Per chi ha conosciuto il mondo del web prima dell’avvento dei social, Nico Morabito è TuttoFaMedia, il blog che curava e in cui confluiva la sua vita, le sue osservazioni sul mondo dei mass media (la televisione, in particolare, ma anche il cinema e la musica) e la sua palermitanità. Facebook ha poi cambiato tutto ma il ricordo di Nico Morabito, per tutti “tieffemmino”, e dei suoi scritti è ancora forte: le sue pagelle sanremesi sono un must che i suoi follower richiedono a gran voce.
Da allora, di tempo ne è passato ma Nico Morabito gravita ancora nel mondo dei media, ha solo cambiato prospettiva: è passato dall’altro lato della barricata, divenendo autore e sceneggiatore. Dopo gli studi in Comunicazione, Nico Morabito ha lasciato la sua Palermo per trasferirsi a Roma prima e a Parigi dopo. Oggi vive nella capitale francese e insegna all’Università di Nanterre ma nel suo lungo curriculum troviamo anche le lucide analisi curate per Link. Idee per la tv e le sceneggiature di due documentari, Fuori tutto e La dernière séance. Quest’ultimo, in particolar modo, ha fatto conoscere il nome di Nico Morabito anche a chi non lo aveva mai sentito prima.
La derniére séance ha infatti vinto il Queer Lion lo scorso anno al Festival di Venezia, dove era stato presentato nella sezione collaterale della Settimana della Critica. Delle tematiche queer, Nico Morabito è un perfetto osservatore. Non nasconde, come è giusto che sia, di far parte della comunità e, come tale, di farsi portatore di una sorta di missione personale, come leggerete nel corso di quest’intervista, dove si parla anche di linguaggio, identità e scrittura.
E l’occasione per farlo è Le favolose, il film di Roberta Torre presentato al Festival di Venezia 2022 e in sala dal 5 settembre con Europictures, un progetto al quale Nico Morabito ha apportato il suo contributo.
Intervista esclusiva a Nico Morabito
Uno dei temi portanti di Le favolose è il concetto di identità.
L’identità è uno dei temi centrali della mia vita, sia come percorso personale sia come costruzione in rapporto agli altri. A ogni movimento, ogni passo che ho fatto nella mia vita, sono sempre stato riportato a delle caselle in cui gli altri volevano mettermi. Sono nato in Piemonte, ad esempio, e dopo un mese sono stato portato a Palermo: la mia nascita a Vercelli faceva sì che per i compagni di classe fossi lo straniero. Lo stesso è accaduto quando mi sono trasferito a Roma con persone da altre parti d’Italia. Per non parlare di ora che vivo in Francia, dopo ogni giorno sono costretto a confrontarmi con l’immagine che gli altri hanno di te.
Come nasce la tua partecipazione alla scrittura di Le favolose?
Io sono salito su un treno che era già in corsa. Quando sono entrato nel progetto, c’era un soggetto scritto da Roberta Torre con Cristian Ceresoli. Roberta mi ha contattato tramite Cristina Sardo, la sua collaboratrice stretta con cui io avevo lavorato per il primo film di cui ho scritto la sceneggiatura, Fuori tutto (presentato al Festival di Torino, ha vinto il premio come miglior documentario). Ne ero coautore con Gianluca Matarrese, la produzione era della Rossofuoco di Davide Ferrario e Cristina ne era la montatrice. Cristina si è ricordata di me nel momento in cui Roberta aveva bisogno di rimettere mano al soggetto andando verso una riscrittura più completa pur mantenendo alcune suggestioni che c’erano sin dall’inizio.
Abbiamo così lavorato a una riscrittura del soggetto, allo sviluppo dei personaggi e a una prima bozza di trattamento sotto forma di grande scaletta di tutto ciò che poi poteva succedere. La prima intenzione di Roberta era quella di non scrivere una sceneggiatura vera e propria. Le favolose non è un film di finzione ma è un’opera che si muove su un piano di documentario, di reale, ma anche con degli inserti di immaginazione, di magia e di alcune scene con dentro momenti particolari.
Su questo terreno ibrido, abbiamo costruito dei personaggi. Siamo partiti dai libri di Porpora Marcasciano (AntoloGaia, Tra le rose e le viole e L’aurora delle trans cattive, tutti editi da Edizioni Alegre, una casa editrice molto impegnata). Abbiamo lavorato sulle testimonianze di Porpora, dal suo vissuto e dalla sua biografia, ma anche delle sue “compagne” di percorso di Bologna.
