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“Il sabato sera lasciamolo agli antieroi”: Intervista esclusiva al cantautore Nicolò Carnesi

Nicolò Carnesi, cantautore siciliano, ha appena rilasciato Gli eroi non escono il sabato, rilettura del suo album di debutto in compagnia di tantissimi amici. Dai La Rappresentante di Lista a Dimartino, passando per Dente e Lo Stato Sociale.
Nell'articolo:

Nicolò Carnesi festeggia i dieci anni di pubblicazione del suo primo disco, Gli eroi non escono il sabato, regalandosi e regalandoci una rivisitazione dell’intero album. Lo ripresenta sul mercato in una nuova veste grafica ma, soprattutto, musicale. Di eroi che non escono il sabato ne ha trovati parecchi e sono tutti amici, che con cui hanno riletto i brani reinterpretandoli e suonandoli.

Con quella di Nicolò Carnesi si fondono le energie di La Rappresentante di Lista, Lo Stato Sociale, Oratio, Appino, Fast Animals and Slow Kids, Dimartino, Dente, Cimini, Gregorio Sanchez, Brunori Sas, Max Collini e Donato. E nessuno di loro si risparmia nel riportare il concetto di collaborazione artistica a un’altra epoca, quella in cui le canzoni nascevano da stima e affetto reciproci.

Senza snaturare lo spirito creativo della prima versione di Gli eroi non escono il sabato, Nicolò Carnesi riesce a presentarci un lavoro composito, interessante e, soprattutto, contemporaneo, sia per suoni sia per tematiche. Si interroga sull’amore ma anche sull’alienazione, sui meta luoghi in cui essere felici e sulle derive della comunicazione, sulle illusioni e sul disincanto. La scrittura di Nicolò Carnesi è ironica, evocativa e disincantata. E non è lontana dal suo essere, come vi accorgerete nel corso di quest’intervista.

Nel potere della musica e nella sua catarsi, Nicolò Carnesi ha sempre creduto, sin da quando era considerato lo “strano” del paese nel palermitano in cui è cresciuto. Un periodo che, a differenza di altri, ha saputo metabolizzare e trasformare in positività: non avrebbe scritto la sua musica, se non lo avessero fatto sentire diverso.

Nicolò Carnesi.
Nicolò Carnesi.

Intervista esclusiva a Nicolò Carnesi

Sei siciliano ma vivi a Bologna. Come mai Bologna?

È una città che mi piace molto. Ho vissuto degli anni a Milano fino a quando non mi sono reso conto che non mi faceva più impazzire. Ho scelto allora Bologna: la conoscevo, già c’ero stato e mi aveva dato una bella vibrazione. Non mi sono pentito della scelta perché ci sto veramente bene.

E a Bologna gli eroi non escono il sabato sera?

Fondamentalmente, quest’aspetto non è cambiato. Anche a Bologna, secondo me il sabato non bisognerebbe uscire e fare questo piccolo atto di eroismo. Cosa che io quasi sempre riesco a fare. Mi rendo conto che anche il mio giro di amici non ama molto uscire il sabato: lo lasciamo fare agli antieroi.

Perché? Cos’ha il sabato che non va?

Il sabato è una di quelle “feste” imposte, a cadenza settimanale ovviamente e quindi una festa minore ma sempre imposta. Il che già me lo rende meno divertente, perché fa apparire l’uscita come un obbligo. E poi scatena tutta una serie di comportamenti che sono tipici delle feste programmate. Accade in piccolo quello che succede a Capodanno o a Ferragosto: la gente si imbruttisce e incontri molti di quelle persone che durante la settimana non fanno nulla, sono frustrate e aspettano il sabato per sfogarsi. Ti imbatti in gente ubriaca, molesta, rissosa. E io ci sto male quando mi vedo in giro in un contesto del genere.

È ovvio che non capiti sempre ma la sensazione è quella proprio perché ci sono molte più persone in giro. Sì, un eroe dovrebbe uscire forse e fermarle. Ma l’eroe che intendo io è un eroe un po’ al contrario: casalingo. È meglio allora restare a casa ed evitare tutto ciò.

Considerate anche che il disco è stato scritto nella post adolescenza. Avevo vent’anni e per me il sabato era “ok, potrebbe succedere veramente qualcosa nella mia vita”… avevo un po’ la spinta a voler uscire ma anche il senso di colpa nel non farlo. Lo stesso senso di colpa che mi prende quando il 31 dicembre decido di non fare niente e restarmene a casa.

