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“Ciò che si sogna da bambini spesso si realizza”: Intervista esclusiva a Noemi Gherrero

Tra i protagonisti del film Vecchie canaglie, c’è Noemi Gherrero, attrice e presentatrice di un programma di successo di Rai 3. L’abbiamo incontrata per un’intervista senza filtri, in cui con schiettezza parla del suo passato, della sua visione del mondo e di quel libro che le ha cambiato la vita.

Noemi Gherrero è tra i protagonisti della commedia Vecchie canaglie, in uscita al cinema il 5 maggio grazie a Orange Media. Diretto dall’esordiente Chiara Sani, Vecchie canaglie racconta l’energia di un gruppo di sei vecchietti, capitanati da Lino Banfi, chiamati a proteggere la piccola casa di riposa di cui sono ospiti. Con una reazione, inaspettata e inattesa, affronteranno situazioni ai limiti della legalità e pericolose. Ma, soprattutto, si riscopriranno più vitali che mai.

“Da molto tempo avevo in mente una sorta di fiaba in stile comedy, in cui un gruppo di vecchietti rompe gli schemi e si ribella ad una vita piatta e priva di stimoli all’interno di un ospizio.  Vecchie Canaglie trasforma i suoi protagonisti, vulnerabili e teneri vecchietti, in una banda pronta a tutto per riconquistare la propria dignità. Penso che la vita sia proprio così: anche nelle esperienze che ci mettono a dura prova, esistono gli strumenti per sdrammatizzare, per cambiare prospettiva, scoprire i veri amici e trovare soluzioni geniali”, ha dichiarato la regista Chiara Sani.

Nel popolato cast di Vecchie canaglie, oltre a Banfi, Gherrero e la stessa Chiara Sani, recitano mostri sacri come Pippo Santonastaso, Andy Luotto, Andrea Roncato, Gianni Fantoni e Greg. Noemi Gherrero interpreta Martina ed è al suo primo ruolo importante in un film uscito nelle sale. Ha preso però parte ad altri progetti che non hanno ancora visto la luce del cinema e a serie tv cult come I bastardi di Pizzo Falcone o Mare Fuori. Con la sua garbatezza, inoltre, entra nelle case di tutti gli italiani la domenica mattina, grazie al programma di Rai 3 Le parole per dirlo.

Ma Noemi Gherrero è una di quelle donne che vi auguriamo di incontrare almeno una volta nella vostra vita. Sa quello che vuole e sa come ottenerlo, con sacrificio, dedizione e impegno, ma senza perdere mai di vista le battaglie e le lotte che in prima persona ha combattuto.

La storia di Noemi Gherrero è particolare. Il suo destino, molto probabilmente, era scritto sin da quando bambina indossava le gonne della mamma come parrucca per interpretare quei personaggi delle favole che la facevano sentire meno sola. Ma, come in tutte le favole che si rispettino, ha anche incontrato la strada cattiva, una strega che non ti offre la mela ma che, anzi, ti invita a non mangiarla. L’anoressia ha inevitabilmente segnato il suo percorso ma ha trovato il modo di reagire, di rielaborare quanto le era successo e dargli un senso.

Molto banalmente si potrebbe parlare di rinascita. E quella rinascita passata dal cognome d’arte che si è scelta, dall’essere una guerriera indomita che, alle spade e agli archi, ha preferito il sorriso e la dedizione verso un lavoro che l’ha portata nel mondo del cinema, della serialità e della televisione. Noemi Gherrero non ha paura di dire quello che pensa, sa quanto peso hanno le parole e i loro significati. Proprio per questo, incontrarla è come una lezione di vita, da conservare e custodire gelosamente.

Intervista esclusiva a Noemi Gherrero

Sei tra i protagonisti di Vecchie canaglie, il film di Chiara Sani in uscita al cinema il prossimo 5 maggio. Di cosa racconta?

Vecchie canaglie è un film che abbiamo girato nell’ottobre 2020. Finalmente vede la luce nelle sale, dopo due anni caratterizzati da pandemia, distribuzioni che, quando sono legate al cinema indipendente, sono sempre un grande punto interrogativo e guerra. Siamo fortunati e sono contenta, personalmente, che possa vedersi: ho fatto negli anni tantissima roba come attrice ma molti dei film girati non sono mai usciti. Dunque, per me è già una grande soddisfazione!

