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“La libertà economica ti permette di concretizzare chi sei” – Intervista esclusiva a Paola Lavini

Paola Lavini non è solo un’attrice dal curriculum sterminato. È pure una cantante, una ballerina, una soubrette a tutto tondo. Versatile è l’aggettivo giusto, sa far piangere ma sa anche far ridere. Ed è anche una donna indipendente, bella e fiera della libertà che s’è conquistata.

Paola Lavini è così come la vedete nelle foto posate che accompagnano quest’intervista. È una persona molto solare e intelligente che, grazie a una continua ricerca non solo professionale, ha capito chi è: una donna libera, indipendente, serena e, soprattutto, positiva. Positiva è la curiosità che la spinge di ruolo in ruolo a mettersi in gioco e a studiare.

In un contesto come quello italiano, in cui lo studio sembra quasi una condanna, Paola Lavini stupisce con la caparbietà con cui si impegna. Per entrare in un personaggio, ne studia dettagli, ne analizza realtà e percezioni, ne assimila sentimenti e pensieri. Arriva al punto di far suoi anche dialetti che geograficamente non le appartengono. È vero, ha studiato Lingue e ha una particolare predisposizione all’ascolto ma tra l’inglese, una delle quattro lingue che parla perfettamente, e il marchigiano, ad esempio, c’è una bella differenza.

Paola Lavini (photo by Alessija Spagna).
Paola Lavini (photo by Alessija Spagna).

Non stupisce poi come la semplicità sia la chiave vincente di Paola Lavini. Ha lavorato con il gotha del cinema italiano. È stata diretta da registi come Bellocchio, Rohrwacher, Avati, Munzi e Diritti, per citarne solo alcuni. Ha ricevuto importanti riconoscimenti, eppure è la stessa di sempre. Sui set, mai nessuno può dire di averla vista atteggiarsi da gran diva, è costantemente a disposizione di tutti, dai colleghi all’ultimo componente della troupe. Con la battuta e il sorriso sempre pronto.

Molto spesso vedete Paola Lavini cambiare anche fisicamente. Il cinema le ha regalato spesso ruoli estremamente drammatici, che le hanno richiesto di penalizzare anche il suo aspetto fisico per ragioni a volte di credibilità. In La ballata dei gusci infranti, film di Federica Biondi con Lina Sastri, Giorgio Colangeli e Caterina Shulha che arriva al cinema il 31 marzo, interpreta ad esempio una contadina devastata dalle conseguenze del terremoto che nel 2016 ha colpito la zona dei Monti Sibillini.

Nella coralità della storia, le vicende della Lucia di Paola Lavini sono quelle più ancorate al territorio e alla natura, benigna o matrigna, che lo circonda. Non sarebbe stato di certo credibile con i boccoli, il trucco perfetto e i tacchi alti. Eppure, la sua bellezza – lontana dai canoni di perfezione da Miss Italia ma pur sempre bellezza – avrebbe bisogno di esplodere sullo schermo.  Potrebbe pensarci una bella serie Netflix, ad esempio, a lasciarle sfoggiare tutta la sua dinamicità e avvenenza.

E a lei piacerebbe anche. Perché Paola Lavini è anche una donna che si diverte a giocare con se stessa e a ribaltare i cliché che la vogliono solo interprete di una certa drammaticità. Levarle un’etichetta di dosso, e Paola odia le etichette, è il primo passo per capire quanto efficace sia in chiave comica. All’insegna del “non esistono piccoli ruoli ma solo piccoli attori”, Paola Lavini è in grado di far notare la sua verve anche con piccoli cammei speciali, come in School of Mafia o Gli anni belli, film in cui letteralmente lascia esplodere quella chiave comica che l’avvicina a Monica Vitti. Oppure, come accade nello spot di una catena di supermercati, di tenere testa a un mostro sacro come Lino Banfi, non temendo il confronto e uscendone vincitrice al pari del suo compagno di scena.

