La giovane attrice Nina Nicastri, con la sua straordinaria interpretazione nel cortometraggio Sette settimane, ci accompagna in un racconto che tocca corde delicate e talvolta taciute. Attraverso le sue parole, emerge non solo la forza e la vulnerabilità della protagonista, Luna, ma anche la complessità di un tema ancora troppo spesso avvolto da pregiudizi e silenzi: l’aborto.
L'intervista che segue ci porta in un viaggio emozionale intenso e profondo, dove il confine tra vita reale e finzione si dissolve per lasciare spazio alla verità interiore di una giovane donna. In questo dialogo, Nina Nicastri ci apre il cuore, condividendo il peso emotivo e le sfide personali che ha dovuto affrontare per immergersi in un ruolo così impegnativo. La sua esperienza sul set, così intrisa di immedesimazione, riflette una consapevolezza maturata non solo attraverso la recitazione, ma anche grazie all'incontro con una storia vera, toccante e profondamente umana.
È attraverso il suo sguardo che riusciamo a comprendere quanto la decisione di interrompere una gravidanza non sia mai semplice, e quanto sia fondamentale affrontare ogni scelta con il rispetto e la dignità che ogni donna merita.
L’intervista non è solo una finestra sul mondo del cinema, ma un invito a riflettere su temi di grande rilevanza sociale e personale. È un'occasione per esplorare, con sensibilità e introspezione, i dilemmi e le paure che accompagnano una decisione tanto importante quanto dolorosa, e per riconoscere il coraggio di chi, come Nina Nicastri, sceglie di mettersi in gioco per raccontare la realtà senza filtri, dando voce a chi spesso rimane in silenzio.
LEGGI ANCHE: SETTE SETTIMANE, IL TEASER TRAILER
Intervista esclusiva a Nina Nicastri
“Luna è una giovane ragazza che affronta una terribile vicissitudine: è rimasta incinta e lui è scomparso del tutto (a parte le telefonate, non si vede mai ed è stata una scelta ben precisa del regista che ho condiviso in toto)”, ci risponde Nina Nicastri quando le chiediamo di raccontarci chi è la protagonista del cortometraggio Sette settimane, il cui teaser è stato presentato nell’ambito del Festival di Venezia.
“Ha già affrontato molto nella vita, è una gran lavoratrice e, una volta scoperta la gravidanza, incontra una ginecologa per capire che percorso seguire. Fino alla fine sarà indecisa sul da farsi: da un lato, vorrebbe tenere il bambino ma, dall’altro lato, sa che esistono molti fattori, anche sociali, che le impediscono di farlo, dalle questioni economiche al crescerlo senza un padre”.
“Luna ha un grandissimo istinto materno ma non potrebbe mai crescere un figlio senza il sostegno di cui ha bisogno. Scoperta la gravidanza, perde anche il posto di lavoro: il capo del supermercato in cui fa la cassiera la licenzia e non sa materialmente come andare avanti. Come spesso accade alle donne, si è lasciate sole ad affrontare quello che sarà”.
Da donna, è stato difficile trattare un argomento così personale e complicato?
Difficilissimo, perché fin quando non ti ritrovi a vivere la situazione non la comprendi fino in fondo. Ho avuto la fortuna di confrontarmi con la ragazza la cui storia vera, straziante ma bellissima, ha fatto da sfondo al cortometraggio: è stato ascoltando le sue parole che ho capito cosa c’era in ballo, tanto che mentre giravamo l’immedesimazione è stata tale che avvertivo ogni cosa come accaduta a me.
In Italia, l’interruzione volontaria di gravidanza rimane un tabù: sì, abbiamo la legge 104 che concede a una donna la possibilità di sottoporsi ad aborto ma in condizioni che rimangono critiche, soprattutto a livello psicologico per le tante pressioni che piovono su di noi… è evidente anche dal fatto che ognuno ha quasi paura di dire la propria sull’argomento, dimenticando quali possano essere le scelte che portano una donna a voler troncare una vita sul nascere.
L’aborto non è un gioco e come tale non deve essere preso, anche se (come mostriamo nel cortometraggio) per molte ragazze sembra quasi esserlo diventato: occorrono accertamenti ma anche sedute psicologiche che guidino verso la scelta. Ma l’importante è che ogni donna abbia la libertà di farla quella scelta, di decidere cosa fare del proprio corpo e della propria esistenza.