Vecchie canaglie è un film molto cartoon, una commedia grottesca molto su con i toni. È molto caratterista, tutti i personaggi sono come saltati fuori, se non dai fumetti, dai cartoni animati. Chiara Sani, la regista, ha disegnato di mano sua la storia e si è ispirata a vari personaggi del cinema.

La storia riprende molto del cinema classico americano, molto Cocoon. Il film si regge su personaggi che sembrano schizzati fuori dalla matita di qualche abile disegnatore e che, per tutta la durata del tempo, saranno volutamente sopra le righe, molto esasperati anche nella recitazione. Vecchie canaglie non è un film naturalistico, non ha una recitazione molto veritiera: siamo tutti delle piccole caricature di noi stessi.

Il mio personaggio, Martina, è un’infermiera che si ispira molto a Goldie Hawn in Fiore di cactus, film che le fece vincere un Oscar come miglior attrice protagonista. È una donna molto, molto ingenua, trasognante, sognatrice. La vedi sempre con questi occhioni grandi, sempre emozionati. È una che non riconosce neanche l’amore, una che volutamente resta acerba. È molto presente nella prima parte del film ma a un certo punto, nel momento in cui le cose per i vecchietti si sistemano, quasi scompare. Non ha una grande evoluzione, rimane molto lontana dai personaggi che ho interpretato finora.

Mi sono divertita proprio perché è un personaggio molto diverso da me. Ho lavorato molto sul personaggio con la regista, Chiara, a partire dalla voce. In una delle scene, Martina canta anche la canzone di Biancaneve e i sette nani: perderò quel poco di reputazione che ho conquistato! (ride, ndr). È stato molto divertente e mi ha permesso di comprendere meglio il mestiere dell’attore da un punto di vista di gioco, di rimessa in discussione dei propri limiti e delle proprie vergogne. Mettersi a cantare davanti a quaranta persone con la voce stridula è stato molto, molto divertente. Peggio di fare una scena di nudo!

Per me, Vecchie canaglie è un po’ come se fosse il mio film d’esordio. Non è il primo film che faccio ma lo considero quasi tale perché ha un cast importante, ha una buona distribuzione e mi ha permesso di scoprire lati inediti di me. Ripeto, è stato un lavoro diverso dal solito ma non mi è risultato nemmeno troppo faticoso. Proprio perché resta un po’ smorzato, il personaggio di Martina mi ha dato la possibilità, al di là delle indicazioni registiche, di far passare anche qualcosa di me. gli occhioni grandi, sempre emozionati, dicono molto di me.

Noemi Gherrero in Vecchie canaglie.
Noemi Gherrero in Vecchie canaglie.

Vecchie canaglie segna il ritorno al cinema di un mostro sacro della commedia come Lino Banfi in un ruolo da protagonista. È un evento vero e proprio considerando che negli ultimi anni si è risparmiato tantissimo.

Lino Banfi è il protagonista, insieme a Pippo Santonastaso. Sono entrambi fantastici. Mi sono molto affezionata a Pippo, in particolare, proprio dal punto di vista umano. Se Banfi è il nonno d’Italia, Pippo è stato veramente il nostro nonnino sul set, ci coccolava tantissimo e ci ha fatto molto ridere e divertire.

Avere di fronte coloro che hanno sostenuto e che hanno fatto la storia del cinema e della televisione, almeno quella più popolare, è stata una bellissima esperienza.

Com’è essere diretti da una regista esordiente? Chiara Sani ha alle spalle una carriera di comica e attrice molto lunga. La ricordiamo come inviata di Forum o come imitatrice a Striscia la notizia. Ma Vecchie canaglie rappresenta la sua prima volta dietro la macchina da presa.

È stata una grande operazione sperimentale per tutti. Chiara è stata intelligente, si è affiancata a quel grandissimo direttore della fotografia che è Blasco Giurato con alle spalle un centinaio di film. Era molto aiutata e sostenuta dal punto di vista tecnico ma non è un demerito: l’esperienza si conquista sul campo. Da un punto di vista di idee, creatività, genialità ma soprattutto sentimento, è stato invece tutto costruito da lei: ha impiegato sette, otto anni per realizzarlo. Ha curato la sceneggiatura, ha fatto i disegni e ha realizzato gli storyboard. Non le manca niente.

