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Paola Iezzi, un’icona di libertà e liberazione – Intervista esclusiva

Paola Iezzi
Paola Iezzi è uno dei nuovi giudici di Drag Race Italia, il talent sull’arte drag disponibile su Paramount+. L’abbiamo incontrata per un’intervista in esclusiva in cui mette a nudo il suo animo e ripercorre il percorso non solo musicale con la sorella Chiara.

Paola Iezzi risponde al telefono con il suo tono pacato e gentile. Non ci conosce direttamente, eppure sin da subito i ruoli si invertono: non sono io, l’intervistatore, a mettere lei a suo agio ma è lei, Paola Iezzi, a mettere me a mio agio. E il che è sorprendente in un mondo che tende a mettere sempre più l’ego al centro di tutto. “Ma potresti scrivere una monografia sulla nostra musica”, scherza quando si rende conto di come la mia conoscenza di Paola e Chiara risalga a tanti anni fa, agli stessi che sono intercorsi da quando per la prima volta le due sorelle sono salite sul palco del Festival di Sanremo con Amici come prima.

È da quel 1997 che Paola Iezzi, insieme alla sorella Chiara, è diventata un’icona della comunità lgbtqia+, una comunità che ancora oggi necessità di chi, facendosi portavoce, invita a non aver paura di ciò che viene considerato “diverso”. In fondo, questa è anche la mission di Drag Race Italia, il mitico talent sull’arte drag la cui terza stagione, condotta dalla “madre suprema” Priscilla, è attualmente disponile su Paramount+. In compagnia di Chiara Francini e Paolo Camilli, Paola Iezzi ne è uno dei giudici, un ruolo che per la prima volta si ritrova a coprire, seppur fermamente convinta, come ci dirà lei stessa, che l’arte in sé non possa essere sottoposta a giudizio.

Carisma, unicità, coraggio e talento sono ciò le protagoniste dello show sono chiamate a mostrare ma sono anche le caratteristiche che hanno da sempre accompagnato Paola Iezzi che, libera da ogni forma di costrizione sociale, si è schierata apertamente in nome della diversity and inclusion in tempi non sospetti, quando ancora non andava di moda e le persone intorno a lei le sconsigliavano di farlo.

A una copia in meno venduta, Paola Iezzi ha preferito l’orgoglio dell’unicità, la stessa che condivideva con la sorella e che le portava spesso a essere anche canzonate per il tipo di musica e messaggio che trasmettevano, anche quando con le loro melodie cantavano di temi come l’anoressia, il gap generazionale, l’amore libero dal pregiudizio, la salute mentale e l’accettazione di sé ma anche dell’altro. Ed è forse anche per questo che la comunità lgbtqia+ non ha mai smesso di sostenere Paola e Chiara. Le ha considerate le loro madrine anche senza bisogno di averle a un pride, aprendo la strada a questo 2023 che le ha riportate a riprendere insieme quel cammino che lo stress, le pressioni e la stanchezza avevano rischiato di tranciare per sempre.

Di tutto questo e di molto altro ancora, ci racconta la stessa Paola Iezzi con sincerità, senza mai nascondersi dietro il dito della retorica o erigersi a guru dell’ultima ora. Perché ciò che la guida è costantemente quel desiderio di far sentire tutti liberi, compresa se stessa.

Paola Iezzi.
Paola Iezzi.

Intervista esclusiva a Paola Iezzi

Ti ritrovi a vivere l’esperienza di giudice a Drag Race Italia, dove lo scorso anno eri stata ospite come giudice speciale per la puntata finale. Cosa è cambiato? Con quale spirito ti sei approcciata all’esperienza?

È la prima volta che mi ritrovo in una tale posizione: non avevo mai giudicato nessuno in passato. Non mi era mai quindi mai capito di decidere le sorti di qualcuno da mandare avanti oppure no e fino a qualche anno fa non me la sarei sentita di ricoprire un ruolo con tanta responsabilità. È solo negli ultimi tempi, realizzando che erano passati diversi anni da quando ho cominciato a fare questo lavoro (non che mi senta arrivata, c’è sempre qualcosa da imparare o approfondire), che ho capito che era arrivato il momento di mettere la mia esperienza al servizio degli altri, sebbene creda fermamente che l’arte in qualsiasi sua forma non possa essere giudicata.

