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Noi siamo leggenda: Intervista esclusiva a Giulio Pranno

Giulio Pranno
Nella serie tv di Rai 2 Noi siamo leggenda, Giulio Pranno interpreta Marco, uno dei protagonisti della storia. Lo abbiamo incontrato per un’intervista esclusiva in cui racconta molto del suo percorso, del giovane uomo che è e della sua idea di recitazione.

Giulio Pranno è tra i protagonisti della serie tv Noi siamo leggenda, in partenza su Rai 2 mercoledì 22 novembre in prima serata (prodotta da Fabula Pictures e disponibile dal giorno dopo su Prime Video). Nel racconto corale dei giovani adolescenti che faticano a trovare la propria strada nel mondo, Giulio Pranno interpreta Marco, l’unico di un gruppo di amici che, a differenza di altri, non sviluppa super poteri e rimane ancorato alla sua normalità. E normalità è una delle parole chiave che emerge dal nostro incontro con Giulio Pranno.

Venticinquenne attore romano, Giulio Pranno ha fatto della recitazione la sua ragione di essere. Ancor prima che nella serie tv Noi siamo leggenda, lo abbiamo visto al cinema diretto da Gabriele Salvatores in due differenti film, Tutto il mio folle amore e Comedians, ma anche in Security di Peter Chelsom e La scuola cattolica di Stefano Mordini. E lo vedremo anche in Vangelo secondo Maria di Paolo Zucca, atteso al Torino Film Festival.

Una carriera in ascesa quella di Giulio Pranno, cominciata quando a undici anni ha scoperto l’emozione che si prova su un palcoscenico teatrale. Era per una recita scolastica tratta da Shakespeare, una recita in cui si è ritrovato a dover improvvisare un qualcosa per via di una situazione inaspettata. E improvvisazione è un’altra delle parole chiavi che ritornano nel suo racconto di vita e formazione.

Così come ritorna la parola “paura”. Paura del giudizio altrui che Giulio Pranno prova ogni qualvolta che sta per uscire un prodotto a cui ha preso parte, rivelando quella normale insicurezza che caratterizza chi ancora sta affrontando il proprio percorso per divenire non solo attore ma anche uomo.

Giulio Pranno.
Giulio Pranno.

Intervista esclusiva a Giulio Pranno

Tra i tanti giovani attori in circolazione, ce n’è uno che reputo importantissimo per il cinema italiano futuro: Gabriel Montesi. L’ho visto a un provino e sono rimasto veramente stupito da come lavora. Lo apprezzo molto e reputo che sia tra i più promettenti in circolazione”, mi dice generosamente Giulio Pranno quando gli chiedo dell’exploit che negli ultimi tempi sta avendo una nuova generazione di attori e attrici, alcuni dei quali presenti nella serie tv Noi siamo leggenda, in cui interpreta Marco.

Ci racconti tu chi è Marco?

Marco è il miglior amico di Massimo, il protagonista della serie tv Noi siamo leggenda. È un amico molto fidato ed è l’unico dei ragazzi che non svilupperà i superpoteri, nonostante nel suo caso ci tenesse particolarmente: è un appassionato di fumetti ma paradossalmente rimane il solo a non svilupparne. Se vogliamo, il suo superpotere rimane quello della realtà e dell’amicizia: Marco è un amico che non ti tradisce mai e che ti supporta sempre, anche quando viene trattato abbastanza male come si vedrà nel corso delle puntate.

Tutti sono alle prese con le loro lotte interiori e il povero Marco ne paga un po’ le spese, non rientrando negli interessi dei suoi amici almeno fino a quando questi non si renderanno conto di aver bisogno di qualcuno che sia un po’ più maturo, responsabile o lucido. L’intelligenza, in qualche modo, sopperisce alla sua mancanza di poteri.

Marco è il migliore amico di Massimo, un legame che a quanto ci ha raccontato Emanuele Di Stefano è andato oltre la scena: ha infatti individuato in te chi gli è stato di grandissimo aiuto.

Lo siamo stati l’uno per l’altro: quando si lavora insieme, occorre sempre darsi una mano. Emanuele è stato per me un appiglio a cui aggrapparmi in alcune situazioni. Il cast della serie tv Noi siamo leggenda è composto da molti attori esordienti, ragione per cui recitare con chi, come Emanuele, aveva qualche esperienza sulle spalle è risultato a volte più semplice. E credo che lo stesso sia valso per lui.

