Nel cerchio degli uomini è il titolo del film di Paola Sangiovanni proposto da Rai 3 la sera del 13 luglio in prima visione tv. Al centro del lavoro di Paola Sangiovanni c’è la condizione maschile, indagata con uno sguardo inedito e consapevole.
Prodotto da Kon-Tiki Film (fondata da Andrea Porporati, Daniele Vicari e Francesca Zanza) in collaborazione con Rai Documentari, Nel cerchio degli uomini arriva in un momento cruciale a mostrare come, contro ogni violenza di genere e stereotipo annesso, possa esistere una possibile via al cambiamento di una società in cui il patriarcato si insinua inconsciamente nelle interiorità di tutti quanti. E lo fa con la storia di un gruppo di uomini che, senza rinunciare alle qualità intrinsecamente associate al maschile, fa proprie le dimensioni dei sentimenti, degli affetti e della cura.
E gli uomini in questione sono quelli di una realtà che, con pazienza e tenacia, tenta da anni di portare a una maschilità nuova, più ricca e felice. È la realtà voluta da Roberto, Domenico e Matteo, tre persone che, stanche dai ruoli stereotipati della società, hanno creato l’associazione Il cerchio degli uomini a Torino con l’obiettivo di liberare le loro energie emotive e intellettuali. Ma non solo, come ci mostra il film Nel cerchio degli uomini.
Ed è dalle loro parole e dai loro cerchi che emerge un tipo di mascolinità nuova, in cui si va oltre i limiti imposti dal binarismo culturale. Per dirlo con le parole della regista Paola Sangiovanni, Nel cerchio degli uomini è un film che parla di mascolinità femminista. Un ossimoro a leggerlo ma un passo fondamentale in termini di equiparazione dopo secoli di dominio e/o sottomissione.
Del film, del concetto di mascolinità ma anche di Generazione Z abbiamo parlato con Paola Sangiovanni, regista di numerosi documentari presentati nei festival più prestigiosi del mondo. È lei che ascolta i cerchi di autocoscienza maschile, con discrezione e senza giudizio. Ed è lei che cerca di cogliere il senso delle loro esperienze e della loro ricerca di emozioni e di relazioni, con l’altro e con il femminile: un nuovo modo di essere uomini, un’inedita ricerca di consapevolezza e di libertà.
Intervista esclusiva a Paola Sangiovanni
Prima di essere la regista del film Nel cerchio degli uomini, sei una donna. In quanto tale come hai reagito nel raccogliere la testimonianza anche di chi ha esercito violenza contro le donne? Non ti dava fastidio quel racconto?
Realizzando documentari, mi metto molto in ascolto delle storie che ho il desiderio di raccontare. Il mio deve essere necessariamente un racconto senza giudizio anche nei confronti di persone che sono diverse e lontane da me, altrimenti non verrebbe fuori niente. Per il mio precedente lavoro, La linea sottile, mi sono ritrovata per esempio a lavorare con un protagonista maschile che era un ex militare di una missione di pace in Somalia, macchiatosi di crimini contro i civili e contro le donne. Lo vediamo nel corso del film affrontare un percorso di cambiamento che non in fieri: me ne sono accorta seguendo la mia necessità del mettersi in ascolto anche quando raccontava delle cose veramente terribili.
Le parole a cui fai riferimento sono quelle di un uomo che ha alle spalle una storia di violenza domestica agita, non soltanto nei confronti della sua prima moglie ma in seguito anche con un’altra donna. Lo avevo già incontrato alcuni anni fa quando era ancora dentro a un percorso cosiddetto di “cerchio” insieme all’associazione Il cerchio degli uomini di Torino, fondata da Roberto, Domenico e Mario, tra i primi ad aprire in Italia uno sportello per uomini che agiscono violenza. L’ho incontrato nuovamente lo scorso anno quando il film ha trovato il suo interlocutore produttivo: sembrava un’altra persona. Io stessa sono stata effettivamente testimone di un cambiamento, una trasformazione, una delle cose che mi interessa molto raccontare.
Quindi, non è stato difficile raccogliere la sua testimonianza. Certo, è stato duro e non facile sospendere il giudizio ma la violenza maschile contro le donne non poteva non essere presente nel mio lavoro come uno dei temi principali dal momento che volevo gettar luce su un tentativo di nuova mascolinità.
Come sei venuta a conoscenza dell’associazione Il cerchio degli uomini?