Come hai appena accennato tu, il disco è stato pubblicato dieci anni fa e torna ora sul mercato in una vesta del tutto nuova, a partire dalla copertina. Non c’è più il super eroe abbracciato a te ma semplicemente la tua chioma. Perché?

Perché in dieci anni le cose cambiano. Quella di dieci anni fa era una copertina i cui l’eroe, atipico, rappresentava una sorta di proiezione di me stesso. Adesso andava benissimo che ci fossi solo io… anche se nell’album non sono del tutto solo: è pieno di altri eroi che mi accompagnano.

https://www.instagram.com/p/CeQq6LjKAHy/

Altri eroi che nelle copertine dei vari singoli sono rappresentati nella stessa maniera.

Ognuno ha una propria illustrazione presente nell’artwork di ogni canzone. La copertina di dieci anni fa rappresentava con una foto un po’ surreale l’eroe – tutto sembrava tranne che un eroe! – e me con la faccia malinconica e triste. Quella di adesso invece ha come obiettivo quello di raccontare il disco quasi come fosse un film. Abbiamo utilizzato font e grana che ricordano un po’ i film degli anni Settanta. In un primo momento, addirittura, pensavamo anche a una sorta di locandina con tutti i volti illustrati degli artisti. L’ispirazione cinematografica è dovuta al fatto che le canzoni contengono comunque immagini che sono anche cinematografiche. E poi anche lo stesso titolo, Gli eroi non escono il sabato, starebbe benissimo anche a un film. I film sono e restano per me una fonte di supporto e di ispirazione.

Qual è il tuo film preferito?

Mulholland Drive di David Lynch. È un film che mi ha un po’ cambiato: probabilmente, non avrei fatto le cose come le faccio senza quel film. Mi ha aperto il mondo di Lynch e mi ha spinto verso altri autori come Bunuel, Nolan, Jodorowsky. Mi piace tutta quella scuola di pensiero quando confluisce in opere artistiche piuttosto che in aspetti un po’ più trascendentali, metafisi, quasi religiosi. Per me, Lynch sta al cinema come Battiato sta alla musica.

Era arrivato con la nuova release di Gli eroi non escono il sabato il momento di celebrarsi per te?

Non considero la riedizione di Gli eroi non escono il sabato come qualcosa di celebrativo o un epitaffio artistico. Tutt’altro. Per me, è una piccola festa che reputo propedeutica a quello che verrà di nuovo perché di cose nuove, a cui sto lavorando, ne verranno. Sono contento di essermi regalato questo momento nostalgico ma assolutamente felice. Non l’ho vissuto come “Ah, che belli che erano quei tempi”, anche perché non sono canzoni del Trecento. Dieci anni, in un mondo come il nostro, in cui si riesce a fare quello che ti piace di più ha senso festeggiarli. Io non ho mai festeggiato, per esempio, i compleanni o ricorrenze varie. Ma per una volta nella vita mi sono concesso di festeggiare qualcosa.

Al di là della concessione, il risultato è talmente “originale” da non somigliare per nulla alle celebrazioni che si fanno oggi, ai duetti alla moda…

Un tempo si facevano i “best of” o le “ultimate edition”. Io ho voluto invece rifare tutti i brani in maniera onesta, a risuonarli tutti. E la forza di questo lavoro sta proprio in questo: non ho ripreso il vecchio disco tale e quale com’era per aggiungere solo le altre voci.

Sarebbe stata un’operazione furba. E mi sembra di intuire che fosse lontana da te come idea.

Una delle mie preoccupazioni era proprio che non venisse interpretata come una cosa furba o autocelebrativa perché non lo era e non lo è. È una parentesi, una piccola festa: non saprei come altro descriverlo.

Ma anche un modo per entrare in sintonia con la generazione di coloro che dieci anni fa erano bambino e che oggi, paradossalmente, vivono le stesse problematiche. Penso ad esempio all’alienazione di cui si canta in Il colpo, rifatta con i La Rappresentante di Lista: non è forse uguale a quella che si vive oggi?

È anche questo che mi ha spinto a rifare il disco. Se avessi capito che le canzoni erano invecchiate male o che non avevano nulla da dire nel 2022, non l’avrei fatto. Penso anch’io che molte delle canzoni possano tranquillamente adattarsi a questi tempi, alcune hanno anche acquisito valore. L’augurio è che possano arrivare ai ragazzi che se le erano perse perché troppo piccoli, appunto.

Nicolò Carnesi.
Nicolò Carnesi.

Forma mentis, canzone che ripresenti in nuova veste con la complicità di Oratio, affronta un tema che oggi è diventato di estrema attualità: i social network che finiscono per costruire ponti per la stupidità.