L’arte di ciascun artista è, dal mio punto di vista, insindacabile perché dipende da ciò che gli o le piace, dal suo gusto, da ciò che gradisce e da quello in cui si riconosce. C’è tuttavia nell’arte una parte più meccanica, chiamiamola esecutiva o tecnica, che può invece essere valutata o messa sotto giudizio. Accettando la proposta di giudice a Drag Race Italia, ho pensato che fosse un’ottima occasione per mettermi alla prova da questo punto di vista. Ho cercato, quindi, di fare appello a tutte quelle forze e competenze tecniche, che penso di aver accumulato nei miei tanti anni di mestiere.

Mi auguro di aver fatto un buon lavoro.  Certamente, è un’esperienza che mi ha accresciuto e dalla quale ho appreso tanto. Ho imparato molto sia dai miei colleghi giudici e da Priscilla, che è la presentatrice ma anche la madre suprema, accogliente, delle concorrenti, sia dalle tantissime concorrenti, che mi risvegliano il ricordo di me esordiente. Rivedo in loro quel fuoco che ti anima quando muovi i primi passi e che è magnifico veder rimanere acceso e attivo sempre… è quella parte di te che, finché resti sul palco, non deve mai morire: devi sempre trovare il modo di alimentarla.

Anche quando questo lavoro ti delude, ti mette a dura prova, ti schiaccia o ti butta in un angolo devi sempre trovare la motivazione per farlo riscoprendo il fuoco degli esordi, lo stesso che ti ha fatto iniziare. E nelle concorrenti ho rivisto quel fuoco tante volte e ciò mi ha entusiasmato.

Drag Race Italia: Le concorrenti

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Al di là delle caratteristiche tecniche, determinanti per la scelta di una concorrente o un’altra, cosa ti colpisce di loro?

Mi colpisce molto l’onestà. Ci sono due modi per affrontare una performance: seguire un buon cliché e percorrere un solco già esistente ricalcandolo a modo proprio oppure proporre qualcosa di assolutamente nuovo, mai visto prima.

Nel primo caso, valuto la perfezione dell’esibizione stessa. Nel secondo caso, invece, desidero essere stupita: voglio vedere qualcosa che ti appartenga e che non ti stia addosso maldestramente, qualcosa che, anche se è imperfetta, è unica e del tutto nuova. Per quanto oggi in ogni ambito sembra che sia stato fatto già tutto, ognuno di noi ha una propria unicità che mescolata con la propria cultura o con quella del passato può dare origine a cose e linguaggi nuovi.

E, quindi, ricapitolando, mi colpiscono o la perfezione del cliché o l’unicità con la sua diversità più assoluta, dove anche le piccole sbavature vanno bene perché si sta presentando qualcosa che nessuno può paragonare a qualcos’altro.

Quanto conta la storia personale delle concorrenti?

Di ogni concorrente abbiamo visto le schede tecniche da loro preparate, in cui si raccontano. Chiaramente, non se ne possono conoscere fino in fondo le storie, dipende anche da quanta voglia abbiano ognuna di raccontarsi o di affrontare il proprio vissuto, che in taluni casi ha anche dei risvolti molto drammatici. Alcune storie sono accomunate da punti in comune mentre altre sono assolutamente uniche ma è interessante vedere come quel vissuto si trasformi e prenda vita nei personaggi che portano sul palco, lasciando che diventi parte integrante della loro performance.

Il cast di Drag Race Italia: Paolo Camilli, Chiara Francini, Priscilla e Paola Iezzi.
Il cast di Drag Race Italia: Paolo Camilli, Chiara Francini, Priscilla e Paola Iezzi.

Per esigenze lavorative e non solo, hai frequentato e frequenti locali, disco e club, in cui sono presenti molte drag queen. C’è tra le concorrenti che ti sei trovata a giudicare qualcuna che avevi già conosciuto altrove?

Avevo già conosciuto Sypario perché avevo fatto una bellissima serata a Napoli con il gruppo delle ragazze del Paradiso Club, uno dei gruppi più moderni e avanti di drag queen che ci siano sulla scena. Avevo apprezzato tantissimo la loro performance e, quando ho saputo che Sypario sarebbe stata una delle concorrenti, sono stata felicissima perché avevo avuto modo di apprezzare le sue doti un po’ avanguardistiche e diverse dal solito modo di proporre l’arte del drag.

Non conoscevo nessuna delle altre ragazze, nonostante il mondo drag mi affascini e mi catturi da sempre. Sarà che mi identifico in qualche modo con loro: mi sento anch’io un po’ drag queen per via delle mie due anime. Nella vita di tutti i giorni sono una persona molto semplice e molto easy mentre il palco per me rappresenta un momento di totale liberazione, in cui posso sperimentare le varie sfaccettature della mia personalità artistica spesso anche attraverso l’estetica.