È stato anche bello sentirsi con lei a tu per tu. Ho conosciuto molti registi di opere prime che si sentivano già il Paolo Sorrentino di turno. Chiara, invece, è una professionista molto umile e molto simpatica. Uscivamo insieme la sera ma il giorno dopo eravamo tutti regolari sul set. È stata anche un’amica, una persona con cui si sta bene insieme.

Hai trovato delle differenze nella regia rispetto a quando sei stata diretta da un uomo?

No, ma perché ero stata diretta per un altro film importante non ancora uscita da un’altra donna.

E Mare fuori, la serie tv cult a cui hai preso parte, non era diretta da un uomo?

In Mare fuori dietro la macchina da presa c’era un uomo, Carmine Elia, un regista abbastanza noto. Ma, quando lavori in una serialità e hai un piccolo ruolo, ti senti un po’ come l’ultima ruota del carro. Avevo una scena molto tosta, dovevo sedurre il protagonista, Filippo. È incredibile come la gente si ricordi di me per quello. Sarà perché la scena è venuta fuori bene e, soprattutto, come interessava a me, in maniera non volgare.

Anche se poi su quella sequenza è stato costruito un mondo, è poi il lato brutto del nostro lavoro di attori. Basta che giri una mezza posa in topless che la gente ti spamma nei peggiori siti porno o roba del genere.  Mi è servito un po’ da insegnamento. Erano gli anni in cui cercavo una possibilità per emergere, ricordo che firmai il contratto senza sapere nemmeno che avrei girato a seno nudo.

Ecco, forse da questo punto di vista, una donna avrebbe potuto raccontare la stessa crudità senza metterci necessariamente le tette, detto molto banalmente.

Noemi Gherrero in Vecchie canaglie.
Noemi Gherrero in Vecchie canaglie.

Quando hai scoperto in te la passione per la recitazione?

Penso da bambina. Ho una sorella più piccola di dieci anni, con cui ci siamo considerate per molto tempo come due figlie uniche. Quando cresci in una periferia con i genitori che lavorano entrambi, spesso sei portato a inventarti le cose, a giocare da solo, a inventarti personaggi… io l’ho sempre fatto, ho avuto sempre questa peculiarità. Mi piace anche molto scrivere e giocare con la trasformazione fisica. Mettevo una gonna lunga nera, una di quelle vecchie con le molle, di mia madre in testa e per me si trasformava nei miei capelli neri. Con un’altra rossa, invece, mi trasformavo in Ariel del film Disney La sirenetta. Sono cresciuta un po’ così!

Poi, però, non ho inseguito il mestiere di attrice. È arrivato un po’ per caso. Mi sono laureata in Relazioni Internazionali e Diplomatiche perché volevo fare tutt’altro tipo di percorso. Anche perché, a un certo punto della mia vita, tra l’anoressia e tutto, ho rifiutato molto la corporeità. E, quando rifiuti la corporeità, rifiuti non solo una parte di te ma anche l’azione, l’agire. Senza corpo, non puoi sostenere l’azione fisica e pratica. L’attore, invece, sa usare e giocare molto con il proprio corpo.

Sono uscita dall’anoressia, è morto mio padre e ho fatto tutta una serie di cose quando, facendo un provino per la strada, sono stata presa per un musical. Da lì, si è riaccesa un po’ la fantasia. È diventata quasi un’ossessione, pensando che quello di attrice fosse il lavoro della mia vita. Per i primi anni, non sapevo nemmeno con chi parlare, non avevo le spalle coperte da nessuno e non c’era una figura che mi guidasse o consigliasse.

Quando noi scriviamo da piccoli e immaginiamo cose, in un certo senso le prevediamo. Molte cose sono andate come io immaginavo da bambina. Non mi aspettavo la televisione, onestamente: mi sono vista sempre interprete e non conduttrice.

In psicologia, si parla di profezie che si autoavverano. È un po’ come se fossimo maghi del nostro stesso futuro.

