperto.
Eppure, oggi, nonostante una carriera piena da attrice, da scrittrice e da regista, Nadia Kibout sa che ancora c’è molto da fare. Soprattutto, quando vuole esprimere la creatività che ha dentro e si vede limitata a ripetere uno stereotipo all’infinito, quando sogna di vedersi rappresentata sullo schermo con normalità e scopre che interessano solo i cliché.
Perché, In Italia, un’attrice afrodiscendente e non non ha le stesse possibilità di una collega italiana? Perché un’algerina, ad esempio, non può interpretare il ruolo di un ministro? E perché una nigeriana non può portare a teatro il ruolo di Medea? Le risposte conducono sempre a una sola riflessione. L’inclusione, termine che riempie pagine di giornali e spesso pensieri vuoti, è ancora lontana. Quale migliore esempio di quello di Nadia Kibout per l’8 marzo?
Intervista a Nadia Kibout
Ti abbiamo appena visto nel ruolo di Amina, la madre dell’adolescente protagonista del film L’afide e la formica. Amina è una donna musulmana che vorrebbe imporre alla figlia le tradizioni della loro terra. Per cultura, le impone di indossare il velo e le nega in un primo momento la possibilità di partecipare alla maratona al centro della storia. I tuoi genitori erano algerini, mauritani. Nella tua vita hai avuto modo di confrontarti direttamente o indirettamente con il tema del velo.
Sono cresciuta in una famiglia completamente al maschile. Eravamo nove figli, di cui ero l’unica femmina e la più piccola. La cultura delle mie origini sempre più verso il maschio, messo sempre al centro dell’attenzione e con più libertà nei confronti della donna. Qualora quest’attenzione vi sia perché nella mia famiglia non c’era nemmeno quello.
Crescendo, mi sono fatta da sola: non ho avuto un’educazione come si deve o una madre e un padre presenti. Sono cresciuta molto libera, se vogliamo, ma costretta a fare le cose di nascosto. E cresciuta senza nessun credo religioso in realtà, perché mia madre non praticava la religione, l’Islam. In seguito a un trauma, dovuto a dei lutti, si è poi convertita. Ha fatto il viaggio a La Mecca e, come di consuetudine dopo il pellegrinaggio, ha dovuto indossare il velo. Ciò, all’inizio, è stato motivo di conflitto tra noi perché io ho sempre rifiutato il velo. Non per un motivo religioso, da quel punto di vista lo comprendo.
Io rifiuto tutto ciò che è imposto, sono per la scelta libera. Se ho di fronte a me una donna che, come ha fatto mia madre, ha fatto una scelta che la fa star bene e le dà sollievo, accetto il velo. Dopo un primo momento abbastanza scioccante, ho tollerato che mia madre lo indossasse perché ho accettato, appunto, che ogni persona ha il diritto a vivere il proprio credo religioso senza intralciare quello dell’altro. Amo parlare di convivenza, armonia e pace, non di bandiera religiosa esposta ai quattro venti per la quale armarsi. Sono molto rispettosa quando di fronte sento che c’è una vera fede, una vera volontà e una totale autonomia.
Hai citato la parola giusta: autonomia. Se guardiamo un attimo a quel mondo, non sempre le donne hanno la libertà di scelta.
Infatti. Spesso però le donne sono messe nella condizione di non accorgersene, e quindi non possono rendersi conto. Vengono educate in un certo modo, non le si dà l’opportunità di essere autonome. Le si dà solo l’opportunità di pensare che è l’essere condizionato che vale. È difficile staccarsi da quello: ci vuole molta forza per rendersi conto che un’autonomia è possibile, nel bene e nel male. Chi dice ‘autonomia’ spesso finisce forse per ottenerla ma passa per qualcosa di doloroso, nella più semplice delle ipotesi dal distacco da qualcosa. Però, l’autonomia è una possibilità che andrebbe esplorata anche attraverso l’educazione fuori dalla casa e dalla famiglia, attraverso la scuola e la società.