Non pensi che sarebbe un’ottima idea accogliere per le prossime edizioni tra le concorrenti anche un maschio eterosessuale per sottolineare, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto il drag sia un’arte vera e propria?

Sicuramente ci saranno delle aperture in tal senso. Come un’apertura c’è stata nell’edizione in corso su Paramount+: in precedenza, non c’era mai stata una concorrente transgender. Quello di Drag Race Italia, se vogliamo, è anche un atto rivoluzionario politico che apre le porte a una parte espressiva importante del mondo lgbtqia+. Si deve assolutamente andare verso l’inclusività totale, anche perché c’è ancora tanto da far capire al mondo eterosessuale, che non ha ancora chiaro del tutto cosa ha comportato per la comunità il percorso affrontato per arrivare a certi risultati e certi standard. L’obiettivo primario è quello di fare in mondo che l’arte drag, giacché di arte si tratta, arrivi a tutti e al maggior pubblico possibile ma è un percorso, anche questo, che va affrontato piano piano.

Quest’anno abbiamo visto un tentativo riuscito di inclusività quando il mondo drag ha incontrato quello del calcio, con lo stadio San Siro di Milano colorato di rosa per promuovere quei valori di diversity and inclusion a cui Paramount+ crede da sempre. È stato un incontro importante soprattutto perché avvenuto in quello che per stereotipo è un contesto dipinto come maschilista e omofobo.

Anche questo è stato sicuramente un atto politico ma anche sociale per dare notevoli segnali di apertura ma anche di tranquillità alle persone: spesso la gente non frequenta il mondo della comunità lgbtqia+ perché è spaventata o intimorita dai preconcetti e dai pregiudizi.

Ed è stato un segnale non solo colorato ma anche inclusivo molto importante da parte del mondo del calcio, un universo spesso “omofobo”, ahimè, da cui un certo tipo di mascolinità viene escluso. La speranza è che diventi sempre più inclusivo perché, comunque, ci sono anche molti giocatori gay all’interno delle squadre: è doveroso che non si sentano inibiti dal poter fare outing liberamente. Credo sia importante per l’educazione non solo dell’universo calcistico ma del mondo in generale.

Drag Race Italia a San Siro: Le foto

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La comunità lgbtqia+ è sempre stata benevola nei confronti di Paola e Chiara. Cosa pensi che abbia intravisto in voi per trasformarvi in icone e punti di riferimento?

Penso che sia stata fondamentalmente il messaggio della nostra musica a guidare il nostro amore nei confronti della community e viceversa: siamo sempre stati in connessione. Eravamo in due ed eravamo connesse in un modo speciale, avevamo un modo tutto nostro di essere che ci ha fatto sentire da sempre un po’ “diverse”, così come diverso era il nostro modo di fare musica.

Abbiamo creato un nostro piccolo mondo sin da quando ci ritrovavamo da bambine nella nostra stanza: lo abbiamo elaborato e cullato per anni nella nostra casetta prima di presentarlo al mondo reale, trasformandolo da fantasia in realtà. E credo che sia stato questo che ci abbia reso uniche nel panorama della musica, un universo in cui, in fondo, ci siamo sempre sentite un po’ come due outsider.

Ho sempre avvertito non l’esclusione ma la percezione di sentirsi differenti dagli altri, sia nel nostro modo di scrivere musica sia nel nostro modo di presentarla all’esterno. Abbiamo sempre avuto standard che non erano quelli abituali per la musica italiana così come punti di riferimento e idoli che non erano quelli della maggior parte degli altri colleghi. Il nostro modo di far musica è sempre stato canzonato e non preso molto sul serio, facendoci anche soffrire, ma la comunità lgbtqia+ ha sempre capito cosa tentassimo di fare: ha sempre preso le nostre difese proprio perché ci vedeva diverse dagli altri.

Ma la connessione è stata forte su molti più aspetti. Abbiamo avuto sempre un modo di proporci un po’ sfrontato, fregandocene delle convenzioni e di tutto ciò che pensava la gente. Ci siamo esposte su determinati temi anche quando non era trend: ci consigliavano persino di non farlo perché avrebbe potuto limitare o danneggiare le vendite o le apparizioni. Ma noi siamo sempre andate dritte per la nostra strada e alle nostre condizioni, sia dal punto di vista musicale sia da quello del messaggio. E abbiamo anche pagato in prima persona con certe esclusioni.