Oltre che tra voi giovani, vi siete ritrovati a recitare con attori abbastanza navigati. Marco è ad esempio figlio dell’ispettrice di polizia Beatrice, impersonata da Pia Lanciotti. Qual è l’insegnamento più grande che ti sei portato via dal set della serie tv?

Una delle cose su cui ho imparato molto su questo set è legata all’improvvisazione e alla capacità di sapersi adattare alle varie situazioni. Spesso, il regista Carmine Elia cambiava la sceneggiatura e le battute in corso d’opera. Inizialmente mi creava un po’ di confusione ma dopo due giorni avevo già capito come funzionava: quasi non studiavo più le battute a casa e mi lasciavo sorprendere da quello che sarebbe accaduto sul set il giorno delle riprese.

L’improvvisazione cela sempre la capacità di stare in ascolto. E stare in ascolto non è mai semplice.

Esatto. Tra l’altro, l’improvvisazione in questo caso era sempre abbastanza guidata: non si poteva inventare chissà che cosa, occorreva rimanere sempre su alcuni punti focali da rispettare. Quand’ero più piccolo, l’improvvisazione mi mandava in crisi mentre ora non vedo l’ora di potermici cimentare. Anche nei provini, quando so che il regista ci tiene particolarmente: solitamente, sono quelli che mi vanno anche meglio di altri!

Si dice che un attore porti sempre qualcosa di sé nel personaggio che interpreta e che questo gli lasci qualcosa. Cosa hai portato di tuo in Marco e cosa Marco ha lasciato in te?

In Marco c’è il mio stesso bisogno di approvazione da parte degli amici e delle persone che ha intorno. Necessita sempre di essere in qualche modo riconfermato, di sentirsi amato e di sapere di essere per qualcuno importante. È una paura che avevo anch’io fino a non molto tempo fa. Cosa ha lasciato lui in me? Uhm, forse niente ma non perché sia diverso da me: alcune sue caratteristiche, come il non abbandonare mai gli amici, erano già in me. Forse in Marco c’è di Giulio molto più di quanto gli ha lasciato.

Marco vive una condizione di normalità in una situazione di straordinarietà, in controtendenza con tutto ciò che oggi si richiede: vivere una condizione di straordinarietà in una situazione di normalità. Cos’è per te la normalità?

Istintivamente, la prima cosa che mi viene in mente quando si parla di normalità è la noia o la routine dettate dal ripetere sempre le stesse azioni. Eppure, dietro a ciò si nasconde la possibilità dell’essere tranquilli nell’affrontare senza ostacoli e deviazioni un percorso che si conosce. La normalità, quindi, è lo scorrere tranquillo di una vita… forse, eh: è una domanda molto complicata, con tante sfaccettature. È normale preparare dei biscotti per la fidanzata e ucciderla? Sono giorni in cui sono rimasto particolarmente sconvolto e distrutto dalla storia di Giulia Cecchettin: non riesco a togliermela dalla testa, nonostante ne abbia già sentite fin troppe, purtroppo, di storie simili alla sua.

Emanuele Di Stefano e Giulio Pranno.
Emanuele Di Stefano e Giulio Pranno.

Da un punto di vista professionale, stai vivendo un momento particolarmente felice. Ti vedremo anche in Vangelo secondo Maria, film presentato al Torino Film Festival, e nella serie tv Dostoevskij, firmata dai fratelli D’Innocenzo.

Per i fratelli D’Innocenzo, ho ricoperto un ruolo piccolissimo ma mi sarebbe piaciuto lavorare molto di più con loro: li ho amati alla follia sia sul set sia fuori… scusa, ti ho interrotto: qual era la domanda?

Se il tuo sogno artistico sembra pian piano coronarsi, qual è il tuo più grande sogno privato?

Nell’immediato, vorrei poter concretizzare un viaggio in Costa Rica che mi è rimasto abbastanza sul groppone: lo stavo prenotando prima che scoppiasse l’emergenza CoVid ma la pandemia mi ha costretto a rimandarlo. Ho poi cominciato a lavorare su vari progetti e non sono più riuscito ad andare oltreoceano: sono anni che non esco dall’Italia.