Abbiamo un po’ definito la “famiglia reale” della costellazione trans di Bologna e non solo, prima di cominciare a lavorare sui personaggi da inserire nello schema della storia che Roberta aveva già indicato. Ovvero, l’intenzione di risarcire in qualche modo una loro amica trans che era stata seppellita in abito maschile. Ma anche a lavorare su un principio di movimento delle storie. Come riferimento avevamo il film Il grande freddo in cui un gruppo di amici si ritrova in una casa, dove esplodono ricordi, rivendicazioni, simpatie, inimicizie…
Dopo aver concluso il lavoro di scrittura, Roberta è andata sul set. Proprio perché il film è un ibrido, il suo risultato finale è una cosa ancora diversa: il contributo che le protagoniste stesse hanno dato ai loro stessi personaggi ha arricchito il film o modificato.
La casa è un’altra delle protagoniste del film Le favolose. A sottolinearne l’importanza è la stessa Porpora che in una scena dice “Siamo state felici in questa casa ma la domanda è un’altra: siamo state felici in vita?”. La casa era per loro una sorta di isola felice.
Esatto. Quella era la casa dove nel passato loro si ritrovavano, dove potevano vivere finalmente la loro identità in maniera libera. Però, era una soglia: prima di entrare in quella casa e dopo che ne uscivano, erano costrette in realtà a essere ciò che la società voleva che fossero. Ritornandoci oggi, a distanza di tanti anni, le protagoniste sono cambiate: sono libere di essere quelle che sono. La società è cambiata, il mondo è cambiato ma loro ritrovano quella casa che è rimasta lì con i ricordi, con la polvere.
Uno degli aspetti che più mi piace di Le favolose è il modo in cui Roberta e il direttore della fotografia Stefano Salemme sono riusciti a catturare l’elemento della polvere. Basti pensare ai cuscini di velluto, sono molto evocativi perché rendono l’idea del passato, della tenerezza e dell’attaccamento, tutti sentimenti che cogliamo anche noi quando torniamo alle case delle nonne o delle zie o alle nostre vecchie abitazioni. In quella casa, le protagoniste riaprono letteralmente il vaso di Pandora dei ricordi, cosa che faranno alla fine anche con le fotografie.
Vaso di Pandora che potremmo collegare anche alla presenza dell’armadio pieno di vestiti. Una delle sequenze più belle è proprio quando le protagoniste cominciano a indossare quegli abiti, dando l’impressione di ritrovarsi in una dimensione quasi magica.
La nostalgia come sentimento può essere un filone molto abusato nel cinema o nelle storie. Ci sono diversi modi di raccontare o di accrescere la nostalgia, alcuni più lacrimevoli, altri un po’ più tristi o malinconici, e via dicendo. Quella sequenza è invece molto solare e restituisce un’immagine gioiosa. Sì, può esserci nostalgia ma c’è anche felicità. Si ricordano di quello che erano ma soprattutto di quello che hanno dovuto fare. Il film è attraversato dalla fatica che le protagoniste hanno dovuto fare per affermare la propria dignità e per essere oggi quello che sono. Ma in quella fatica c’è anche la gioia, c’è la felicità, c’è l’ironia, c’è la leggerezza e c’è l’autoironia, una dote molto, molto importante.
Nel corso dei racconti delle protagoniste, si affrontano tematiche come la prostituzione, il rapporto con la figura materna e il rapporto con il proprio corpo.
Il tema del corpo è centrale. E lo è perché è centrale il femminile. Partiamo da una considerazione fondamentale: per me Le favolose è un film molto importante perché non so se è la prima volta ma comunque è una delle pochissime volte in cui abbiamo finalmente un racconto che riguarda le persone trans fatto da persone trans. È importante per due motivi: per una presa di parola personale, quindi di autocoscienza, e per trovare il modo di raccontarsi.
Tutte le volte che scrivo un film a tematica queer mi ossessiona il fatto di sapersi raccontare. Noi dell’universo queer, per primi, dobbiamo trovare il modo giusto per raccontarci perché fuori dall’isola in cui siamo ci sono persone che sono nostri alleati, che non hanno nessun problema, e ci sono persone che hanno paura e che reagiscono in maniera diversa, con la violenza, con i pregiudizi, con l’ostilità… Possiamo vincere o attenuare la paura innanzitutto con la leggerezza, con l’ironia, ma anche con l’affermazione di quello che siamo. E qui torna il discorso intorno al corpo: noi siamo i nostri corpi.
Il corpo di una donna trans è chiaramente un corpo che si è evoluto, che si è trasformato e che è cambiato. Roberta in Le favolose ha mostrato in maniera elegante i corpi nudi delle protagoniste, segnati anche dal passare del tempo. È stata una scelta cruciale e importantissima: serve per smorzare quella paura di cui parlavo. Alla fine, non siamo altro che questo: siamo corpi, siamo quello che vogliamo essere e siamo quello che ci sentiamo di essere.
