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Nyko Piscopo: “Abbattiamo gli stereotipi di genere nella danza” – Intervista esclusiva al coreografo e danzatore

Memento di Nyko Piscopo debutta il 15 ottobre al Visavì Gorizia Dance Festival. Lo spettacolo, frutto della rielaborazione dei ricordi dello stesso coreografo e danzatore, si propone di abbattere le barriere di genere che da sempre segnano il mondo della danza.

Nyko Piscopo è tra i fondatori dell’avanguardistica Cornelia Dance Company. D’origine napoletana, Nyko Piscopo s’è formato tra la sua città e la Germania e da sempre tenta, complice anche la sua esperienza personale, di abbattere i pregiudizi di genere e gli stereotipi a essi connessi nel mondo della danza. La sua è in qualche modo una rivoluzione gentile che ha come obiettivo la gender equality, un tema complesso su cui molto spesso si teorizza senza far nulla di concreto.

La concretezza è dunque al centro del nuovo spettacolo voluto e scritto da Nyko Piscopo. Alla sua prima esperienza d’autore, Nyko Piscopo pesca nei suoi ricordi personali per costruire in Memento, presentato in anteprima italiana il 15 ottobre al Visavì Gorizia Dance Festival, un happening sul senso della vita e sulla speranza. Ai quattro performer in scena, Nyko Piscopo chiede di rinunciare alle caratteristiche del loro genere di appartenenza come chiaro segno contro tutte le diseguaglianze che la danza ha sempre, consapevolmente e non, messo in atto.

Chi l’ha detto ad esempio che una donna non possa sollevare un uomo? Memento offre una risposta concreta alla domanda. Così come tante altre sono le risposte che Nyko Piscopo ci offre nel corso di quest’intervista esclusiva, in cui - contrariamente a quanto si pensa osservando dall’esterno – emerge un complesso disegno di quello che è il dietro le quinte della danza. Solitamente quello della danza è un mondo che consideriamo inclusivo ma anche questo è uno stereotipo da abbattere.

Nyko Piscopo.
Nyko Piscopo.

Intervista esclusiva a Nyko Piscopo

Memento è lo spettacolo che segna la tua prima esperienza autoriale. Da quale esigenza nasce?

Memento è il primo lavoro che affronto in maniera molto personale. Solitamente rivisito spettacoli scritti da altri. Questa volta, sentivo l’esigenza di raccontare un po’ me stesso dopo aver vissuto un momento di perdizione, in cui non avevo punti di riferimento. Avevo bisogno di raccontare la sensazione al pubblico perché si tratta comunque di una condizione universale.

La perdizione porta a un certo attaccamento ai ricordi. Da ciò nasce il concetto di Memento. Memento è il ricordo, è qualcosa che è dentro di noi e che fondamentalmente alimenta la speranza. Ed ecco, infatti, che in Memento racconto un diluvio di emozioni e di situazioni di vita vissuta. Lo faccio mettendole una dopo l’altra, come se fossero una serie di diapositive legate da un unico filo conduttore: la speranza, appunto. I danzatori, per esempio, sono spesso portati a guardare in alto, a guardarsi negli occhi o a cercare il corpo dell’altro proprio per trovare sostegno. Perché i nostri ricordi non sono niente se non c’è un’altra persona che li affianca.

Cos’è ciò che hai definito perdizione?

È molto legata alle caratteristiche di una persona. Sono una persona molto metodica e altrettanto concentrata sul lavoro, sulla vita e sui rapporti umani. Sono molto rispetto del concetto di fiducia, dello stringere la mano una persona e del portarla avanti. In un certo momento della vita, mi è venuto un po’ meno tutto. Ho messo allora in discussione quelli che sono i rapporti veri, me stesso e anche il mio lavoro. Probabilmente, è tutto legato al senso di inadeguatezza che provo nella società di oggi. E ciò è quello che volevo veramente portare in scena.

Se si guarda Memento in maniera molto rilassata, senza pretese, ci troviamo a percepire questa sorta di sospensione dell’anima nei danzatori in scena: cercano qualcosa di indefinito. È una sensazione che ho provato a restituire grazie ad elementi scenici per me fondamentali. Nella danza contemporanea non si usa molto la scenografia. Io, invece, ci tengo molto: per me è fondamentale collegare innovazione e tradizione. Anche dentro la tradizione ci può essere innovazione.