TheWom.it ha intervistato Paola Lavini, che senza filtri si racconta come non mai. Da quando, poco più che adolescente, ha lasciato la vita di campagna in Emilia per inseguire se stessa e il desiderio di diventare attrice. Vivendo in Sicilia, come “zingarella”, e imparando la più grande delle lezioni che la vita può offrire a tutti noi: solo la libertà economica, raggiunta e non regalata, ti apre le porte al domani che vuoi, senza tradire mai te stessa.

INTERVISTA ESCLUSIVA A PAOLA LAVINI

In La ballata dei gusti infranti, interpreti Lucia, una donna che viene lasciata sola dal marito a gestire l’azienda agricola di famiglia. Il tema centrale del film è sì il terremoto ma anche la casa, paragonata al “guscio delle lumache”. Chi è Lucia e come ti sei calata nei suoi panni? Quale chiave di lettura hai voluto darle?

Lucia è lasciata dal marito all’inizio del film. Si ritrova da sola ad affrontare il peso della grande azienda agricola e, successivamente, del terremoto. Di fronte a un addio telefonico molto becero del marito, inaspettato in qualche modo, si rimbocca le maniche. Un po’ come farei io, mi somiglia molto o io assomiglio a lei. Forse assomiglio a tutti i personaggi che interpreto. È una donna che però non si arrende. Si mette lei al servizio dell’azienda agricola, cura gli animali, produce i formaggi.

La dedizione al mio lavoro è stata ed è completa. Chi mi sta a fianco si sacrifica molto. E anche io, come Lucia, effettivamente non ho figli. Alla fine, il lavoro diventa una priorità.

Paola Lavini

Il personaggio di Lucia mette in evidenza i sacrifici che una donna è chiamata a fare tra lavoro e vita privata. Deve scegliere tra le due cose, perdendone una. Il marito va via con un’altra.

È un po’ quello che mi appartiene come attrice. La dedizione al mio lavoro è stata ed è completa. Chi mi sta a fianco si sacrifica molto. E anche io, come Lucia, effettivamente non ho figli. Alla fine, il lavoro diventa una priorità. Nel caso di Lucia, s’è ritrovata a lavorare. Prima che il marito se ne andasse, era lui a occuparsi principalmente della gestione dell’azienda. L’ha dunque lasciata in difficoltà totale: se n’è andato non solo dalla sua vita ma anche dall’azienda. Tocca a lei prendere in mano tutto e adoperarsi in ciò che fino a quel momento aveva visto fare: lei si occupava, da quello che si evince, di formaggi e basta. Occuparsi di mucche, cavalli, galline e asino, non è un lavoro che aveva previsto.

Un lavoro faticosissimo e che conosco. Sono nata in campagna, nonno era contadino. Ho vissuto i miei primi nove anni di vita come Lucia. Ero piccola ma vedevo le mie zie, i nonni e il resto della famiglia allargata faticare. È un mestiere, come ben sappiamo, molto faticoso. Nel film, vediamo delle immagini molto belle di Lucia al contatto con la natura ma si vede tanto anche la sua fatica fisica nel governare tutto.

È una questione di fatica fisica, esatto. E non perché non ne sia capace. Quando si dice che da sola non riesca a farcela, sembra quasi che ci sia una disparità di genere per cui l’uomo ce la fa e la donna no.

È una fatica che, come dicevo prima, conosco bene. Con questo film, sono tornata molto a “casa”, non le Marche della realtà scenica ma l’Emilia in cui sono cresciuta. Ho una zia che ha ancora un’azienda agricola. Da piccolina, davo una mano in campagna, divertendomi ma avverto la fatica del nonno e dei contadini in genere. Una professione che andrebbe sempre presa in considerazione: un contadino lavora tanto ma per dare dei frutti a tutti noi, frutti sì della terra o degli animali ma anche di una fatica oggettiva e non soggettiva. Andare nei campi dalla mattina prestissimo fino alla sera non è una passeggiata. Ricordo nonno sempre molto, molto stanco. Un nonno che non ho avvertito come tale, pieno di coccole o attenzioni, perché era sempre stanco, per non dire stremato dalla fatica.