Ho sempre avuto l’idea che i social network e il modello da loro imposto non funzioni. Si conducono lotte e battaglie che non vengono mai approfondite: le piattaforme non permettono di farlo. Ai tempi in cui l’ho scritta pensavo a Facebook, allora agli arbori. Io la definisco la mia canzone del disincanto, quella in cui per la prima volta, guardandomi intorno, ho trovato un sacco di vuoto, di fuffa, di superficialità.

Anch’io sono convinto che si debba lottare in nome degli ideali, dei diritti, dell’uguaglianza e dell’eguaglianza, ma che lo si debba fare in maniera sensata e approfondita. Ogni battaglia ha anche dei risvolti negativi e non tutte le battaglie all’interno di una guerra sono giuste. Già la terminologia bellica, guerra e battaglie, potrebbe cambiare: mi fa schifo. Si potrebbe cominciare da questo per ricercare l’uguaglianza tra gli esseri umani, senza alcuna distinzione.

In Gli eroi non escono il sabato si parla molto di donne. Sono presenti anche due figure letterarie molto forti: Medusa in Medusa con Gli Stato Sociale e Penelope in Penelope, spara! con Dimartino. Entrambe sono legate alla tradizione classica.

Guardandomi indietro, ero bravissimo a trasformare le mie esperienze personali in mitologiche visto che comunque rimanevano… mitologiche! Per quanto mi riguarda, ero il maestro dell’innamoramento a distanza e del senso di colpa, del pentimento di non aver dato una svolta o del non aver fatto abbastanza. Ho sfruttato la mitologia per raccontare qualcosa di personale.

Quelle due canzoni sono nate proprio da una sofferenza sentimentale. La cosa divertente è che dieci anni fa non l’avrei mai detto: mi vergognavo da morire, avevo paura di esprimermi al di là della metafora. Ora che sono cresciuto, mi viene più facile dire che molte canzoni nascono dall’amore e, spesso, sono anche canzoni buone proprio perché il sentimento che le ha generate era forte. Medusa e Penelope, spara! sono tra le due canzoni venute meglio di questa riedizione del disco, segno che rimane sempre quel fuoco, non si spegne mai.

Personalmente, un’altra canzone che mi sembra venuta meglio e che mi ha dato una percezione diversa rispetto alla versione del 2012 è Mi sono perso a Zanzibar con Brunori Sas.

Generalmente, ho l’impressione che il disco sia venuto bene. Ho optato per un approccio molto leggero e ogni canzone è suonata senza troppi ragionamenti mentali o riarrangiamenti strani dietro. Suoniamo tutti come suoneremmo oggi in un concerto. È un po’ come “Andiamo insieme sul palco e vediamo cosa ne esce fuori”. Mi sono perso a Zanzibar è in effetti esattamente come ho cominciata a suonarla dal vivo nel corso degli anni. Il tempo mi ha permesso di metabolizzarla e di cambiarla. È una di quelle canzoni che di concerto in concerto ha subito più variazioni ma quella incisa è la stessa che ho suonato dal vivo fino a settembre dell’anno scorso.

È una canzone che si adatta benissimo ai tempi che viviamo: parla di un luogo che in realtà non esiste geograficamente. Zanzibar si rifà alle nostre peregrinazioni, a quelle che l’umanità porta avanti da Ulisse in poi. Siamo tutti in cerca del nostro luogo ideale: tu hai trovato il tuo?

Il luogo ideale non è solo un luogo. È un meta-luogo dove all’interno c’è umanità e c’è una sorta di anima risolta. Il luogo ideale è il posto in cui stai bene e sei discretamente felice. Io ancora non ho trovato la mia Zanzibar. Ci sto provando… forse è per questo che continuo a scrivere canzoni: ci sono momento in cui ancora mi sento probabilmente in alto mare. Continuo a navigare nell’attesa che si affaccia una bella isola, la mia Itaca tanto per citare una poesia di Konstantinos Kavafis che be restituisce il senso del testo di Zanzibar.

Continui a scrivere molto. Quindi, non è vero che hai poca fantasia, tanto per citare la canzone che hai rifatto con Appino, il frontman degli Zen Circus. Forse ne hai poca quando cercano di incasellarti con un tormentone.

Non riesco a scrivere bene quando qualcosa mi sta stretta. Quando invece devo raccontare qualcosa che ho visto o vissuto in prima persona e che fa quindi parte di me, scaturisce sempre la fiamma dell’idea o dell’ispirazione.

