Oceani ha pubblicato il suo primo EP, Un romanzo di Stephen King (Himalaya Dischi). L’ambiguità è evidente sin dal titolo: come si può definire un romanzo un insieme di canzoni? Eppure, basta anche un semplice ascolto per rendersi conto che le cinque canzoni di Un romanzo di Stephen King, scritte da Oceani, hanno proprio nell’ambiguità il suo tratto distintivo. Non si tratta di un’ambiguità “scandalosa”: non ci sono argomenti che molto stupidamente in tanti considerano tabù. Ci sono semmai testi in Un romanzo di Stephen King il cui significato si può prestare a interpretazioni diverse, come ci conferma in quest’intervista lo stesso Oceani.
Al secolo Emanuele Guidoboni, Oceani non ha ancora compito 40 anni ma, prima di Un romanzo di Stephen King, ha collaborato a una marea di progetti musicali, inclusi anche nomi più o blasonati. Del resto, è normale accumulare esperienze quando si comincia a suonare a diciassette anni, passando quasi per esigenza da uno strumento all’altro.
Un romanzo di Stephen King è la prima creatura discografica di Oceani, nata grazie all’interessamento del produttore Ferdinando Montone. Ma nella vita di Emanuele la paternità artistica sta quasi per coincidere con quella personale: sta per diventare padre, una circostanza che ha spostato del tutto il baricentro della sua esistenza. Scoprire con noi il mondo di Oceani e, soprattutto, quello di Un romanzo di Stephen King.
Intervista esclusiva a Oceani
Iniziamo subito con una curiosità. Nella breve biografia che tutti troviamo on line c’è scritto che hai lavorato a 200 progetti musicali. Son così tanti?
Non sono letteralmente 200 progetti musicali. 200 sono parecchi ma sono tantissimi progetti.
Un romanzo di Stephen King, firmato Oceani, rappresenta comunque il tuo esordio da solista. Possiamo definirlo così?
Sì, assolutamente sì. Ho 39 anni ma da è da quando avevo 17 anni che suono basso, chitarra e tutti gli altri strumenti, a eccezione della batteria. Ho suonato davvero per tanti progetti e gruppi, tra cui i TheGiornalisti.
Il titolo dell’EP è estrapolato da una canzone contenuta al suo interno, Lunedì sera. Perché proprio un romanzo di Stephen King? Un horror?
I romanzi di King, a meno che non parliamo di piccole minoranze che vertono al fantasy, sono tendenzialmente horror. A me e al mio produttore, Ferdinando Montone, piaceva fondamentalmente il titolo. È estrapolato da un verso di Lunedì sera, un brano in cui descrivo tutto ciò che avevo davanti agli occhi nel momento esatto in cui stavo buttando giù il testo. Tra le altre cose, c’era un romanzo di Stephen King, non ricordo quale ma probabilmente una raccolta di racconti. Nel testo, nomino cose come i viaggi spaziali e le stazioni orbitali e, quindi, Un romanzo di Stephen King mi è sembrato perfetto come titolo di tutto l’EP.
Non sai mai dove vanno a parere le canzoni contenute al suo interno. Non sai se sono allegre, se nascondono un certo sarcasmo o parlano di tragedie. Mi piacciono quei testi dai significati ambigui o che lasciano all’ascoltatore il compito di dare loro un senso, un’interpretazione o un completamento. Nelle mie canzoni, ci sono frasi che sembrano tristi ma in cui qualcuno legge allegria e viceversa: nessuno ha assolutamente torto.
Pensa che noia quando tutto ti viene spiattellato in maniera unidimensionale.
Sono d’accordo con te. Per sfizio personale, nell’ultimo mese e mezzo ho letto un paio di testi sulle tecniche di composizioni pop. Non puoi capire, non sto scherzando, quante volte viene ribadito il contrario di ciò che ho appena detto. Tutti a sottolineare che il significato deve essere chiaro, che occorre evitare possibilità di confusione e dare un’immagine diretta. Sono libri che ho preso in libreria e che, dopo averli spulciati, mi sembravano accattivanti. Solo dopo, ho visto le referenze degli autori e allora ho capito: le canzoni che hanno fatto sono tutte dal significato abbastanza univoco. Quindi, ho preso ciò che di buono c’era e ho messo da parte il resto.