Tra gli elementi scenici che troviamo c’è ad esempio una piramide di legno che altro non è che un sostegno o uno scrigno all’interno del quale ci sono cose misteriose. Ma anche un fondale che, grazie all’aiuto della scenografa Paola Castrignanò e dell’esperta delle luci Camilla Piccioni, sembra ricreare un cielo stellato. Quel cielo riporta un mio ricordo: ho vissuto un’esperienza straordinaria in Groenlandia, dove a livello vicino aurora boreale e cielo sembrano molto vicini. È qualcosa che inevitabilmente porta a farsi tante domande e a non sentirsi isolati.

E quali domande ti sei fatto?

La domanda che mi sono fatto e che mi faccio comunque sempre quando guardo al mondo è sempre la stessa: per cosa vale la pena vivere? A volte ci affanniamo per cazzate ma alla fine, per quanto vogliamo essere folli o dimostrare chi siamo, ciò che conta sono solo le emozioni, le persone a cui si vuol bene e ciò che ti fa stare bene… le cose più semplici del mondo.

Parlavi di tuo senso di inadeguatezza. A cosa era dovuto?

Al mio orientamento sessuale e, anche, alla città in cui sono nato, Napoli, molto bella però molto complicata. Oppure al fatto che oggigiorno devi sempre dimostrare di essere pronto e di stare sul pezzo. Non è dignitoso: ognuno dovrebbe veramente star tranquillo, è una forma di stress dover continuamente dimostrare qualcosa. Bisogna vivere con tranquillità anche la propria sessualità e lo dico anche nel rispetto delle mie convinzioni.

Di mio non accetto molto gli eccessi di una certa parte della comunità LGBTQIA+ perché vorrei un mondo dove non ci sia l’esigenza di categorizzare e di dare etichette. Quello delle etichette è un problema che riguarda maggiormente la mia generazione: io non credo che ci sia la necessità di dimostrare. I ragazzi della Generazione Z sono più sereni nell’affrontare o nel parlare determinate tematiche.

Una scena di Memento.
Una scena di Memento.

E le etichette Memento vuole farle cadere. La gender equality è parte centrale della rappresentazione: cosa significa concretamente per te portare la questione in uno spettacolo? Cosa significa ribaltare i ruoli uomo/donna e destrutturarli?

La questione gender equality è molto presente nella compagna Cornelia. Sia io sia i miei colleghi cerchiamo di lavorare con un punto di vista diverso da quello che ci viene propagato dalla danza classica. La mia formazione è legata all’ambiento classico e, in particolare, al balletto, dove i generi e i ruoli sono fortemente definiti. Ho un fisico molto longilineo, diciamo femmineo, e ciò mi ha portato molti problemi a livello di impegno nelle produzioni. Non potrei mai interpretare Spartacus, per dire, perché l’uomo deve essere forte e robusto. E anche questo ha contribuito a quel senso di inadeguatezza a cui accennavo.

Con Memento, cerco invece di dare libertà al movimento. Anche se a livello strutturale, ci sono delle differenze tra uomo e donna, provo ad abbattere i limiti fisici sia per le donne sia per gli uomini per creare un virtuosismo tecnico ma libero che possa appartenere a chiunque senza distinzione di genere. Concretamente, ad esempio, non ho mai considerato un limite il peso: una ballerina o una danzatrice per me deve essere forte, è quella la caratteristica che più mi interessa. Per i miei spettacoli posso arruolare anche una ballerina in carne: non devo fare leva sul suo corpo per dimostrare qualcosa ma sulla sua tecnica.

In un attimo hai spazzato via tutti i luoghi comuni che, complice anche la televisione, negli anni si sono instillati in tutti i noi, spinti a guardare il peso, le gambe o il collo del piede. Il body shaming o l’anoressia si combattono anche così, sottolineando come il peso non sia una discriminante e, soprattutto, dimostrandolo.

La bellezza si può costruire su qualsiasi corpo. Ho insegnato in varie scuole e non ho mai vissuto le caratteristiche fisiche come un limite o una discriminante. Spesso erano i diretti interessati a evidenziarmelo come loro problema ma per me non aveva importanza. Per danzare bisogna semplicemente sudare, impegnare e avere un obiettivo da raggiungere. Spesso i limiti sono solo la scusa di un insegnante che non ha saputo adempiere ai suoi doveri o di un allievo che non era abbastanza motivato.

Come hai lavorato con i ballerini di Memento? Dal momento che lo spettacolo non ha una trama lineare, cosa hai spiegato loro?

Memento ha quattro danzatori in scena: Nicolas Grimaldi Capitello, Leopoldo Guadagno, Eleonora Greco e Francesco Russo. Tre uomini e una donna, tutti abbigliati nella stessa maniera, ossia un pantalone nero e una maglia in tessuto trasparente. Quella della trasparenza estesa anche alla donna è una scelta concreta di quanto sostenevo anche prima. La parità di genere consiste anche in ciò: il fatto che una donna abbia un seno non vuol dire che debba essere coperto. Se lo scoprono gli uomini, lo scopre anche la donna.