Erano anche anni più duri ma ho vissuto da vicino quella realtà. Ecco perché ho chiesto, durante le riprese di La ballata dei gusci infranti, di poter fare personalmente tutto ciò che Lucia fa. Ero contentissima di dar da mangiare alle galline, di tirare avanti le mandrie e di reimparare i versi che si fanno per dirigere le mucche. Ho ricordato anche quello che faceva mamma quando ero piccola, persino come si guida il trattore.

Ti ha permesso di recuperare anche un lato quasi ancestrale. Il film sorprende perché restituisce un’immagine della natura ancestrale: spesso dimentichiamo che l’uomo è nato a contatto con la natura. L’ha poi modificata per esigenze personali o professionali. Ma continua a essere in balia delle sue forze.

Me ne ricordo spesso, Un po’ perché ci sono nata in mezzo alla natura. E un po’ perché, anche in una città come Roma, ho scelto di vivere vicino al fiume Tevere, dove ci sono alberi e una parte di verde molto importante. Sono una persona che di pomeriggio va in mezzo alla natura. Ne ho di bisogno a livello psicologico.

Il film restituisce un’immagine della natura legata agli alberi e alla loro secolarità. Gli alberi resistono al tempo e fanno vedere la loro forza. Con le radici ben piantate, l’albero diventa abbraccio e sinonimo della vita. Per me, come per Lucia, l’albero racconta tanto. Nella seconda parte del film, Lucia si ritrova ad appoggiarsi a un albero e le tornano in mente i ricordi legati a quei posti vicino all’albero. Tutti, credo, abbiamo avuto a che fare nelle nostre vite con un albero, dove da ragazzini abbiamo scritto “ti amo”, avuto un incontro d’amore o giocato a nascondino. L’albero ha sempre rappresentato anche per me un momento meditativo.

Paola Lavini in La ballata dei gusci infranti.
Paola Lavini in La ballata dei gusci infranti.

In La Ballata dei gusci infranti, la natura ha però un ruolo quasi da antagonista. Si presenta con il terremoto, una realtà dirompente che provoca macerie sia fisiche sia emotive. È un terremoto, quello del 2016, che è ancora vivo nell’immaginario collettivo per una serie di ragioni, a cominciare dalla mancata ricostruzione. Ma che è comune a quasi tutta l’Italia, interessata da nord a sud da fenomeni sismologici più o meno importanti nel corso degli anni. Com’è stato portare in scena il dopo terremoto?

Più che pensare a quello che è successo, mi piace vivere le emozioni sul momento. In quei luoghi, intorno ai monti Sibillini, i segni di quello che il terremoto è stato sono piuttosto evidenti. Nel film stesso c’è una lunga carrellata finale sulle macerie. Il film è molto poetico e il terremoto non viene raccontato con feriti, sangue: bastano le immagini di come sono ancora le case per rabbrividire. Non mi capacitavo che tutto fosse ancora così. In cinque anni, molte case e molte strutture – non so se per motivazioni economiche o per questioni burocratiche - sono rimaste sventrate.

Lucia perde la sua azienda agricola e si ritrova in una tenda. Non le rimane niente, nemmeno gli animali, se non un asino, Silvano. C’è in lei una devastazione interiore: chi non ha vissuto realmente la situazione, non può capirla fino in fondo. Quando interpreto personaggi come Lucia, so che devo rendere una giusta verità a ciò che quelle donne o quegli uomini hanno vissuto in quel periodo.

Emotivamente, mi sono calata nei suoi panni pensando a quando perdiamo tutto. Tante volte nella vita possiamo perdere tutto, anche la ragione. I gusci infranti sono sì le case ma sono anche le nostre certezze. Pensiamo a come il Covid o la situazione internazionale che viviamo abbiamo messo a soqquadro tutte le nostre sicurezze. Si spera sempre che si riesca a rinascere. Lucia rende l’idea di come ce la possiamo fare nonostante ci possa trovare a non aver più nulla delle proprie certezze.