Il nucleo familiare è quello che per primo ha questa responsabilità: credo che pian piano si possa andare verso un’autonomia maggiore. Le donne, le madri della nuova generazione, sono sempre più autonome e sensibili alla questione. Si stanno avviando verso una maggiore consapevolezza del potere che si ha in mano quando si è autonome ma senza entrare in conflitto. Essere autonome non vuol dire essere in guerra contro l’uomo, contro le altre donne. Mi piace parlare sempre di unione: dico sempre che l’unione fa la forza ed è vero. Ad esempio, quando c’è unione tra donne, tutto diventa più magico, forte e più semplice.
La cultura e il pensiero del mondo arabo erano basati sul concetto che l’uomo era colui che aveva diritto a tutto e che la donna non contava niente: esisteva solo per mettere al mondo l’uomo e servirlo. È stato così ma non è più così. Già il fatto che la donna abbia il potere di mettere al mondo, di dare vita, basterebbe a sancirlo. Non ci rendiamo più conto di questo, lo diamo per scontato. E, invece, è da considerare questa potenza che abbiamo. Oggigiorno, piuttosto che pensare di andare avanti, dobbiamo andare a recuperare alcune cose che diamo per scontate. Quale immagine migliore di una nuova vita come simbolo dell’unione perfetta tra donne e uomini? È semplice, basilare, ma restituisce il senso di tutto.
Nel mondo arabo oggi c’è una spinta delle donne a ricercare maggiore autonomia. La primavera araba, seppur violenta, ha dato maggiore consapevolezza alla fame di vita che hanno le donne. Avere fame di vita non vuol dire andare a prostituirsi. Fame di vita è fame di esperienza lavorativa e culturale, di viaggiare e vedere il mondo. È un discorso che può riguardare tutte le zone a sud del mondo, compresa l’Italia meridionale, dove la voglia di emancipazione delle donne è malvista.
Lo hai vissuto in prima persona?
Ci sono passata personalmente: non potevo fare il mio mestiere di attrice che sognavo sin da bambina perché significava far la prostituta. Ho subito l’oltraggio, il diniego, finché poi il trauma mi ha risvegliata da una specie di vita che vivevo in anestesia, che non era mia. Dopo avere vissuto un lutto che mi ha cambiato la vita, mi sono posta tante domande esistenziali. Se dovessi morire domani, sarei felice del mio percorso su questa terra? Cosa dovevo fare per essere felice? Mi sono risposta: “Io devo vivere di arte, devo fare l’attrice”.
Quel giorno sono andata da mia madre. “Sappi che d’ora in poi farò tutto il necessario per fare l’attrice. Sei d’accordo? Non sei d’accordo? Non mi interessa più perché la vita è mia”, le ho detto.
Hai fatto un po’ come Fatima, la figlia di Amina in L’afide e la formica.
Assolutamente sì. Mia madre in quel momento era distrutta però mi ha guardata negli occhi e mi ha detto: “Fallo, se sai che è quello che ti può rendere felice”. Ed è diventata da allora la mia fan numero uno. Mi ha rispettato in tutto e per tutto. Il suo orgoglio, la sua felicita nel vedermi sullo schermo erano impagabili. A volte era lei a disperarsi maggiormente per i lavori che non entravano o il provino non superato piuttosto che tutte le difficoltà del mondo che questo mestiere comporta.
E un’attrice, come me, in Italia ne ha tanti di problemi concreti, reali. Si apre un’altra finestra: l’inclusione, la mancanza di volti come i miei, sulla narrazione cinematografica, televisiva e teatrale, che non è lo specchio della realtà e della società italiana. La società è multietnica. Quando si gira per le strade si incontrano persone di molte etnie che, però, sullo schermo scompaiono. E, qualora siano presenti, spesso è attraverso dei cliché e degli stereotipi.