Io credo moltissimo in queste cose. C’è un libro che ha segnato la mia vita, Il codice dell’anima di James Hillman, un grandissimo psicoterapeuta che lavorava molto su contenuti jungiani. Se si legge quel libro, se si è appassionati di biografie, si rintracciano nelle vite di quelli che sono diventati dei grandi, che hanno fatto bene o che hanno fatto male, delle dedizioni.

Molto spesso accade da bambini ma non è detto. Possono esserci dei blocchi e può accadere anche dopo. Ma noi non possiamo essere non abbiamo immaginato di essere. Se non ti vedi in qualcosa, stai pur certo che non ti arriverà mai. In un certo senso, ce le chiamiamo, le sentiamo, le percepiamo le cose. Io ci credo moltissimo. Poi magari sbagli mestiere ma non sbagli l’ambizione.

Noemi Gherrero.
Noemi Gherrero.

Però, come dicevi, non immaginavi la televisione. È arrivata un po’ per caso la conduzione di Le parole per dirlo, programma della domenica mattina su Rai 3.

No, infatti. Io facevo dei sogni assoluti: roba da reparto psichiatrico! Immaginavo di stringere le mani al Papa. In effetti, pensandoci, ho stretto delle mani importanti. Nel mio programma, ho ospitato gente che va da Sabino Cassese a Dacia Maraini, da Roberto Saviano a Flavio Insinna. E, comunque, sono stata scelta e mi è stata data una possibilità quando non ero nessuno. Ho conosciuto delle persone a cui ho cominciato a voler bene e che mi hanno voluta bene. Lo hanno fatto solo sulla base di un fatto che è successo e basta. Lo sapete meglio di me: non è un ambiente facile e non è facile restarci.

È stata confermata la nuova stagione del programma? Mi auguro di sì, visti i dati di ascolto superiori alla media di altri programmi della domenica mattina della rete.

Siamo in attesa. Abbiamo avuto dei risultati straordinari, abbiamo toccato anche il 4,5/4,8% di share. Da quando è scoppiata la guerra, sono cambiati un po’ gli ascolti, drogati dall’informazione. Sono scesi un po’ gli ascolti di tutti quanti e anche noi, che siamo un programma di nicchia e di cultura, ne abbiamo risentito. Mi aspetto, però, che al di là dei numeri, si capisca che bisogna investire sulle cose e far respirare i programmi. Spero che ci sia una nuova edizione. Non a caso ho scelto come cognome d’arte Gherrero: mi tocca condurre battaglie tutte le volte!

Noemi Gherrero.
Noemi Gherrero.

Quindi, Gherrero non è il tuo cognome.

È un cognome d’arte. Se si legge Il codice dell’anima, ci si rende conto che anche questa è un’altra costante del mondo artistico: ci si va a cercare il doppio, il parallelo, una subalternità. E poi Cognigni, il mio cognome vero, è impronunciabile: faccio già fatica io a dirlo! Lo storpiano da sempre, da quando vado a scuola.

Gherrero è l’italianizzazione dello spagnolo guerrero. Mi diede l’idea un amico. Cercavo qualcosa di forte che mi si vestisse addosso e che non fosse banale. E poi si deve anche giocare. Riflettevo su una cosa qualche giorno fa: se per assurdo non succedesse più niente lavorativamente parlando, che me ne faccio di ‘sto Gherrero? Mi dovrò inventare un altro mestiere, tipo mettermi a scrivere (ride, ndr). Devo fare qualcos’altro per giustificare questo nome: nel suo piccolo, Noemi Gherrero ha adesso una sua storia!

Forse anche questo Gherrero era inconscio. Eri una guerriera anche quando ancora non lo avevi scelto come cognome. Hai vissuto sulla tua pelle il calvario dell’anoressia, come accennavi prima. Se ne esce davvero?

Ho affrontato l’argomento anche in trasmissione. Qualcuno che aveva vissuto la stessa esperienza, ha detto “io ne sono uscita”. No, in realtà è qualcosa che ti porti sempre dietro. E non è qualcosa di negativo, anzi. Secondo me, tu superi una cosa veramente nel momento in cui hai prontezza di quello che ti è successo e la bruciatura sulla tua pelle la senti tutti i giorni. Proprio per questo, sai che quella cosa non la vuoi più.