La casa, ad esempio, è una certezza per tutti noi, forse in modo eccessivo. Tutti compriamo casa. Ma forse tante volte ci leghiamo a cose materiali per poi non curare la parte più privata. Dovremmo chiederci tutti cos’è più importante: la materia, che può crollare sempre, o i sentimenti, gli amori, le amicizie, i valori etici. Sono questi ultimi i beni a cui ci attacchiamo quando ciò che è materiale crolla.

Lucia è completamente sola, senza marito prima e senza casa dopo. “E mo’ che succede?”, si chiede parlando con l’asino. Dal suo monologo, emerge un grande insegnamento: “Non guardare giù”, dice a Silvano ma anche a se stessa, “Guarda verso l’alto”. Giù c’è tutto quello che è crollato fisicamente, in alto i monti Sibillini. Ma è anche una metafora della vita: non guardare indietro ma guarda avanti. È qualcosa che mi hanno insegnato in Marocco. Mi ricordo bene la frase di una guida berbera rivolta a tutti noi occidentali che avevamo paura nel deserto deli animali, la loro filosofia di vita: non guardare in basso ma verso l’alto. La luce e non le tenebre.

Non guardare indietro ma guarda avanti. È qualcosa che mi hanno insegnato in Marocco.

Paola Lavini

In La ballata dei gusci infranti sei diretta da una donna, giovane tra l’altro, Federica Biondi. Com’è essere diretti da una donna? Ci sono differenze nella direzione? Hai alle spalle esperienze lavorative con registi immensi, da Bellocchio a Diritti, passando per Avati e Pontecorvo. Che fatica fa una donna a imporsi?

Ho accomunato Federica ad Alice Rohrwacher, con cui ho lavorato in Corpo celeste. Mi piacerebbe che non ci fosse più alcuna differenza e che nessuno ponesse di conseguenza la domanda. C’è una differenza di sensibilità o, quanto meno, di atteggiamento verso la vita. L’uomo è comunque diverso dalla donna ma non vuol dire che è meglio o peggio. Siamo semplicemente nati diversi. A tale diversità tengo molto. Non credo nella parità dovuta al fatto che dobbiamo rinnegare una diversità. Credo semmai nella parità dei diritti, nella parità di espressione. Si ha sempre l’idea di una donna un po’ deboluccia che deve lottare sempre.

È pur vero che nel mondo esistono ancora più registi che registe ma mi piace sottolineare come uomini e donne abbiano raggiunto almeno una parità di capacità. Le donne che ho incontrato, Alice ma anche Federica, sanno esattamente quello che vogliono. Quindi, sono donne che dirigono con sensibilità ma anche con molta caparbietà e molta decisione. Sono sicure di quello che vogliono e il taglio da dare ai film. Non ho avuto di fronte donne deboli o fragili ma capaci di guidare una troupe e di dire esattamente quello che volevano, con modi calmi, gentili o carini.

Con Federica, facendo leva sul mio bagaglio di attrice ed esperienze, abbiamo collaborato nel creare il personaggio di Lucia. Ho potuto apportare quello che per me era giusto. Rischio compreso, come guidare un trattore. Mi piace mettermi in gioco: sono una avida di avventura. Era più preoccupata di me che mi facessi male. Abbiamo anche una sensibilità molto comune. Ci siamo accorte, fuori dal set, che ci vestiamo persino in maniera simile. E, come me, sembra molto calma dal di fuori ma è molto “rossa” dentro.

Paola Lavini in La ballata dei gusci infranti.
Paola Lavini in La ballata dei gusci infranti.

E hai girato anche un altro film con una donna, La California, diretto da Cinzia Bomoll e con la sceneggiatura firmata tra gli altri da Piera Degli Esposti.