Ci sono dei fari. L’afide e la formica, il film di Mario Vitale, è quello che mi sta incredibilmente dando grandi soddisfazioni nella piccola grande battaglia che porto avanti con delle colleghe afrodiscendenti e non sulla nostra poca rappresentanza e sulla nostra poca inclusione nella narrazione nel mondo dello spettacolo in Italia.
Anni fa facevi parte del Collettivo N, nato per promuovere tale scopo.
Il Collettivo N è stato motivo di orgoglio ma non esiste più però ha avuto un percorso intenso. È riuscito a far rumore, per parafrasare Diodato, attraverso un evento che abbiamo organizzato al Festival di Venezia, in cui eravamo tantissimi rappresentanti di vari settori (attori, registi, sceneggiatori, fotografi, dop) per lo più afrodiscendenti. È stato molto bello. Abbiamo aperto una tavola rotonda grazie a Laura Delli Colli e Giorgio Gosetti alle Giornate degli Autori. Poi, ahimè, è mancata la forza davanti a una montagna troppo alta da scalare e l’unione è venuta meno. Sebbene il collettivo in quanto tale non esista più, tra donne stiamo portando avanti con impegno la nostra voce in nome dell’inclusione, attraverso associazione come Amlet_a e Bianco nero e a colori. C’è ancora tantissimo da fare.
Sono la prima a non amare i confronti con ciò che accade al di fuori dell’Italia ma, quando servono, servono. L’anno scorso, in Francia, i Cèsar hanno avuto come presidente di giuria l’attore e regista cinquantenne Roschdy Zem, nato in Francia ma di origine marocchina. Avremo mai una cosa così in Italia? Quest’anno, invece, è stata premiata come miglior attrice non protagonista Aissatou Diallo Sagna, di origine guineana. Si è molto più avanti: c’è dietro un discorso di integrazione politica ed è stato fatto a monte un lavoro importante di inclusione che ha permesso di rendersi conto quanto la diversità è ricchezza. E in questo lo ius soli deve fare la sua parte, diventando realtà.
Se avessimo in Italia una vera narrazione inclusiva, si soffrirebbe meno anche a livello di mancanza di pubblico nelle sale cinematografiche, nei teatri e nelle programmazioni televisive. Se un figlio di immigrati accende la tv italiana, non vede nessuno che gli assomiglia. Non si può identificare e lascia perdere, spegne. Si butta anche giù pensando che c’è un muro.
Spesso lo spettatore tende a pensare che quello che si vede in tv è ciò che è più bello, più figo. E, se non ti vedi mai rappresentato, cominci a pensare che tu allora vali poco forse. È un lavorio sottile di psicologia. Rimango scandalizzata nel vedere che nella televisione italiana, nel 2022, non c’è nessun volto in cui riconoscersi nemmeno nella programmazione del daytime mentre sono stata felice di vedere Lorena Cesarini a Sanremo: l’ho vissuta come un bel segnale.
Ci sono i casi in cui accade poi il perfetto contrario. Se si vede rappresentato, si vede sempre con una connotazione negativa.
Il nero o l’arabo deve essere pusher, dealer o stupratore. Prostituta o badante, nel caso delle donne. Usciamo da questi cinque ruoli e apriamo, raccontiamo. Non ci arriviamo a livello di specchio della società? Usiamo il cervello e ricorriamo alla creatività e all’immaginazione. Perché io non posso vedere sullo schermo una storia che mi rappresenti attraverso ruoli, personaggi comuni?
Parliamo tanto di crisi finanziaria. Sono convinta che si potrebbe arginare mettendo in atto la vera inclusione. Non puoi capire, ad esempio, quando vado a teatro o al cinema da spettatrice la frustrazione mia e, a volte, anche l’imbarazzo. Ho sempre puntati gli sguardi addosso perché sono sempre l’unica afro e non vedo mai “altri come me”. Non vanno perché non si sentono inclusi nella narrazione rappresentata. Dalla narrazione dovrebbe invece essere recepito questo messaggio: anche noi possiamo essere tutto. E, soprattutto, che nascere neri, arabi e via di seguito, non è male, non è una sfiga. È solo bellezza, ricchezza.