L’idea di ambiguità, di chiaroscuro, viene quasi ribadita dal tuo nome d’arte, Oceani. Gli oceani sono fonte di vita ma possono diventare anche abissi infiniti. Come mai hai scelto Oceani?
Tutte le canzoni che scrivo e che scrivevo anche in inglese ancor prima dell’italiano parlano in un modo o nell’altro di evasione, di allontanamento, di fuga, di viaggio. Volevo dunque un nome che fosse esotico. Avevo pensato ad altre soluzioni ma alla fine, con Ferdinando, abbiamo optato per Oceani: evoca qualcosa di esotico ma anche di silenzioso. Ognuno può trovare gli aggettivi che vuole per definire la parola “oceano”, la completa secondo le sue affinità. A me ad esempio in questo momento evoca l’idea di qualcosa di fresco, cosa che con il caldo ci vorrebbe, ma anche il silenzio, quel silenzio che si trova solo nelle profondità.
Perché non hai scelto invece il tuo nome e cognome?
Col senno di poi, ho fatto una cavolata. In una frase letta in quei manuali di composizione, si dice che occorre sempre cercare la propria voce senza tentare di assomigliare a qualcun altro. Si dice che c’è una sorta di esotismo nella musica per cui in maniera inconsapevole si finisce con il copiare delle suggestioni offerte da qualcun altro in quel momento. Avevo in mente l’idea del viaggio e ce l’ho tuttora ma adesso non avrei nessun problema a usare il mio nome e cognome. Se le cose andranno come devono andare, speriamo di poterlo fare un giorno. Il mio cognome è Guidoboni, tutto attaccato. Magari in futuro farò qualche nuovo progetto come Guido Boni, in maniera che sembri un nome e un cognome!
Hai cominciato a 17 anni a suonare, eri ancora adolescente. Come ti sei avvicinato? Cosa ti aspetti oggi dalla musica a distanza di vent’anni da allora?
Quello che mi aspetto oggi dalla musica è sicuramente cambiato rispetto a quando ero un adolescente. Prima, mi aspettavo di farne un lavoro. I sogni oggi si sono un po’ ridimensionato ma non credo siano cambiati molto. Ero semmai molto più spregiudicato, quasi come se il fine giustificasse i mezzi. Adesso, invece, le mie priorità sono diventate altro: la vita mi ha regalato soddisfazioni in altri campi. Mi rimane però la soddisfazione di riuscire a far delle belle canzoni senza scendere a nessun compromesso: mi rendo conto che suona altisonante!
Come mi sono avvicinato alla musica? Beh, in casa mia c’è sempre stata della musica: dai dischi di mio padre o dalla chitarra che suonava mia sorella, più grande di me. Intorno ai sedici anni, anch’io ho deciso di iniziare a suonare la chitarra. Ma molto rapidamente sono passato al basso, cominciando un percorso che mi ha portato a suonare tutti gli strumenti… a collezionarli e a rivenderli! (ride, ndr). Qualcuno me lo sono tenuto però!
Cosa ti spingeva a passare da uno strumento all’altro?
La voglia di mettermi in gioco. Ho imparato ad esempio a usare la tastiera perché un mio caro amico faceva il tastierista da sette o otto anni. Mi son detto “Perché non provarci anch’io?” senza nemmeno avere una tastiera in casa. Ma mi è piaciuta talmente tanto che adesso le mie canzoni nascono spesso pianoforte e voce e non più chitarra e voce. La tastiera mi ha cambiato completamente il modo di comporre: ogni strumento ha un modo diverso di offrirti stimoli anche per il canto stesso!
Dicevi che le soddisfazioni nella tua vita sono arrivate però da altre parti. Da dove?