Cinzia è tutt’altro tipo di donna. Anche lei molto decisa in quello che vuole. Si tratta di un lungometraggio molto impegnativo, diverso dalla soluzione di La ballata dei gusci infranti. Ho avuto a che fare con una troupe enorme, con una mega produzione internazionale. Quelle di Cinzia erano responsabilità molto diverse. È un’altra donna che sembra acqua cheta ma che in realtà ha dentro un fuoco. Ecco il “rosso” che dicevo anche per Federica: è un fuoco che dà vivacità e caratteristiche un po’ “deformi”. Sembrano molto gentili e carine ma poi scrivono delle realtà anche molto dark o surreali. O hanno un modo di vestire o di dirigere che nasconde un pizzico di follia, che io amo tantissimo. Hanno un mondo particolare dentro che è pieno di vitalità, di voglia di dire tante cose. Ma sono sensibilissime, ognuna a proprio modo.

Usciranno prossimamente diversi film a cui hai preso parte. Anima bella in sala dal 28 aprile, L’isola del perdono con Claudia Cardinale, Knockdown della regista russa Inessa Gorde’ (in cui in scena siete solo tu e Fabio Fulco), Brado di e con Kim Rossi Stuart. Ma, soprattutto, la commedia Io e mio fratello di Luca Lucini. Dico soprattutto perché voglio sfatare un mito: Paola Lavini è anche una grande attrice comica. Come hai dimostrato in Gli anni belli o negli spot di una catena di supermercati con Lino Banfi. Come si passa dai toni drammatici a quelli più leggeri?

Ti prego, aiutami a sfatare il mito per cui la Lavini fa solamente il cinema drammatico. Quello di Gli anni belli era solo un cammeo ma mi piaceva molto l’accoppiata con Bebo Storti. Ma ero anche in School of Mafia, uscito al cinema e disponibile già in piattaforma, dove interpretavo una tombeur des hommes in un chiaro richiamo a Mimì metallurgico. Mi piace fare il mestiere di attrice in tutte le salse. Mi rivedo, perdonatemi il paragone, in Monica Vitti: per tanti anni, è stata dentro uno scenario di cinema d’autore importantissimo per poi essere ricordata per le commedie. Anch’io ho alle spalle tanto cinema d’autore che amo ma ho tante sfumature, come dovrebbero averle tutti gli attori. In tutti questi anni, ho fatto mio il patrimonio culturale di tutta l’umanità: non solo il nostro cinema ma anche quello spagnolo o francese.

Mi sono trovata bene con Lino Banfi, negli spot. È un mostro sacro, una divinità ormai. Una persona pazzesca, molto umana, con una famiglia unitissima e una moglie che ama da tutta la vita. È stata un’esperienza breve ma di grandissimo peso. I veri grandi sono persone molto belle anche dentro.

Sono di natura predisposta alla comicità, alla commedia. Mi diverto tanto. Ho i tempi comici. Prima di fare cinema ho fatto tanti musical. Paragono il musical al varietà. Sono cresciuta con i miti di Raffaella Carrà, di Mina e delle soubrette di una volta. Forse per la mia fisicità sono andata verso più un canale d’autore, chiamiamolo così. Ma sono una che si diverte tantissimo: con Luca Lucini, ci siam trovati benissimo. Sembrerà strano ma mi piacciono tutti i generi.

Non è strano. È il pregio di tutti gli attori versatili.

Eppure, alcuni attori vengono incastrati in certi ruoli. Io per anni ho fatto la calabrese perché avevo recitato in alcuni film calabresi. Tutti pensavano che fossi solo calabrese e, invece, hanno poi scoperto piano piano che faccio tutti i dialetti.

Quello dei dialetti è un altro capitolo a parte. Ha la straordinaria capacità di passare dal calabrese al marchigiano o al romano con estrema naturalezza e credibilità. Da dove nasce l’attenzione per il dialetto? Si percepisce che è qualcosa che esula dal mestiere di attrice.