Ho scoperto grazie a un articolo che c’erano degli uomini che in giro per l’Italia facevano dei gruppi di autocoscienza (anche se loro preferiscono chiamarli gruppi di condivisione) che, ispirati all’autocoscienza femminista, avevano come scopo il mettere il comune le loro esperienze di vita attraverso i sentimenti, le fragilità e una modalità che sicuramente non è maschile. Era all’incirca il 2009 e stavo lavorando a un altro progetto, Ragazze la vita trema, con al centro le donne che hanno partecipato al neo femminismo degli anni Settanta, e ho trovato subito delle assonanze.
Ho cominciato, dunque, a cercare questi gruppi e sono arrivata a Torino dopo un po’ di tempo che ne seguivo altri. A differenza degli altri gruppi, che hanno un approccio un po’ più intellettuale e di formulazione filosofica, Il cerchio degli uomini è molto più votato al fare: partendo dalla condivisione, lavora con i ragazzi sul bullismo, sugli stereotipi di genere nelle scuole, e con i padri per cercare di trovare delle modalità alternative a quelle tradizionali che conosciamo e che generano tantissima sofferenza. E fa anche delle esperienze interessanti come quella del Teatro dell’Oppresso di Olivier Malcor.
Ho conosciuto Roberto, Domenico e Mario, e ho approfondito le loro storie personali. Forse non è un caso che due su tre siano arrivati a Torino dal sud da famiglie molto povere negli anni Cinquanta: hanno dovuto allenarsi in prima personale per trovare un modo diverso e più confacente alla loro sensibilità di stare al mondo.
Cosa ti ha spinto a interessarti alla loro storia e a quella dell’associazione?
Mi interessa da sempre raccontare degli sguardi che non sono codificati e del tentativo di scardinamento della cultura patriarcale in cui siamo immersi: non la vediamo ma ha implicazioni su tutti quanti, uomini e donne.
Tendiamo tutti a pensare che il patriarcato abbia conseguenze solo sulle donne. Nel cerchio degli uomini è un film che mostra invece come a subirne effetti a lungo termine siano anche gli uomini, un aspetto su cui si riflette poco.
Mi sono a lungo chiesta, ad esempio, come mai in una delle conseguenze più eclatanti che sono i femminicidi per tantissimo tempo non si è mai sentita neanche una voce maschile, eppure (sebbene sia una problematica femminile) è un problema maschile: può sembrare banale ma è sconvolgente.
Sei entrata con la telecamera in mezzo ai cerchi degli uomini. Non hai mai avuto la percezione che i soggetti intervistati abbiano cambiato il loro modo di essere, pensare e agire, solo perché davanti a loro c’era qualcuno che li riprendeva?
No, perché c’è stato prima un lungo lavorio di conoscenza reciproca e di costruzione della fiducia. Un lavoro che è iniziato anni prima mentre cercavo di potesse produrre il film: nessuno che riusciva a capire bene cosa stessero facendo gli uomini… ho impiegato quasi una decina di anni per trovare il giusto interlocutore: da un lato, sembra incredibile mentre dall’altro lato sottolinea come oggi finalmente siano cambiate tanto la percezione e la sensibilità sul tema della mascolinità. Mi sembra pazzesco che il film sia stato prodotto da Rai Documentari e che vada ora in onda in prima serata su Rai 3.
Fino a una decina d’anni fa eravamo sommersi da immagini di uomini che non devono chiedere mai mentre oggi il racconto dell’uomo ha lasciato più spazio alle fragilità e alle vulnerabilità. Se ne parla sui mass media liberandoci dell’alone di vergogna che spesso i maschi stessi provavano nel farlo.
Hanno aiutato tanto anche la ripresa del femminismo e il movimento #MeToo. Oggi ci sono parole che sono entrate nel linguaggio comune e sono all’ordine del giorno. È stato un insieme di diversi elementi a far sì che un progetto come Nel cerchio degli uomini fosse recepito: si era più pronti a farlo. Comunque, no, per ritornare alla domanda di prima: non ho avuto la percezione che recitassero, anche se non sempre le riprese sono state semplici. Ho avuto anche il sospetto che ci fossero delle resistenze, qualcosa che in passato non avevo notato lavorando con protagoniste donne.
Credi che le resistenze fossero dovute al fatto che eri donna?
È possibile. Erano degli uomini e avevano una certa relazione con il mondo femminile. Ma, ciononostante, ho sentito delle resistenze e certe volte anche delle difficoltà di comprensione reciproca. Non tutto è stato così scontato e fluido: c’è voluto del tempo e molta disponibilità da parte loro.
Tra gli argomenti che vengono affrontati durante i cerchi ce ne sono due di pressante attualità: da un lato, il bullismo, su cui si scrivono fiumi di inchiostro, e dall’altro lato la relazione degli uomini con il porno, argomento tabù quasi. Come si fa a farli parlare di una sfera così intima senza cadere nel morboso?