Io oggi non mi sento più diversa. Mi sono sentita diversa all’inizio del periodo in cui ero in Italia perché c’è sempre qualcuno che ti rimanda al tuo essere straniero. Ma non mi puoi più rimandare al mio essere straniera perché io indosso delle scarpe che tu non puoi comprendere perché non hai la mia stessa diversità e ricchezza. Però, potresti avere la curiosità verso l’altro, la curiosità di abbracciare l’altro da te. La diversità sta negli occhi di chi la vuole vedere.
Anche perché se cambiassimo quello sguardo la diversità non esisterebbe.
È un po’ come quando è uscito House of Gucci. C’era inizialmente un grande entusiasmo. Cast americano meraviglioso, regista super. Mi hanno fatto sorridere le prime critiche che sono uscite anche dal mondo dell’industria, dal cinema e dallo spettacolo. “Basta, non se ne può più. Ancora gli italiani descritti come pasta, pizza, spaghetti”. Mi è piaciuta questa ribellione perché è la stessa che noi abbiamo. Erano stufi di vedere gli italiani rappresentati in quel modo a livello mondiale come noi siamo stufi di essere rappresentati come cattivi, sporchi, prostitute, badanti… Se solo ci fermasse a pensare, cambierebbero molte cose.
Viviamo in un’epoca in cui invece pensiamo davanti a un telefono, in cui crediamo di pensare ma non lo facciamo veramente. In quanto mamma, mi sento iper-responsabile. Sono un generale in questo: per fortuna, mio figlio non è un cellulare dipendente. Ritorniamo al discorso di prima: conta sempre il lavoro dei genitori. Non è fare l’amico, è educare. E cerco di farlo senza avere nessun esempio a cui fare riferimento: come dicevo, mi son fatta da sola, sono stata più per strada che in casa. Non ho ricevuto alcuna educazione. L’ho imparata e la sto ancora imparando attraverso mio figlio e gli esempi belli di famiglie che ho intorno a me. Amo molto osservare, sono molto attenta e curiosa della vita, del mondo, delle persone.
- Mi accennavi delle difficoltà incontrate sul mondo del lavoro. Parliamone.
A parte i troppi pochi ruoli che vengono offerti per carenza di narrazione, non so mai dove “mettermi”. Capita che mi presenti, mandata dal mio agente, per i provini di un personaggio francese e puntualmente mi sento dire di non essere “abbastanza francese” per il loro immaginario. Vado ai provini per sostenere la parte di una ragazza araba e non sono “abbastanza araba”, troppo chiara di pelle. Sono sempre in mezzo a un’etichetta che mi fa venir voglia di chiedere loro “cosa sarei, cosa sono”. Non sei mai la cosa giusta perché si guarda sempre prima all’apparenza e solo dopo al lavoro, alla recitazione. È sempre stata e lo è ancora oggi una grande difficoltà.
Ho sostenuto provini per ruoli importanti, andati bene, ma poi persi perché esteticamente non rispondevo agli stereotipi che avevano in mente. Per non parlare dei ruoli che ho rifiutato perché troppo legati ai cliché e senza nessuna costruzione dei personaggi, privi di un prima e di un dopo.
Tra le tue esperienze, fuori dai cliché, mi piace ricordare Lampedusa Beach, tratto dal testo di Lina Prosa.
L’ho voluto fortemente quel lavoro, e Lina Prosa è stata grandiosa. Ho portato con grande gioia a teatro una storia che sulla carta è l’ennesima tragedia sull’immigrazione. L’ho fatto con grande cuore perché è un modo per dare voce a un dramma. C’era un messaggio per cui valeva la pena portare a lungo in giro il monologo ed è stato meraviglioso rappresentarlo all’interno della manifestazione dell’associazione Occhiblu Onlus di Filippo Mulè al porto di Lampedusa durante una serata in cui erano presenti anche Pietro Grasso, allora presidente del Senato, e Silvio Orlando tra gli altri. È la storia di una donna che parte dall’Africa e affronta il viaggio verso Lampedusa. Si raccontava il motivo, il prima e la causa della partenza, e il durante, il viaggio. E il naufragio perché, ahimè, la protagonista non arriva mai a Lampedusa dopo la discesa negli abissi.