Abbiamo anche avuto una battuta d’arresto, anche per via dello stress comportato da una serie di insuccessi e da un calo di popolarità, ma la community è sempre rimasta lì: sono più di venticinque anni che continua a sostenerci e non ci ha mai abbandonate. Ed anche grazie a loro che personalmente non ho mai mollato e ho cercato di resistere: dovevo in qualche modo restituire la fiducia e l’amore che mi erano stati dati. Ho resistito sia perché odio mollare (non è un verbo del mio dna) sia per il senso di riconoscenza immensa nei confronti di una community che mi ha sostenuto, ci ha sostenuto e ha sostenuto la nostra musica, aspettandoci.

Forse ha avuto più fiducia nel nostro ritorno la community che tutti gli altri in generale. Al mondo lgbtqia+ era arrivato chiarissimo il messaggio contenuto in canzoni come Viva el amor, Kamasutra o Fino alla fine: capiva esattamente di cosa si parlava mentre gli altri storcevano il naso.

Ma la community lo aveva capito ancor prima dei titoli citati, a cominciare da una canzone che meriterebbe di essere ricordata: Bella, contenuta nel vostro primo album, Ci chiamano bambine.

I primi commenti sono arrivati sin dal primo Sanremo, nel 1997, dove presentavamo Amici come prima: è lì che si sono create le basi di quella connessione che ci ha fatto riconoscere come diverse dagli altri. Non c’era nessun altro progetto simile o riconducibile al nostro. E la connessione non è qualcosa che deve essere necessariamente sciorinata ai quattro venti: avviene in automatico.

Il vostro secondo album, Giornata storica, rimane un unicum nel vostro percorso.

Sono contenta che sia uscito recentemente in vinile e che possa essere riscoperto: per i fan di Paola e Chiara è un album quasi cult. Non lo sconoscono in tantissimi: è stato un disco considerato flop ma che oggi forse avrebbe un successone incredibile. Fu accolto molto bene dalla critica ma molto meno bene dal pubblico generalista: era un album scritto con grande cuore. Ricordo che era stato anche abbastanza complicato scriverlo: ci abbiamo messo tutte noi stesse e ancora oggi, quando mi capita di riascoltarlo, mi emoziono… è forse il nostro lavoro più cantautoriale, quello che parla di tematiche più delicate e racconta cose importanti.

Il 2023 è stato per Paola e Chiara l’anno del ritorno, culminato con l’esibizione al concerto di Radio Italia a Palermo, dove un mare caos di oltre 60 mila persone ha intonato a cappella la vostra Vamos a bailar. Che emozione è stata?

Immensa. Quando mi affacciavo dall’albergo che stava di fronte al palco, ero terrorizzata dalla folla di gente che ci aspettava: era impressionante vedere la distesa senza fine di persone. Sul palco, invece, la paura è passata: le luci illuminavano fino a un certo punto e questo mi tranquillizzava. Quella, poi, è una terra che ha una grande cultura musicale e che sente la musica stessa in maniera speciale, riversando un calore incredibile nei confronti degli artisti.

Abbiamo battuto quasi tutta l’Italia nei nostri quasi trent’anni di carriera e il pubblico siciliano è sempre stato tra i più calorosi, anche negli anni in cui, durante le feste patronali, avevamo qualche dubbio sull’eseguire in piazza un pezzo come Kamasutra. Non era scontato che la gente lo recepisse ma, quando si trova un modo corretto di far passare un messaggio, questo viene accolto.

Ne sono testimone diretto: nei primi anni duemila avete tenuto in concerto nel paese di cui sono originario, Misilmeri. E per voi c’erano solo applausi.

Non abbiamo mai avuto mezzo problema che riguardasse il nostro repertorio. Quando cantavamo nelle piazze, la gente restava divertita dal tipo di show che proponevamo. Con noi c’erano i ballerini, portavamo le coreografie di Luca Tommassini e cercavamo di soddisfare quella che ritenevamo e riteniamo la nostra mission: far divertire il pubblico, portandolo per due ore in un altro mondo lontano dai problemi…

Lanciavamo precisi messaggi sociali e al tempo stesso facevamo ballare le persone, spingendole a liberarsi.  Non volevamo avere davanti un pubblico di giovani, che allora avevano la nostra stessa età, che si sentissero ingabbiati e lo stesso vale per i loro genitori: i nostri erano messaggi futuristici.

Sapevamo che era importante farlo ma avevamo il dubbio di non essere capite. E, quando ci siamo rese conto, che non eravamo del tutto riuscite a portare a compimento quello che volevamo fare ci siamo fermate: eravamo un po’ consumate, non ce la facevamo più e in qualche modo dovevamo preservare anche la nostra vita.