Il rapporto con il materno è altrettanto cruciale. Io trovo ad esempio bellissimo il racconto della madre che fa Veet Sandeh. Quando l’ha rivista a Trecastagni, la madre le ha detto: “Beata te che puoi vivere liberamente la tua vita”. Con il suo percorso di transizione, faticando e lottando, soffrendo, prendendo pugni e altro ancora, alla fine la figlia è arrivata ad affermarsi e ad andare in giro a testa alta. La madre, invece, è rimasta per tutta la vita dentro una sorta di gabbia: nel guardare la figlia, libera, prova quasi invidia.
Le favolose: Le foto del film
1 / 5Si tratta del tuo secondo film a tematica queer al Festival di Venezia in due anni consecutivi. L’anno scorso La dernière séance, di cui firmavi la sceneggiatura, ha vinto anche il Queer Lion. E, curiosamente, fui in qualche modo io a dartene notizia con uno scambio di messaggi. A cosa si deve il tuo interesse nei confronti delle tematiche queer?
A un’idea che condivido con te: per far sì che la comunità sia la più inclusiva possibile, chi ha un po’ di visibilità o fa parte della comunità queer deve farsi portavoce di certe tematiche. Serve a smorzare gli stereotipi e i pregiudizi ed è giusto che chi può lo faccia ognuno con i propri strumenti: tu da giornalista e io da sceneggiatore, un altro da regista e un altro ancora da attore, e così via.
Dopo il Queer Lion dello scorso anno, mi ritrovo a Venezia con il film di Roberta Torre perché per me è importante portare avanti un mio percorso artistico legato alla mia comunità di riferimento, anche se non ho vissuto la stessa fatica o la stessa realtà che racconto. In Le favolose, ad esempio, per me era cruciale che si parlasse anche della vita di strada delle protagoniste.
Nell’immaginario collettivo, c’è la figura delle trans associata a quella delle prostitute. Lo sono state ma perché sono state obbligate da una società che le ha messe subito ai margini. Dovevano vivere, comprare il cibo, pagare un affitto. Sono state buttate fuori di casa e non avevano nessuno su cui poter contare. Per loro, i primi tempi, specialmente negli anni Settanta e Ottanta, sono stati terribili: per loro, prostituirsi non è stata una scelta come molti pensano ma una necessità. È importante che raccontino di quell’esperienza in prima persona e che raccontino anche le violenze subite o un’epoca un po’ più leggera senza i criminali che gestivano gli affari.
Hai citato ancora una volta la leggerezza. Quello che più mi piace di Le favolose è come le protagoniste evitino di piangersi addosso. Come si riesce a far convivere cinque protagoniste come loro? Come sono state scelte?
Abbiamo visto tante possibili protagoniste. Ma sin dai provini era chiaro che erano loro le protagoniste e abbiamo un po’ modellato la struttura di Le favolose sulle loro personalità. Come dicevo prima, c’è poca scrittura dietro. Chiaramente Roberta ha anche una sua personalità, la sua storia, la sua carriera, e ha sempre dimostrato di sapere usare la leggerezza anche nell’affrontare temi forti e pesanti. Le favolose è un film in cui chiunque può riconoscersi: i sentimenti che emergono dentro la casa sono tutti sentimenti umani che chiunque potrebbe rivivere in quella stessa situazione, dalla gelosia alle simpatie. Quindi, universali sono sia i temi sia i sentimenti che emergono. In fase di scrittura, mi piace sempre insistere sulla trasversalità dei sentimenti.
Come poi sia andata sul set, bisognerebbe chiederlo a Roberta. È chiaro che avere cinque protagoniste che portano i loro differenti mondi abbia aiutato in qualche modo l’improvvisazione e la direzione da dare alle scene. Ecco perché in fase di casting era necessario trovare quelle facce, quei corpi, quei temi e quei vissuti.
L’ho chiesto a Roberta, lo chiedo anche a te. Cosa si risponde a chi dovesse dire che essere trans è una devianza?
Prima ho parlato della paura. Per me, una delle armi a nostra disposizione (e qui torno al senso di comunità, al senso del noi) è quella di parlare agli altri, di dialogare con gli altri. Mi sono confrontato spesso con persone che non sapevano letteralmente niente di cui parlavo ma che giudicavano. In quei casi, avevo davanti due strade. Una era quella di rispondere con l’aggressività ma diventerebbe una guerra ma noi non vogliamo combattere nessuna guerra: andare muro contro muro è esattamente ciò che vogliono i conservatori. L’altra era invece il dialogo.