Ovviamente, dipende da come vivi l’esperienza. C’è gente che è morta di anoressia, chi non è mai riuscito ad uscirne e chi magari ha avuto il mese in cui ha perso dieci chili per una depressione e pensa di aver avuto quel tipo di disturbo.

Se non accetti una cosa, se non la guardi, se non ti immergi in quella disperazione, non la riconosci, non la superi o non impari a tenerla a bada. È un po’ come quando per una mostra curata con mia sorella abbiamo trattato il tema della pandemia. Le persone mi dicevano “ancora a parlare di pandemia?” e poi erano le prime a non andare a una festa o a un compleanno perché avevano paura di prendere il CoVid. Che senso ha?

Tu puoi lasciarti alle spalle qualcosa nel momento in cui sai che quel qualcosa c’è stato, nel momento in cui ne riconosci tutti i segnali. Non puoi tradire le tue regole se le regole non le conosci. Ogni dramma è come un lutto: esiste un’elaborazione.

Noemi Gherrero.
Noemi Gherrero.

Rispetto a qualche tempo, oggi si parla maggiormente dei disturbi alimentari. Cosa è cambiato secondo te?

Se ne parla più facilmente perché molti tabù sono caduti. Se ne parla di più ma non se ne parla meglio. Da un punto di vista della qualità dei ragionamenti e dei discorsi, siamo pieni di frasi fatte. Credo siano i tempi ad avere cambiato la struttura delle cose. Ma non se ne parla mai abbastanza: ci sono tantissime persone che ne soffrono. È vero che le nevrosi, le patologie che sono associate anche a una dimensione corporea, per colpa anche dei social (questo è il profilo IG di Noemi Gherrero, ndr), sono diventate numerose. Hanno tutte a che fare con il sé e la conoscenza di sé, con l’autostima, con il fatto che ci si guarda allo specchio e non si riconosce mai.

Il modello di perfezione che ci propongono è irraggiungibile.

Invece sai qual è la mia riflessione? La perfezione irraggiungibile era qualcosa di molto problematico nel momento in cui io ho sofferto di anoressia. Ora, invece, viviamo in un periodo in cui c’è l’esasperazione dell’immagine. Non ci interessa se è bella o brutta rispetto ai canoni di oggi. C’è un’esasperazione del brutto ma anche del difetto.

Tutte le campagne che sono state fatte (che da un punto di vista generale trovano il mio favore) sulla body positivity nascondono un’esasperazione: non siamo liberi ma siamo sempre vincolati a un tipo di immagine e, se non passa la tua immagine, sei svuotato di tutto il resto. Se vai in giro con pantaloni o maglietti, non ti distingui dalla massa. Per riuscirci, devi fare il fighettone, il bodybuilder, il tatuato…

Apparentemente abbiamo più libertà dal modello rappresentato da Naomi Campbell. In realtà, è tutto sempre molto corporeo, vincolato alla necessità di esasperare, di essere presenti e di essere visti. Il grande problema di oggi è rendersi visibili agli altri. Per cui, se non sei “strano” o “belloccio”, non va bene.

Tu che rapporto hai oggi con il tuo corpo?

Molto positivo. Anzi, mi piacerebbe riuscire a mettermi più alla prova dal punto di vista performativo. Sono una che non vive tabù: posso essere la monaca di Monza o la più grande stronza sulla Terra. Per me, esistono tutte e due le realtà. In questo momento, ho un’immagine molto pulita, da donna che entra nelle case della gente la domenica mattina. Mi piacerebbe osare di più.

Per avere questo rapporto positivo con il corpo ci ho lavorato. Riconosco quanto mi sono fatta schifo, quanto mi sono fatta del male.

Quanto ti sei fatta del male?

Molto. Direi veramente tanto. Chi è passato dall’anoressia, sa che si prova piacere a farsi del male. È una grande verità su cui altri non riflettono mai abbastanza. Non mi mancava nulla ma ho rifiutato tutto quello che poteva essere il bello, il piacere, l’apprezzamento, la sessualità. Le cose che ci fanno male, in un certo senso, ci saziano anche.

Noemi Gherrero.
Noemi Gherrero.
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