Grazie al canto, sono abituata a un ascolto molto preciso e attento delle lingue e di tutto ciò che sono i suoni. Ho anche studiato Lingue e, quando parlo in inglese, francese, spagnolo e tedesco, ho una pronuncia che è morto veritiera. Mi piace l’idea di parlarle bene e l’ascolto facilita: non sarò madrelingua ma quasi in alcune di queste. Per necessità di copioni, ho dovuto confrontarmi con i dialetti. La prima tappa di questa escalation è stata con il rumeno: dovevo interpretare una rumena nella commedia I mostri oggi di Enrico Oldoini. Nessuno ci credeva ma, grazie a un’amica rumena, mi sono impegnata notte e giorno per riuscirci. Ho capito in quel caso di avere delle capacità nei dialetti.

Con Alice Rohrwacher in Corpo celeste ho recitato il mio primo ruolo da calabrese. Devo dirlo, altrimenti mi rinnegano: una parte della mia famiglia ha sangue calabrese, originaria di Palmi (dove ho frequentato anche l’Accademia di arti drammatiche). Ma molto è frutto del mio lavoro di ascolto: tutta la mia famiglia è emigrata in Emilia, dove sono cresciuta. Tutti pensano che sia calabrese ma non lo sono. Mi sono dovuta impegnare molto per convincere Alice che fossi giusta per la parte.

Il mio talento vero non è lo studio. Sì, mi metto a studiare con le cuffie ogni dialetto, chiedo agli amici, ascolto tutto quello che vedo su internet con quella cadenza. Però, poi, ho la fortuna che lo studio mi rimane. È questo il talento: non devo andare a riprendere un dialetto quando mi si ripresenta. È una scoperta che ho fatto sul lavoro, non sapevo di essere così capace. Di necessità, virtù.

Come capirete, ho una faccia del sud.

Più che del sud, quasi greca. Non hai caso hai interpretato Maria Callas nel biopic Carla, su Carla Fracci.

Si, mi dicono greca, siriana, di tutti i sud più a sud! Maria Callas era il mio mito. Desideravo interpretarla da quando ero piccola… A un certo punto ho capito che la mia faccia era più connotabile come sud.

Non avresti potuto fare la bionda svedese, è chiaro.

No (ride, ndr). Anche se gli immigrati calabresi stanno dappertutto (risponde con inflessione calabra, ndr). Se vai in Svezia, secondo me, trovi qualcuno che ha origini calabresi!

Una cosa che non mi era stata chiesta per La ballata dei gusci infranti - ma da parte di come sono fatta io e di come affronto il mio lavoro - era l’accento marchigiano di Lucia. Non poteva non averlo. Lucia è così legata alla terra, agli animali e al mondo agricolo che non poteva non parlare in marchigiano. Ho chiesto quindi l’aiuto dei marchigiani per poter avere un’inflessione consona.

Paola Lavini (photo by Alessija Spagna).
Paola Lavini (photo by Alessija Spagna).

Citavi prima il canto. Ricordo il tuo impegno con lo spettacolo con Vince Tempera ma anche con quello legato al Mediterraneo, mosso da temi come immigrazione e pace.

Il progetto con Vince Tempera è ancora in itinere. Lo portiamo in giro da tre anni, ovviamente con i salti imposti dalla pandemia. Nasce per il centenario della nascita di Federico Fellini e si basa sulle colonne sonore dei film, composte da grandi autori come Nino Rota, Ennio Morricone o dallo stesso Vince Tempera. È un po’ legato al varietà: canto ma, soprattutto, mi calo nei panni di alcune interpreti, tra cui Anna Magnani, Sophia Loren e Monica Vitti. È uno spettacolo divertente in cui Vince Tempera parla dei suoi aneddoti e io lo accompagno facendo, in questo caso veramente, da soubrette.