Ovviamente, ho chiesto a tutti i danzatori, nel rispetto della loro fragilità, se erano disponibili, come faccio tutte le volte in cui devo lavorare con la nudità. La nudità non è il focus dello spettacolo: è frutto di un’immagine che ho nella testa e che porta il pubblico ad abituarsi a vedere una normalità. Non credo che oggi ci sia più qualcuno che possa scioccarsi per un seno.

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E come ti sei mosso con la suddivisione non binaria dei ruoli?

Io ho sempre affrontato l’argomento a livello tecnico. Non è nel mio stile assegnare a una donna il ruolo di colei che viene sollevata e all’uomo quello di colui che solleva. Può anche avvenire il contrario: è importante arrivare all’uguaglianza anche in questo modo. Ho ragionato molto con gli attori e loro la prendono come sfida. Con Eleonora Greco, una ragazza molto concentrata ma aperta, abbiamo parlato molto della questione. Le ho chiesto se fosse pronta a sollevare un uomo e lo era. In Memento, tutti sollevano tutti: è il mio piccolissimo contributo alla gender equality.

Hai accennato al pregiudizio fisico per cui non potresti interpretare Spartacus. Hai anche vissuto nel mondo della danza il pregiudizio legato al tuo orientamento sessuale?

Si. Contrariamente a quello che si può credere, nelle compagnie di balletto ci sono molti eterosessuali, tanto che spesso si formano molte coppie. E ho lavorato tanto nei Paesi dell’Est, dove c’è maggior chiusura e dove ho subito atti molto, molto, molto discriminatori. A volte, bastava anche un tocco di scena previsto dalla coreografia o un abbraccio che subito si scatenavano le risatine quando andava bene. Era però qualcosa che sapevo come affrontare benissimo: sono napoletano e la scuola è stata come stare in trincea.

Ma la discriminazione, nei Paesi dell’Est, non riguarda solo gli omosessuali. Riguarda anche le donne, tagliate spesso fuori da un sistema che si basa su altri interessi non solo nel mondo della danza ma anche in altri ambiti lavorativi. In genere, tutte le persone definite “deboli” dalla società – omosessuali, transgender, donne – sono oggetto di forte discriminazione. Non si deve aver paura di dirlo, bisogna semmai combatterla.

Memento ha avuto la sua prima internazionale proprio in Polonia. Come ha reagito il pubblico polacco?

Molto bene. Memento è un lavoro molto tecnico e molto onirico che lascia spazio all’immaginazione. La questione gender equality viene trattata molto finemente rispetto ad altri miei spettacoli. Penso alla mia rivisitazione dello Schiaccianoci, con cui ho parlato di giocattoli gender fluid. Quello è stato un tentativo di parlare ai bambini dei preconcetti legati al colore rosa e il colore blu. È stato un esperimento interessante che ha dimostrato come i bambini siano più liberi con il loro sguardo.

A proposito di bambini in Italia si è parlato tanto di introduzione delle tematiche gender nelle scuole. La discussione pubblica è stata molto accesa sollevando la “rivolta” delle famiglie e delle associazioni più conservatrici. Cosa ti auguri che accada concretamente?

La situazione è drammatica anche a livello sociale. Negli ultimi mesi tutto si è complicato. Io confido molto nelle nuove generazioni: rimarranno unite, non staranno zitte e si batteranno per i diritti che nel tempo hanno conquistato grazie alle generazioni passate. Vedo i giovani molto motivati: per loro essere liberi è la normalità, non vorranno mai tornare indietro a livello morale ed etico. E mi auguro anche che possano ricevere il sostegno delle generazioni precedenti, che queste possano mettere al loro servizio gli strumenti che hanno. Io metto il teatro al loro servizio: non lasciamo che il nulla cosmico prenda il sopravvento.

Da bambino quand’è che ti sentivi libero di essere chi eri?

Accadeva nella mia cameretta. Si apriva un multiverso nel quale mi sentivo a mio agio. Mi ha letteralmente salvato la danza. Ho relativamente cominciato tardi: avevo paura di frequentare una scuola dove avrebbero potuto ferirmi. Quindi, è stato nella mia cameretta che ho iniziato da solo a ballare: danzare era una necessità e rappresentava l’unico momento in cui mi sentivo libero.

Una scena di Memento.
Una scena di Memento.
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