Durante gli incontri preparatori, alcuni degli uomini che non hanno poi preso parte al film si sono tirati indietro sull’argomento. Il sesso mi sembra così presenta nella società che non può essere eluso dalla trattazione: avrei voluto anche parlare di prostituzione ma non era argomento nella dimensione di questo gruppo.
Ho inserito il tema in uno dei cerchi di condivisione per indagare la sfera sessuale. Ma la prima volta la trattazione dell’argomento è stata subito sviata: c’è voluto un bel po’ affinché capissero quali fossero le mie intenzioni ma la trattazione è stata molto limitata. Ho chiesto allora a Olivier Malcor di aiutarmi ad affrontare l’argomento porno inserendolo come tematica nel suo laboratorio di Teatro dell’Oppresso. Ed è stata una buona idea: abbiamo ripreso il tutto con una troupe ridotta al massimo per creare una dimensione molto più fluida che ha permesso ad alcuni di loro di mettersi a nudo e di parlare della propria esperienza.
Pensi che il porno possa essere alla base di certi atteggiamenti degli uomini nei confronti delle donne? In alcune produzioni, il confine tra violenza esercitata e rapporto consensuale è molto labile o discutibile.
Non sono un’esperta del genere ma il porno ha sicuramente contribuito a disegnare una certa immagine della donna e della sessualità. Lo sguardo è sempre quello maschile: il sistema di riferimento è fatalmente sempre quello in tutta la cultura che ci circonda. Cambiano semplicemente i codici linguistici e bisogna fornirsi di nuovi strumenti per decodificarli: quello che esce dalla porta tende a rientrare dal portone.
Nel cerchio degli uomini ci porta anche all’interno di un laboratorio scolastico. Perché la scelta di inserire anche i giovani della Generazione Z nel tuo racconto?
Era qualcosa a cui non volevo rinunciare. I laboratori fanno parte del percorso di Il cerchio degli uomini e mi sembrava interessante seguire alcuni di loro in azione. E poi perché a prender parte ai laboratori sono ragazzi che hanno in media diciassette anni: penso che sia attraverso i loro pensieri e le loro parole che possiamo capire molto anche di noi stessi. Penso ci possa essere un ritorno di alcuni strati, anche più sottili, della società circostante attraverso i loro atteggiamenti.
Sono dei ragazzi veramente eccezionali, molto attenti, partecipi e intelligenti, e per niente apatici, come spesso li raccontano. Sono di un paese vicino Torino, Caluso, e ascoltandoli è forte la discrepanza tra quello che è il loro sentire e ciò che la società chiede invece loro in maniera forte, determinata e violenta. Nella loro semplicità, hanno dato vita a cose molto profonde e difficili da spiegare a parole. Credo moltissimo nel cambiamento che stanno portando avanti e nel loro lavoro di consapevolezza.
Sei donna e fai cinema in Italia. È semplice?
Eh, no: è difficilissimo. Tutta la società è strutturata affinché una donna non si senta mai all’altezza. E naturalmente questo è un pensiero che è sedimentato e introiettato molto profondamente non solo negli uomini ma anche nelle donne: dobbiamo come darci il permesso e la possibilità di agire. Ed è un grosso problema.
Con un gruppo di cineasti, abbiamo fondato anni fa la scuola Gian Maria Volontè, una scuola d’arte cinematografica per ragazzi tra i 18 e i 28 anni. Sono ancora oggi pochissime le ragazze che possiamo trovare in gruppi di maschi ma uno dei motivi per cui l’abbiamo fondata era ed è quello di dare pari accessibilità a tutti e tutte. Tant’è vero che si tratta dell’unica scuola in Italia che è completamente gratuita e per cui i ragazzi e le ragazze non pagano neanche le tasse: diamo a chiunque la possibilità di approcciarsi al settore e al lavoro, anche non si è borghesi, maschi o bianchi. È un ragionamento elementare ma è stato quello da cui siamo partiti, immaginando una scuola che avremmo desiderato frequentare quando anche noi avevamo vent’anni ma che non c’era.
Lavoro nel mondo del cinema da quando ho 19 anni ricoprendo diversi ruoli. E ho dovuto sempre relazionarmi con un mondo molto maschile. Nonostante mi ci trovi a mio agio, è un mondo per tanti versi veramente patriarcale e di codici di comportamento molto difficili. Facendo dei film da regista con elementi di grande scomodità, devo fare un grande sforzo interiore e sfidare anche la mia timidezza: non ho però voglia di cambiare e di diventare aggressiva, assertiva e mascolina come invece mi viene richiesto non soltanto dal mondo maschile ma anche, certe volte, da quello femminile. Non sono così e non voglio nemmeno esserlo: un bel problema.