C’è una canzone del disco, Kinder Cereali all’amianto, ricantata con Fast Animals and Slow Kids, che parla proprio del disincanto segnato dalla fine dell’adolescenza.

È nata nel periodo dei primi anni all’università. È l’ultima di quelle che io chiamo adolescenziali o in cui affronto il tema adolescenza. Chiaramente, lo faccio sempre a modo mio, ricorrendo alla metafora del dolcetto tossico. Parla di un rapporto ancora vagamente immaturo, che non funziona perché è figlio di qualcosa che sta finendo, di una visione del mondo che non dura per sempre e che dopo un anno non ci sarà più. Parla proprio del cambiamento personale, dalla trasformazione da ragazzo a uomo, anche se ancora non so se è del tutto avvenuta.

Io sono del parere che siamo sempre in continua evoluzione.

È bello non essere mai uguali a se stessi. Chi ci rimane uguale molto spesso vive in maniera anche frustrata. Devi necessariamente cambiare opinioni, prospettive, modi e cose da fare. In questo, fare dischi si rivela molto ultime: ti mette a confronto con te stesso e con quello che sai fare. Ogni volta, cambia la percezione che ho del mondo e di me stesso. E alla fine mi fa bene: mi mantiene giovane!

Nicolò Carnesi.
Nicolò Carnesi.

A proposito di adolescenza, sei cresciuto in un paesino che non era di certo come Brooklyn o Soho. Com’è stata l’adolescenza a Villafrati, un piccolo comune alle porte di Palermo?

Sono stati anni abbastanza tranquilli. Ero un ragazzo timido che aveva un po di difficoltà ad ambientarsi nella struttura sociale e culturale del Paese: ero proprio “diverso”. Ma, nonostante ciò, non ero del tutto isolato. La cosa interessante di Villafrati è che la musica piace. I miei coetanei, più o meno quasi tutti, suonavano o facevano parte della banda. Ciò mi ha permesso di avere un approccio anche sociale, che man mano poi è cresciuto. Ero sempre quello strano per il Paese, ma a un certo punto, lo sono diventato per davvero. Ho vissuto il mio momento di ribellione adolescenziale e ho avvertito il disagio. Non lo vivevo tanto bene, anche perché non mi sentivo giudicato. E, paradossalmente, facevo di tutto per farmi giudicare. Forse anche con un po’ di ironico divertimento.

A un certo punto me ne sono andato e ho cominciato a fare il musicista a tempo pieno. Quando sono tornato, le cose erano cambiate. Certo, eravamo anche tutti più adulti ma molte persone mi apprezzavano quello che facevo. Mi hanno anche organizzato un concerto aperto tutti: è come se avessi ricevuto l’abbraccio di tutto il paese. È stato bellissimo: è una delle mie storie a lieto fine.

Oggi sono quasi sempre molto felice quando torno a Villafrati. Ci sto bene. Le persone sono quelle di una volta, gentili e genuine, e ho ancora lì tanti amici, quelli storici, con cui mi trovo benissimo. Devo molto al paese: se non avessi vissuto lì, non sarei quello che sono oggi. Anche se poi, fondamentalmente, è stata Palermo la città in cui ho mosso i miei primi veri passi artistici (ho conosciuto lì tanti musicisti in gamba, più affini al mio spirito), è stato il contesto del paese a darmi motivi per cui sfogarmi, a nutrire la mia indole artistica e a spingermi a scrivere le prime cose. Penso che sia stata una fortuna abitare in un paesino.

I tuoi genitori ti volevano ingegnere, come canti nella canzone Divento ingegnere con Cimini?

No, no. I miei genitori mi sono sempre stati vicini. Mi hanno sempre aiutato e hanno creduto in me. Sono stati e sono tuttora incredibili. Quella della canzone era una provocazione: “tutti vogliono il figlio ingegnere, ai miei va bene il musicista… ci scrivo sopra una canzone al contrario”. Quella più pragmatica ai tempi era mia nonna, che mi diceva di prendere una laurea, di fare l’avvocato o l’ingegnere: forse un po’ mi ha influenzato. Alla fine, anche mia nonna ha accettato che volessi fare il musicista, mi segue ed è anche venuta, a ottant’anni e passa, a qualche concerto Ai Candelai, storico locale di Palermo. Ovviamente, spera di vedermi a Sanremo! Se un giorno dovessi andare, lo farei solo per lei.

Il Festival di Sanremo è talmente cambiato negli ultimi anni che partecipare non sarebbe deleterio.