Ad ampio raggio, invece, il mio grande sogno è diventare regista. Mi piacerebbe molto fare un film di cui sono io il regista e lo sceneggiatore, un film che piaccia sia a me sia a chi lo guarda.

È questa la ragione per cui nel 2022 hai seguito un corso di sceneggiatura alla Holden?

Si. Ho seguito un corso di sceneggiatura, tra l’altro molto valido, con Lucio Besana, sceneggiatore del film A Classic Horror Story e collaboratore di Roberto De Feo, un regista che amo molto. È grazie a questo corso che ho capito ad esempio che una sceneggiatura risponde a delle regole ben precise che tante volte non vengono rispettate da chi fa film, dando l’impressione che non conoscano nemmeno perfettamente la materia che stanno maneggiando.

Oltre che di sogni e ambizioni, Noi siamo leggenda parla anche di paure giovanili. Qual è la tua più grande paura?

Ho paura del giudizio degli altri su di me ma anche e soprattutto a livello professionale: non ho mai capito perché abbia deciso di fare l’attore, un mestiere che porta sempre a essere sottoposto a giudizio (ride, ndr). Ogni volta che sta per uscire qualcosa a cui ho preso parte, temo che il risultato possa deludermi o che la gente possa prendermi in giro pensando che io sia un incapace. È qualcosa che mi mette molta pressione addosso… tuttavia, continuo a fare questo mestiere: sarà masochista o autolesionista, non so qual è il mio problema.

Non sarà semplice insicurezza giovanile?

Sicuramente ma nel mio caso sfocia in una forma un po’ troppo esagerata, generando quasi anche tristezza. La paura del giudizio mi condiziona le giornate: non esco di casa e rimango anche a letto tutto il giorno chiedendomi cosa succederà nella mia vita nel momento in cui vedranno che ho sbagliato qualcosa. È una paura irrazionale, lo so che dopo un mese non interesserà più a nessuno cosa ho fatto o meno: capita così anche a me quando vedo qualcuno che in un progetto non mi convince… non è che non ci dorma la notte o che lo cerchi su internet per insultarlo. Non penso dunque di essere al centro dell’attenzione della gente ma non riesco a scrollarmi di dosso il timore del giudizio, un timore che si è creato negli anni ma che non avevo quando ho scelto di intraprendere questa strada.

Eppure, più che il cinema e la televisione dovrebbe spaventarti il teatro, dove comunque il feedback è immediato.

Il teatro invece mi spaventa meno. Il problema è tutto quello che non posso controllare e che non so che succede, a cominciare dai meme che potrebbero circolare di smartphone in smartphone. A teatro sono molto più sicuro: non vedo l’ora, ad esempio, di ricominciare la tournée di Il figlio, lo spettacolo che ho interpretato lo scorso anno e che riparte a gennaio. Il risultato, a detta di tutti, era convincente e il consenso unanime: mai nessuno si è avvicinato per dirmi che non lo avevo convinto. Tutt’altro: erano sempre tutti molto entusiasti.

Ma dovresti anche cominciare a pensare che, se un regista come Gabriele Salvatores scegli di lavorare con te non una ma due volte, forse il giudizio è positivo, no? Anche perché, soprattutto nella nostra era social, ci sarà sempre qualcuno pronto ad alzare il dito, anche di fronte alla migliore delle interpretazioni.

Questo è un aspetto interessante su cui rifletto: tutti i registi che hanno lavorato con me ci tengono a mantenere un rapporto non solo personale ma anche lavorativo. Dovrei forse realizzare che l’essere inattaccabili e avere consensi al 100% è impossibile, una bella utopia.

Noi siamo leggenda: Le foto della serie tv

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Cosa ti ha spinto verso la via della recitazione?

C’è stato un momento della mia vita in cui non ero proprio super felice: mi ero come rinchiuso in me stesso e non cercavo nemmeno nuove amicizie. Per spronarmi, mio padre mi ha suggerito il teatro, un’ipotesi che scartavo perché, nella stupidità dei miei undici anni, pensavo che fosse una “roba da donne”. Tuttavia, uno spettacolo scolastico mi ha fatto scoprire un mondo per me inatteso: si era messo in piedi Sogno di una notte di mezza estate e interpretavo Puc. Il giorno della recita, si era creato un buco sul palco che ha portato la mia professoressa d’inglese a spingermi in scena, dove ho improvvisato una specie di balletto. Non sapevo che fare, mi vergognavo tantissimo ma al pubblico piaceva ciò che vedeva.