Anche tra di noi s’era creato un forte attrito. Non riuscivamo più a trovare la sintonia di prima: eravamo stanche. E, quando si è stanchi e per di più il successo smette di sostenerti, si perde anche l’entusiasmo. Il fatto, poi, di essere due persone differenti ha complicato ulteriormente la situazione.

La pausa, tuttavia, non ha intaccato il rapporto con qualche amico che, al di là della comunità lgbtqia+, è rimasto sempre al vostro fianco.

Quando io e Chiara abbiamo deciso di ritornare insieme, abbiamo rivoluto con noi cose e persone, perlomeno ci abbiamo provato. Abbiamo fatto il ritorno alla Sony Music, dove c’era tutto il nostro catalogo; abbiamo richiamato alcuni produttori con cui avevamo realizzato dei pezzi storici, come Merk & Kremont; ci siamo affidate alla direzione musicale di Michele Monestiroli e alle coreografie di Lica Tommassini; e abbiamo voluto a curare il nostro look Nick Cerioni, che conoscevamo da tantissimi anni, dai tempi delle serate al Plastic di Milano. Abbiamo voluto con noi persone che, anche senza aver collaborato in passato, consideravamo amici, quasi famiglia. Il loro sì per noi è stata una grande soddisfazione.

Come grande soddisfazione deve essere arrivata dal riuscire a colpire i giovani millennial e della generazione z.

È stata la cosa più sorprendente di tutte: mai ci saremmo aspettate di riuscire alla nostra età a comunicare con i ragazzi di ogni fascia, dai bambini di cinque anni in su. Ma è anche frutto della potenza di Sanremo, per cui il grazie va all’intuizione di Amadeus di rivolerci di nuovo su quel palco insieme e alla potenza di una canzone come Furore che è riuscita ad arrivare a tutti. Quella canzone e il modo di proporla nasce dal desiderio di fare qualcosa di scintillante che non passasse inosservato. Come se fosse, come recita il testo, l’ultima volta che facevamo una canzone: doveva essere qualcosa di indimenticabile, una grande festa… e così è stato.

Sei felice, Paola?

Sono molto soddisfatta. La felicità è un processo che non finisce mai. Posso dire che un parte di me si sente realizzata: non pensavo che sarebbe mai arrivato il momento del riconoscimento di determinate cose. Ho lavorato tutta la vita concentrata sulla musica, scegliendo anche di non avere figli… ho dato tutta me stessa alla musica e la musica è stata tutta la mia vita.

Avevamo chiuso il progetto Paola e Chiara con un disco molto bello di cui sono sempre stata molto orgogliosa ma l’aver in qualche modo gettato la spugna e l’averla data vinta a coloro che ci dicevano che valevamo poco mi aveva lasciato l’amaro in bocca. Anche se credo che ogni percorso abbia la fine che si merita, avevo lasciato sospesa per aria la speranza di non vedere morire la nostra musica.

Una speranza che, anno dopo anno, veniva alimentata dal passaggio dei nostri vecchi pezzi nelle discoteche, nelle radio o nei pride. Quando li sentivo, capivo che, rispetto ad altri anche del nostro stesso periodo, quelle canzoni non invecchiavano, suonavano ancora moderne sia nelle melodie sia nella vocalità. E forse è anche questo che ci ha portato a renderci conto che in fondo le nostre canzoni erano lì ad aspettare che ci decidessimo a tornare.

Quando è accaduto in maniera del tutto inaspettata, è stato bello ed emozionante vedere la fiducia che il pubblico ha riposto in noi sin dalla prima volta che ci ha visto tornare insieme. Ed è in quel momento che il richiamo è diventato troppo forte: ci siamo arrese, in senso buono, al desiderio delle persone e ci siamo dette che forse avevano ragione loro. Dovevamo solo lasciarci andare e abbandonarci a quell’onda d’amore che il pubblico ci stava mandando incontro.

E per due che come noi avevano il controllo di ogni minimo dettaglio non era facile abbandonarsi… ma ci ha aiutato la maturità: sono passati anni, abbiamo fatto pace anche tra di noi e abbiamo capito anche che avevamo il dovere di rispettare una le difficoltà o le esigenze dell’altra. Non eravamo più le sorelline che cresciute insieme facevano le stesse cose, parlavano all’unisono o pensavano con un solo cervello.

Paola Iezzi.
Paola Iezzi.
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