Ecco, questi sono testi che mi piace portare in scena perché hanno un messaggio importante. Mi manca moltissimo il teatro ma è difficile trovare qualcuno che in Italia accetti di farti fare un’Antigone o una Medea. L’Antigone è di tutti, come Medea. Chiunque può farle come attrice. Io un’Antigone me la sogno perché per me, da teatrante, è il massimo dei ruoli della tragedia greca, che amo. C’è ancora un divario difficile da colmare e non si parla nemmeno di bravura. È solo una questione di estetica, pregiudizio e di preoccupazione per la presenza o meno di pubblico.
Ma tale pregiudizio lo avverti anche nei momenti in cui ti trovi a lavorare su un set? Noti delle differenze di trattamento o atteggiamenti non uniformi?
Negli anni, meno. Ma, come dice qualcuno, la mamma dei cretini è sempre incinta. Colleghe mi riferiscono della paura altrui, ti vedono come una minaccia, come qualcuno che sta rubando il lavoro, i ruoli. Mi capitava anche a me. Non capiscono che si tratta di costruire qualcosa insieme. Ricordo che ogni tanto agli inizi veniva fuori la battuta perché non te ne vai in Francia? Perché? Perché sto in Italia e amo l’Italia.
Ormai mi considero anche italiana. È assurdo solo pensare una cosa del genere, è sinonimo di mancanza di apertura e di fiducia. Chi fa così, soffre, non sta bene perché non sta in pace con se stesso e con la propria arte. È paura di una concorrenza, di una competizione che non c’è, che io non vedo. Gli attori sono tutti unici: ognuno ha il proprio strumento, una propria esperienza, un proprio sentire, un proprio bagaglio che lo rende unico.
Notavo anche delle differenze a livello di trattamento. C’è la tendenza a dare più attenzioni agli italiani. Ma credo che dipenda anche un po’ da noi, da come ci poniamo. Negli anni ho preso sempre più confidenza con il mestiere, con un’arte che indossi a pieno. Quando si arriva su un set, salutare tutti con naturalezza e professionalità è la base. Però, è vero che non è semplice soprattutto per chi non ha ancora maturato esperienze di lavoro o di set. Non trova una grande accoglienza anche perché ognuno è preso dal proprio lavoro di reparto.
Quando hai deciso che volevi far l’attrice, hai studiato un po’ in giro per il mondo.
Ho studiato a Parigi, a New York, a Milano, a Roma… mi sono, anche tardi, messa a studiare danza. Era un sogno da bambina la danza classica, una delle tante cose che a me non erano concesse. Sogno di interpretare il ruolo di una ballerina. Ma da piccola a un certo punto volevo fare anche la suora. Il mio prossimo lavoro da regista sarà tutto ambientato in un convento.
Perché proprio la suora?
Era un modo per me di togliermi da questa vita, da questo mondo. Di andare in ritirata, in primis dalla famiglia e dal caos che avevo in casa. Era una via di fuga. Mi ispiravano la disciplina, le regole, il mondo spirituale, tutte cose che non ho ricevuto.
Pensa all’ironia del destino, avresti dovuto indossare, obbligata, un velo.
Perché il velo delle religiose cattoliche non dà problema quanto il velo delle donne musulmane? Perché abbiamo subito una battaglia mediatica sul vederlo in modo cattivo. Poi, ci si sono messi di mezzo il terrorismo, l’integralismo e via dicendo, che non aiutano a vedere la parte pura della religione. È a quella che bisognerebbe guardare e rispettare la scelta quando è personale. Bisognerebbe far la differenza tra chi è obbligata a portarlo e chi invece sceglie in piena autonomia di farlo.