Dal lavoro, fondamentalmente. Un lavoro che ha uno stipendio ti permette di avere un tetto sopra la testa. E sto per diventare papà, tra le altre cose. Non ho mai messo la musica da parte ma è diventata una componente della mia vita, non la parte essenziale. È molto più sicuro così, se ci pensi, perché nel momento in cui punti tutto sulla musica (o in qualsiasi altro ambito) e ricevi inevitabilmente dolori, è tutta la tua vita a rimanerne colpita. Se invece la musica diventa una parte di un quadro più ampio, è come se ti fossi fatto male solo a un piede: fatichi ma riesci ad andare avanti. È difficile, lo so, mantenere il giusto equilibrio, una via di mezzo, ma ci addentreremo in questioni filosofiche molto più grandi di noi!
Quindi è come se vivessi “due vite parallelamente”: quella normale e quella da musicista, cercando di non far prevaricare la seconda sulla prima. Mi sembra un’ottima soluzione in un momento in cui c’è tantissima confusione in ambito musicale. Confusione che è data da un cambio delle abitudini che ha portato a un cambio di linguaggio vero e proprio. Immagino che non sia stato facile per te che hai una scrittura molto cantautoriale avvicinarti al mercato.
Togliendo tutta la musica dei trapper o degli artisti da talent, la confusione la fa da padrone. Anche nella musica più “ricercata” sono sempre più presenti contaminazioni che non fanno ben sperare. Le contaminazioni solitamente non sono negative, anzi è bello che la musica sia ibrida e vada a esplorare altri mondi, lasciandosi influenzare. Però, nelle cose sentite di recente, trovo sempre delle paraculate, permettetemi il tempo, anche da parte di grandissimi produttori. Oggi è difficile proporre musica in forma diversa dal “già sentito”.
Non è stato facile realizzare il primo EP: ho tentato di proporre le cinque canzoni che lo compongono (e altre che prima o poi torneranno alla luce) per un annetto e mezzo. Poi, fortunatamente, come sempre, le cose belle accadono quando non te lo aspetti e ho conosciuto Ferdinando. Ha creduto nel progetto sin dall’inizio a differenza di altri: le orecchie di coloro che dovrebbero ascoltare ed essere un minimo ricettivo sono totalmente sorde. Non c’è nessuna volontà di mettersi in gioco da parte delle etichette o dei canali di distribuzione. E questo è solo il male minore. Dall’altra parte, c’è un’offerta musicale di giovane e anche meno giovani che punta a fare immediatamente il botto. Per riuscirci, calcano delle strade che qualcun altro ha percorso prima di loro con maggior successo. Morale della favola? Ti ritrovi con centinaia di cloni.
In Cantautore, uno dei cinque brani, canto che già da piccolo dicevi “da grande sarò un idolo pop”.
È la citazione di un film. Un bambino che si alza ina scuola inglese dell’Ottocento che alla domanda su cosa farà da grande risponde che sarà un idolo pop. Non ti viene in mente niente? Velvet Goldmine di Todd Haynes, un regista che io adoro.
Ed è nella stessa canzone che canti che impieghi dieci secondi a scrivere una canzone ma dieci mesi a ritoccarla.
È pura autobiografia. È esattamente quello che mi succede con le canzoni. Mi aspetto sempre di scrivere delle canzoni che mi soddisfino e ogni volta la cosa difficile, come se fosse un percorso di psicanalisi, è sconfiggere quella vocina dentro che mi dice: “Non ce la fai a scrivere canzoni, faranno tutte schifo”. Ci metto veramente poco a buttar giù una canzone ma poi passo mesi a mesi a rimaneggiarla, a dire no. Ecco perché è sempre importante trovare le persone giuste con cui collaborare e che credono nel tuo progetto: servono anche a fermarti e a fermare le tue paranoie.
È da poco uscito Ghepardi, il secondo singolo estratto dall’EP. Ce ne parli?