LEGGI ANCHE - Sport e disabilità: la storia di Arturo Mariani, fondatore della Roma Calcio Amputati
Quanta delicatezza ha avuto il regista, uomo, nell’affrontare il tema?
Enrico Acciani, mio grande amico, è una persona molto professionale, oltre che un grandissimo regista che farà tanta strada. Ha raccontato la storia di Luna in maniera molto delicata, come se lo avesse fatto una donna. Abbiamo scritto insieme il soggetto, ha poi lui curato la sceneggiatura e la regia ma è sempre stato affiancato da donne. Ma ha già di suo una delicatezza e una sensibilità molto spiccate, che gli hanno permesso di captare dalle donne che lo hanno circondato ciò che serviva.
Sette settimane: Le foto
1 / 13Lavorando anche come dj (Nina Enne), credi che il popolo della notte abbia la giusta consapevolezza di cosa sia l’aborto?
Attraverso quel mio lavoro, vedo in giro tanta ingenuità ma soprattutto tanta ignoranza sulla questione. Tanti dei ragazzi e delle ragazze che vengono alle mie serate cercano comunque divertimento senza pensare alle conseguenze che potrebbero arrivare e di cui non hanno abbastanza consapevolezza. È la mancanza di questa, l’ignoranza, che ti porta a commettere poi gesti che si rivelano errori… Purtroppo, vedo molta superficialità e tanta insicurezza, anche per via della mancanza della corretta educazione sessuale nelle scuole.
Reputo ad esempio che sia fondamentale farla e non mi capacito del fatto che in molti istituti non ci siano figure predisposte a impartirla: per un o un’adolescente non è facile parlare di sesso con i genitori, i coetanei ne sanno ancora meno e le uniche informazioni che hanno sono quelle che reperiscono su internet, ammesso che le cerchino.
Quando eri adolescente sapevi cosa fosse l’aborto?
In modo molto generico, sapevo cosa significava la parola ma non c’è mai stato nessuno che mi ha spiegato cosa comportasse o quanta sofferenza si potesse portare dietro. Scegliere di abortire non è uno scherzo o qualcosa che si fa a cuor leggero, è semmai una decisione sofferta che il più delle volte cambia la vita irreversibilmente.
Quando hai capito cosa comportava?
Quando è capitato che una mia amica dovesse ricorrervi, le sono stata accanto e mi sono informata su cosa sarebbe accaduto dopo. Ho sentito allora la necessità di documentarmi e di capire, tanto che quando Enrico mi ha chiamata per questo cortometraggio non ho avuto dubbi nel dire di sì. Anche perché non è che in Italia ci siano tanti prodotti che parlino dell’argomento, a differenza di ciò che accade all’estero: in Spagna, non si contano i film, i cortometraggi o le serie che affrontano la questione. Da noi, invece, è come se si avesse paura nell’affrontarla.
Non ne parlavi nemmeno con tua madre?
Eh, no, nonostante io abbia avuto con i miei genitori un rapporto di grandissima apertura. Sono pugliese, provengo da una grande famiglia del sud molto attaccata alle origini e alle tradizioni ma ho sempre avuto la possibilità di parlare con i miei, soprattutto con mia madre, di tutto, anche del sesso ma senza mai scendere troppo nello specifico. Ragione per cui non abbiamo mai affrontato la questione ‘aborto’ e per cui, torno a ripetere, occorrerebbe qualcuno predisposto a scuola a spiegare cosa sia…
LEGGI ANCHE - Chiara Francini: “Non esiste la regola perfetta per essere felici in amore” – intervista esclusiva
Data la molta comunicazione, non deve essere stato complicato dire ai tuoi che volevi far l’attrice.
Ho avuto un percorso molto particolare. Non nasco come attrice ma come ballerina: mi sono diplomata al MAS e nella mia vita, da quando avevo tre anni, ho sempre ballato. Tuttavia, dopo il diploma, non mi sentivo a mio agio in quel campo: non mi piaceva come funzionasse il mondo della danza in Italia e in molti mi suggerivano di andare all’estero quando io invece non volevo farlo: volevo rimanere qui, vicino ai miei genitori…
Per un caso fortuito, sono stata poi scelta come attrice per un film in Puglia: avevo studiato anche recitazione in accademia, non ero proprio una novellina e il lungometraggio era sulla danza. È stato su quel set che ho scoperto la magia della recitazione, maturando il desiderio di voler da quel momento in poi lavorare solo come attrice.