Rispondiamo allora spiegando le cose, come stanno, con il tono giusto, con l’ironia e con la leggerezza. Insegno Scrittura audiovisiva a Nanterre, l’università di Parigi. Ai miei studenti spiego sempre l’importanza di immedesimarsi con i personaggi. Ed è qualcosa che vale per tutti noi: dobbiamo immedesimarci con chi non sa cosa voglia dire gender, transgender, trans, travestito e via di seguito. Sembra un po’ naif ma funziona: con il dialogo, si possono prendere per mano le persone e guidarle verso la comprensione. Però, è necessario che dall’altra parte ci sia la voglia di ascoltare.
A proposito di politica, il diritto di scelta del dead name dovrebbe sacrosanto.
È una questione fondamentale. Riguarda il principio universale di autodeterminazione e interessa chiunque. Il nome è il modo convenzionale che abbiamo per presentarci agli altri, per essere e per vivere. Se allarghiamo il campo di azione, ha a che fare con il linguaggio. Il linguaggio è il modo in cui parliamo e condiziona anche come pensiamo. È importante il riconoscimento del femminile, ad esempio. È importante dire una trans e non un trans. Ed è importante non usare certe parole.
Non è vero che non si può dire più niente o che c’è censura: si tratta semplicemente di definire le cose per quelle che sono e non fare degli errori. Non è censura, è semplicemente rispetto. Tu ti chiami Marco? Benissimo, io ti chiamo Marco. Vuoi essere chiamato in un altro modo? Ok, basta che me lo dica. È principio di autodeterminazione: ti dico quello che sono e tu devi accettarlo, senza alcuna violenza. Tutto passa attraverso le definizioni, la lingua, il linguaggio: del resto, è quello che ci distingue dagli animali.
Attraverso il rispetto, il riconoscimento e l’utilizzo delle parole giuste si cambia pian piano anche il pensiero di quelli che verranno dopo. Sono ottimista da questo punto di vista: so che è lunga ma delle piccole cose stanno cambiando.
Poi, c’è però tutta un’altra questione legata allo Stato italiano. Ma non è un problema legale, è un problema di politica. Riguarda il come far pressione sulla politica per far cambiare le leggi. Sento ultimamente gente dire che non andrà a votare alle prossime elezioni perché non c’è nessuno che la rappresenta. Io stesso ho difficoltà a capire chi votare. Ma è sbagliato non recarsi alle urne: cerchiamo semmai nei vari programmi anche una sola riga inerente ai diritti civili e votiamo chi la propone.
Abbiamo citato prima il Queer Lion. Quest’anno la concorrenza sarà agguerrita. Sono molti i titoli che a Venezia affronteranno tematiche queer.
Credo si sia arrivati a 19 titoli. Avremo una grande concorrenza ma questo non può che farmi piacere. Significa che forse anche il mondo del cinema ha cominciato a interrogarsi concretamente su certe questioni. Ma è molto interessante vedere anche come i selezionatori abbiano cominciato ad accettare certe proposte. La pluralità di voci e visioni è sempre una ricchezza.
Non sai stare con le mani in mano. A cosa stai lavorando in questo momento?
Con Gianluca Matarrese, il regista di La dernière séance, stiamo lavorando a una serie, a un progetto di finzione sul sadomaso. Ci siamo accorti che c’è un vuoto di racconto e di rappresentazione che va colmato. Proviamo ad addentrarci con uno spirito da documentaristi ma con personaggi e situazioni narrative da sceneggiatori e autori. Abbiamo già realizzato delle interviste, cominciato a lavorare sulla parte della ricerca e fatto un mini dossier.
Sempre con Gianluca, ho scritto anche il trattamento e il soggetto di un lungometraggio di finzione. Con un’altra regista palermitana, Ester Sparatore, sto invece lavorando a un progetto di finzione sulla provincia di Palermo. E da un po’ di tempo sto lavorando anche a un mio progetto, a un libro di narrativa.
E che ne pensi delle serie tv che normalizzano le tematiche lgbtqia+?
La normalizzazione da un lato è importante per arrivare a un pubblico più vasto possibile. Ma ciò si riflette negativamente sulla narrazione con la produzione di alcuni titoli che non vanno mai in profondità e risultano molto, molto banali. Un po’ come Glee, un titolo di quindici anni fa che era molto mainstream, commerciale. In realtà, credo anche che questa banalizzazione riguardi un po’ tutto l’universo seriale, parlando da autore e sceneggiatore. Vedo una normalizzazione generale, si è persa la qualità. Netflix o le altre piattaforme sono diventate ciò che era la televisione una volta: è tutto molto semplificato e di facile accesso.
Le locandine dei film di Nico Morabito
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