C’è chi per Ghepardi ha fatto dei paragoni con le canzoni dei cantautori degli anni Settanta. Li ringrazio per averci risentito echi di Dalla perché effettivamente dal punto di vista del canto è una canzone molto muscolare. Il titolo nasce dal fatto che, come altre mie canzoni, parla di fuga ma anche di relazioni umane in generale, senza voler scomodare necessariamente l’amore: potrebbe trattarsi di amicizia o fratellanza. Ma racconta anche di quanto sia difficile oggi provare delle sensazioni umane. Apparteniamo tutti alla stessa razza ma non è così facile riconoscersi nell’altro.
Inizialmente si chiama Ghepardo ghepardo. Ma poi abbiamo decido di cambiare il titolo: sembrava quello di un film erotico degli anni Settanta, di quelli che si producevano in massa in Italia. Curiosamente, Ghepardi è una delle poche canzoni di cui, una volta scritta, ho cambiato veramente poco. Sin da subito, mi è apparsa nelle mie corde: ho azzeccato quello che volevo dire!
Ed arriva a pochi mesi da un’altra tua canzone, Il futuro, che parlava di una relazione finita. È una scelta quella di parlare di rapporti umani in quasi tutte le tue canzoni?
Non so se sia una scelta. Mi conviene comodo parlare delle cose che conosco e non di quelle che non so: non sono un trapper e quindi non ho esperienze nel mercato della droga o delle piazze di spaccio così come non giro con una pistola dietro. Racconto ciò che vivo e probabilmente in un futuro prossimo parlerò di aspetti più relativi alla famiglia e ai bambini!
Quasi tutte le canzoni, in un modo o nell’altro, parlano del passato. Anche Il futuro, nonostante il titolo, parla di qualcosa che è successa nel passato. Non è quasi sempre autobiografica perché ho preso aspetti che appartengono un po’ alla vita di altre persone. Tra l’altro, è anche una delle mie pochissime canzoni a essere nata su commissione: le ballad non rappresentano di certo la mia comfort zone. Mi è stata chiesta dal mio produttore per far da contraltare alle altre quattro canzoni dell’EP. Ma mi è piaciuto scriverla perché è nata da zero, non avevo del materiale pregresso a cui aggrapparmi: è stata la prima volta che ho composto una canzone seguendo il gusto di qualcun altro!
È come mettersi alla prova, no?
Concettualmente, sì. È vero che scrivo le mie canzoni in dieci minuti ma i testi nascono quasi sempre come se fossero dei racconti. Quando decido di realizzare una canzone, devo semplicemente selezionare e adattare in poche righe quello che trovo scritto in centinaia di pagine. Nel caso di Il futuro, non avevo nulla di scritto e ho dovuto quindi cominciare dall’inizio.
Sono molto affezionato al risultato: è una delle mie canzoni dal significato più ambiguo in assoluto: Il futuro non è quello che sembra può essere interpretato da ognuno come meglio crede. Sarà una schifezza oppure pieno di sole?
E tu come vedi il tuo futuro?
Molto meno peggio del presente. Nonostante piaccia a volte darsi un tono di melodrammaticità, soprattutto quando si parla di sentimenti o di amore, non esiste niente di più forte della nostra volontà di ricominciare. Anche se ci sono dei momenti in cui si sta veramente una m**da, il tempo cura qualsiasi cosa.
Io lo immagino pieno di pannolini da cambiare. Quanto sta influendo su di te la prossima paternità? Cosa è cambiato?
Non riesco a esprimere a parole cosa è cambiato e il che è bizzarro considerando che per le mie canzoni uso le parole. Ho tante sensazioni dentro ma quella più netta mi dice che sta per arrivare qualcosa di più importante di te. Per natura, sono una persona molto egoista: quasi tutti gli “artisti” lo sono e hanno un ego abbastanza spropositato. Non sono una persona esuberante, tutto sommato sono anche abbastanza timido, però ho sempre riportato tutto a me stesso. Ecco, la sensazione è che questo meccanismo si sia messo da parte, è stato sovvertito. È qualcosa di molto, molto liberatorio.
Se devo essere sincero, la mia più grossa preoccupazione sarà continuare a scrivere: dovrò trovare il tempo per farlo!