Non è deleterio ma sarebbe una bella botta. Comporta una settimana di sovraesposizione. Non si tratta solo di fare musica: si finisce nel calderone del nazionalpopolare, nel senso buono del termine. È un po’ come giocare d’azzardo: basta una semplice mossa falsa, qualcosa che non puoi controllare, che diventi un meme per l’eternità. È questa la cosa che mi spaventa tanto: ci metti una vita a costruire una carriera e basterebbe poco per distruggerla.

Di natura sono molto riservato e non sono portato per determinate cose: uso poco anche i social, se non per raccontare quella che è la mia storia musicale o promuovere qualcosa. Non mi è mai piaciuta l’esposizione e ne sono sempre scappato perché ha poco a che fare con quello che faccio. Sono un musicista, non un uomo di spettacolo: non ho nulla a che fare con le telecamere.

Però… allo stesso tempo, Sanremo è cambiato tantissimo. Ha aperto negli ultimi anni le porte anche alla musica alternativa e a punti di vista diversi. Questo è il lato interessante che spinge qualcuno a parteciparvi: vale la pena correre il rischio, ti potrebbe premiare. La tua musica, quello che ti piace fare, arriverebbe a tante persone in più. Non potrebbe che essere un bene. Come ogni cosa, ci sono dei pro e dei contro.

Sanremo potrebbe essere comunque anche un’esperienza divertente, una di quelle che, per citare Wallace, non faresti mai più. Non so come potrei viverla, se riuscirei a viverla con l’ironia con cui vivo la maggior parte delle cose: il peso dell’errore potrebbe schiacciarmi.

Nicolò Carnesi.
Nicolò Carnesi.

Se avessi tra le mani una Moleskine del passato, la stessa di cui canti nell’omonima canzone con Gregorio Sanchez, cosa vorresti che ci fosse scritto?

Ma la Moleskine oggi è un po’ anacronistica. Non vedo più molti giovani con la Moleskine, hanno semmai gli smartphone.

Le Moleskine sono state oggi sostituite dai social e dalle frasi ad effetto che scriviamo sui social o dalle foto che postiamo su Instagram. Quindi, i temi dalla canzone restano contemporanei.

Infatti. È l’oggetto che è invecchiato male ma il senso della canzone resta tale. Oggi si potrebbe chiamare Instagram quella canzone. Anzi, potevo pure farlo! La tematica rimane attuale ma è il mezzo che è cambiato. Ritornando alla Moleskine del passato, non ti so rispondere: non ne ho mai avuta una. Osservavo gli altri quando ho scritto la canzone. Non ho mai avuto un diario dove appuntare le cose e non ho mai pensato di scrivere qualcosa per il mezzo puro piuttosto l’ho fatto con le canzoni.

È strano: uno che scrive canzoni ha solitamente l’abitudine di appuntare ovunque quello che gli passa per la testa.

A me rimane tutto in testa. La mia mente accumula percezioni che poi scrivo direttamente in una canzone. Non mi appartiene quel metodo per cui appunti tutto per poi tornare a lavorarci sopra. Tutto resta nella mia testa: anche perché sono più sensazioni che parole.

Complimenti, io non ricordo nemmeno cosa ho mangiato a colazione.

Io, invece, ho una buona memoria, soprattutto per i fatti e le cose che accadono. Non ce l’ho per i nomi, per i compleanni o per le date… ma per i fatti sì. A volte rido perché, come dicono gli amici, è spaventoso come mi ricordi dettagli di cose di dieci o quindici anni prima.

Chiudi l’album con Mr Robinson, con Max Collini e Donato. Il riferimento è all’ipotetico marito della signora Robinson della canzone di Simon & Garfunkel, pezzo portante della colonna sonora del film Il laureato con Dustin Hoffman. In una vecchia intervista, raccontavi che ti piacerebbe scrivere una colonna sonora.

Mi piacerebbe ancora. Non c’è niente all’orizzonte ma se dovesse capitare mi piacerebbe cimentarmi nell’impresa. Unirei così le mie due passioni: il cinema ha accompagnato la mia vita tanto quanto la musica. Anzi, colgo l’occasione per lanciare un appello: se qualcuno ha bisogno di una colonna sonora, sono qui! Ho un sacco di idee buttate giù nel corso degli anni e mi piacerebbe mettermi alla prova. Mi piacerebbe rendere coerenti immagini, storia e suoni. Negli ultimi anni ho apprezzato tantissimo la colonna sonora di Joker, realizzata dalla musicista islandese Hildur Guðnadóttir: è perfetta con il suo minimalismo per raccontare la caduta verso la follia del protagonista.

Nicolò Carnesi.
Nicolò Carnesi.
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