È stato lì che ho ricevuto il primo applauso a scena aperta della carriera: “Wow”, ho pensato, “ma è così che si sente un attore?”. Mi sentivo nel posto giusto al momento giusto: era qualcosa che mi apparteneva e che faceva parte di me, al di là di ogni mia immaginazione o pensiero. E ho deciso allora di voler fare questo mestiere e di iscrivermi a un corso. Ed è anche passato quel momento di tristezza. Non voglio dire che sia stato merito del teatro, ha contribuito di certo, ma il merito è stato principalmente della famiglia e degli amici.

Come hanno preso i tuoi coetanei la tua scelta di dedicarti alla recitazione?

Bene. Fondamentalmente, non gliene importava niente a nessuno. Anzi, compagni e professoresse mi prendevano bonariamente in giro.

Tornando a Vangelo secondo Maria, chi sarei in scena?

L’arcangelo Gabriele. Quando Paolo Zucca, il regista, mi ha chiamato per propormi direttamente il film, ho chiesto quale fosse il mio ruolo: alla sua risposta, ho detto subito “sì” senza voler nemmeno leggere la sceneggiatura. Mi ha permesso di lavorare con attori come Alessandro Gassmann, Benedetta Porcaroli (siamo al secondo film insieme), Lidia Vitale e Maurizio Lombardi, e in più con Paolo, un regista molto attento agli attori e alle loro paure.

Sono arrivato sul set dopo un anno di mezzo di pausa dal lavoro, erano tanti i timori legati alla mia ansia da prestazione e durante i primi giorni di lavorazione non mi sentivo al massimo ma Paolo mi ha stupito per l’attenzione che dedica sia alla messa in scena sia a noi attori. Un giorno, gli ho chiesto come mai girasse solo con una macchina da presa e la sua risposta mi ha conquistato: “Come faccio altrimenti a dedicarmi totalmente alla recitazione?”. L’ho abbracciato: vorrei davvero che tutti i registi fossero come lui!

Cosa ti aspetti ora dalla messa in onda della serie tv Noi siamo leggenda?

Molto sinceramente, spero che vada molto bene e di guadagnarci un po’ in popolarità. Perché, è inutile nascondersi dietro un dito, la popolarità mi aiuterebbe nel mio lavoro. A parità di bravura, tra due attori si favorisce sempre chi ha più fama: io ho fatto cinema ma il cinema, a parte rare eccezioni come il film di Paola Cortellesi, non è così visto come la televisione.

E non ti spaventano le conseguenze della popolarità sulla tua sfera privata? Gli attori del cast di Mare fuori ne sanno qualcosa a proposito…

Non credo arriverò mai a quei livelli di popolarità. Mare fuori rappresenta un unicum il cui successo non era stato nemmeno preventivato. Accade raramente che si arrivi a quei livelli e so cosa significa dover fare i conti con un riscontro di pubblico molto forte: ho visto com’è cambiata la vita di Damiano dei Maneskin, mio amico sin dai tempi del liceo. Non penso che potrebbe mai accadermi qualcosa di simile che, eventualmente, qualche problema me lo creerebbe: non sopporterei l’idea di non poter nemmeno andare a prendere un caffè liberamente al bar.

Cosa ti aspetta adesso?

A gennaio, la ripresa della tournée, come dicevamo prima. Dopodiché, ho detto di no a un paio di progetti che non mi convincevano: voglio tornare a fare il cinema che piace a me e in cui posso dare dal punto di vista attoriale il meglio di me. Mi sono preso del tempo per guardarmi intorno e scegliere solo lavori che ho piacere a fare. Ho sempre interpretato ruoli abbastanza complicati: in tale prospettiva, quello di Marco è un personaggio se vogliamo semplice da portare in scena perché non si allontana molto da chi sono io nella vita di tutti i giorni. La sfida attoriale, invece, è qualcosa che mi ispira e stimola molto, anche se in alcuni casi la perdo. E qualcosa di bello in ballo c’è.

Giulio Pranno.
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