In L’afide e la formica, il film di Mario Vitale, il velo gioca un ruolo importante. Amina, il mio personaggio, porta inizialmente il velo ma lo fa perché sottostà al suo uomo, attraverso l’attesa perenne di un suo ritorno. Nel momento in cui avviene la drammatica separazione dal padre delle figlie, Amina è oggetto di maturazione e di cambiamento. Un cambiamento significativo che le permette di fare un passo verso l’autonomia, verso la riscoperta di se stessa con tutte le problematiche e le paure che si possono avere. Va incontro a un risveglio, non ha più un’ombra sopra di lei, ritrova la fiducia anche nella figlia e da lei recepisce la forza per andare avanti. Si riprende la sua vita in mano e pian piano si libera del velo.
Nel film sei, però, quasi irriconoscibile.
Amo quei ruoli che mi permettono di cambiare, di non riconoscermi nello schermo. Per me recitare è portare tutta me stessa nel personaggio. La mia carne, le mie ossa… Amo smisuratamente la cinematografia del regista coreano Kim Ki-Duk (scomparso qualche tempo fa a causa del CoVid, ndr) e la sua narrazione. È quasi sempre senza testo, parlano i corpi, i visi…
Le ali velate, il mio primo cortometraggio che ho realizzato da regista, prodotto da Alessandra Lo Savio e la Cineteca di Bologna attraverso il Premio Mutti, e che è tratto da una storia vera, racconta della doppia vita di una ragazza con e senza velo ma è molto asciutto, come i film di Kim Ki-Duk. Penso che oggi parliamo troppo, ci sono troppe parole in giro. Da regista il cinema che faccio è attraverso le immagini, il racconto, la musica, i volti, i corpi, raccontare delle storie senza per forza bombardare di parole, di battute.
L’afide e la formica è un punto importante per la tua carriera. Potrebbe portarti la candidatura ai David di Donatello come miglior attrice non protagonista.
Per me, L’afide e la formica rimane un film importante, al di là di ciò. Durante le riprese, mia madre è stata ricoverata per questioni di salute. La produzione e il regista mi sono stati sempre molto vicini, mi aiutavano e mi permettevano di andare in Francia a trovarla. Io so che comunque lei veglia su di noi.
Ringrazio Luca Marino, il produttore, e Mario Vitale, il regista. Mario è stato poi un uomo di parola: ci siamo conosciuti e incontrati quattro anni fa al Festival di Venezia. Ero con la mia amica Donatella Finocchiaro alla festa del film di Mario Martone. In fila per il bagno, Mario mi ha riconosciuta e mi ha parlato del progetto della sua opera prima. E ha aggiunto: Noi lavoreremo insieme. Sono trascorsi gli anni ma ha mantenuto la promessa.
E poi mi sta regalando l’opportunità di essere nella cinquina delle candidate a miglior attrice non protagonista ai David. Già di per sé è una cosa meravigliosa. Lo sarà ancora di più rientrarci. Io ci voglio credere perché è il momento di lanciare un segnale di chiara inclusione, di apertura.
In Muima, il racconto che ti ha permesso di vincere il concorso letterario Lingua Madre, concludi con il racconto di un episodio particolarmente delicato. Non è mio intento entrare nel dettaglio. Vorrei chiederti semplicemente cosa è accaduto dopo.
Il dopo Cefalù, chiamiamolo così, è stato un cammino lento, lungo e faticoso verso la scoperta di me, delle mie origini e della mia storia per una sempre più consapevole accettazione. Ma io sono grata all’Italia. Qui ho scoperto e ho capito cos’è il senso della famiglia, la bellezza dell’essere uniti, il rispetto dei ruoli. Esempi che vedevo intorno a me. Io mi commuovevo quando entravo in casa di famiglie, dove mi sentivo accolta e vedevo quanto era forte il legame tra loro, il loro dialogare e il discutere, a volte, ma sempre con rispetto. Da me, non si è mai parlato a tavola. I miei fratelli non parlavano con me.