Avevo 24 anni quando ho detto a mia madre che avrei smesso con la danza, ciò che avevo sempre fatto e che un po’ rappresentava anche il suo sogno dal momento che da giovane anche lei desiderava diventare ballerina. Non ho trovato da parte dei miei alcun ostacolo: mi hanno sempre sostenuta in tutto ciò che desideravo fare.
Eppure, prima di quel film, avevi preso parte anche a dei videoclip musicali.
Sì, ma venivo scelta in quanto ballerina o semplicemente come comparsa per un’inquadratura. Recitare è qualcosa di completamente diverso…
Ballerina, dj e attrice. Cosa rappresentano per te danza, musica e recitazione?
Non ballo da tantissimo ma quando vado a vedere spettacoli di danza piango per le emozioni che mi suscitano: la danza è pur sempre stato il mio primo grande amore, in grado di darmi libertà e felicità. Da piccola, quando sentivo la necessità di sfogarmi o stavo male, mi mettevo davanti a uno specchio e ballavo tutto il giorno: era liberatorio farlo.
La musica, invece, è divertimento. Mi diverto tantissimo quando suono: ovviamente c’è dietro tanta ricerca e tanto lavoro ma mi sento felice e divertita nel flow della musica.
LEGGI ANCHE - Agustina Souberan e l’arte come strumento per conoscere se stessi
La recitazione va oltre il ballo e la musica. Non vorrei essere banale ma l’aspetto più bello è l’immedesimazione: è come se si avessero altre vite a disposizione al di là della propria che ti permettono di scoprire anche aspetti di te stessa che non conoscevi o cosa vuol dire essere qualcuno di diverso da te. Sul set di Sette settimane, ero Luna in tutto e per tutto, ritornavo a essere Nina solo quando tornavo a casa… ed era liberatorio: l’immedesimazione ti permette di fare appello anche alle tue vicissitudini e di liberare anche i propri demoni personali!
Il lavoro da dj per le donne non è proprio una passeggiata. Come ti hanno accolta, quando hai iniziato, colleghi e pubblico?
Ho imparato a suonare durante la pandemia da CoVid. Senza aver fatto alcuna gavetta, quando sono terminate le restrizioni, sono subito stata chiamata a farlo in club pugliesi, anche molto importanti. E lo facevano prettamente perché ero una donna: non eravamo all’epoca in tante a farlo mentre oggi oserei dire che sono più le dj che i dj…
La figura ‘alternativa’ alla consolle attirava molto e il pubblico reagiva favorevolmente, anche se la maggior parte degli uomini veniva (e accade tutt’oggi) non per ascoltare musica ma per porsi di fronte a me e fissarmi, come se non avessero mai visto una donna in vita loro. Sguardi e smartphone puntati addosso tutto il tempo: come ha fatto notare anche Bob Sinclair, nelle discoteche e nei club non si balla più ma si fanno video…
Essere accolta dai colleghi e dall’ambiente in generale non è stato semplice. Mi si cercava principalmente per la mia fisicità: propongo oggi musica elettronica ma all’epoca suonavo la techno in locali dove solitamente si metteva reggaeton o commerciali… non interessava la mia proposta, a loro bastava che andassi. E, puntualmente, mi trovavo a rifiutare lavori e serate in cui la mia presenza era dettata da fattori non artistici. Essere lì in quanto ‘femmina’ per me era pura follia.
Al di là dei cascamorti che esistono in ogni ambiente, ho dovuto affrontare un mondo molto maschilista ed è stato difficile acquisire credibilità e farsi strada in mezzo a una marea di uomini con la pretesa di saper fare il lavoro meglio di me. Ancora oggi, in molti pensano che alla consolle io finga e che sia lì solo in quanto bella presenza… non hanno capito che per continuare a lavorare ho dovuto dimostrare di saper suonare, mettere a tempo delle tracce, mixarle e avere molto orecchio e gusto musicale. Però, dai, ce l’ho fatta!