Il progetto legato al Mediterraneo è tutt’altra cosa. Non mi chiedere il perché ma sono spesso andata in Marocco. Sono molto legata fisicamente ma evidentemente anche come indole, forse una vita fa ero araba dentro, al Marocco e a tutti i territori del Nord Africa. Ho girato anche dei film, L’isola del perdono e Le lune rouge. Mi sono trovata poi a collaborare, qui in Italia, in varie situazioni di immigrazione con il musicista e compositore marocchino Nour Eddine Fatty. E insieme abbiamo portato in scena uno spettacolo sulla convivenza tra etnie e religioni diverse, sull’unione tra i popoli.

Paola Lavini (photo by Alessija Spagna)
Paola Lavini (photo by Alessija Spagna)

Sul fronte privato, hai raccontato qualche tempo fa in un’intervista di essere scappata di casa quando hai scelto di voler fare l’attrice.

Vengo da una famiglia complicata, dolcemente complicata, che era decisamente contraria al mestiere. Avevamo già delle problematiche esistenziali di visione della vita. Sono andata via di casa molto presto per potermi mantenere e fare quello che poi volevo fare, cioè l’attrice, la cantante. La libertà economica ti permette di concretizzare chi sei.

Ho fatto un percorso molto strano. Ho lavorato per un po’ con le lingue a Modena, ho messo da parte i guadagni come una formichina. Grazie all’indipendenza economica raggiunta, ho deciso di andarmene completamente lontano e di studiare, ricominciare a studiare Teatro in maniera seria. Fino a quel momento, l’avevo fatto un po’ part time un po’ la sera, di nascosto da papà. Non lo sapeva: ricordo che dicevo di essere in ferie ma in realtà ero a fare degli stage.

Andai a fare i laboratori giovanili, ho cominciato con il Teatro di Ricerca, di nascosto da papà e mamma. Eravamo di base a Palermo e abbiamo fatto tappa in tre paesini che ancora ricordo: Villafrati, Godrano e Mezzojuso. Eravamo in mezzo alla gente: facevamo spettacoli in piazza in cui io facevo l’aiuto regia. Ero una ragazzina, mi ospitavano dappertutto come una zingarella e mangiavo tantissimo. Ricordo ancora il sapore del pane, quello vero, e… le pance da pane!

Lo dico sempre ai ragazzi più giovani. Quando sei libero economicamente, fai le scelte che vuoi tu. Se invece devono darti la paghetta papà e mamma, è tutto più complicato. Papà, anche quando ero a un buon livello, continuava a dirmi: “Ma sei sicura?”. La mia era una famiglia radicata più nella praticità: il soldo qui e adesso, non domani. Io sono invece più pragmatica e ho inseguito Paola, la mia indole.

Ma ho fatto anche la cantante da piano bar. Un’altra esperienza, come tante altre che non sono nemmeno note, per capire chi fossi realmente. ‘Na matta!. È vero che ho frequentato una scuola di musical importante ma prima ho fatto tutte le mie ricerche con canti arabi, africani, klezmer… di tutto e di più. Se mi chiedi perché, non ti so rispondere. Ero e sono sempre alla ricerca. Non è finita la mia ricerca.

Quando sei libero economicamente, fai le scelte che vuoi tu. Se invece devono darti la paghetta papà e mamma, è tutto più complicato.

Paola Lavini

Ricercare vuol dire anche migliorare. Quando ricerchiamo, in fondo, cerchiamo noi stessi. Quelle parti del nostro carattere che ancora non conosciamo, quelle parti della nostra personalità che sono un mistero. Quando hai capito che volevi fare l’attrice?

Ma sai che io non l’ho ancora capito? Io mi sento più un’interprete. Canto, scrivo, esploro: interprete di quello che faccio. Il sindaco di Amatrice, presente all’anteprima romana di La ballata dei gusci infranti, mi detto complimentandosi che mi trasfiguro. Divento il personaggio. Sembra che pecchi di presunzione ma in realtà voglio esprimere un concetto un po’ diverso.

L’attrice è una che gioca, to play. L’interprete è una che fa da filtro, una persona che coglie una realtà, la fa propria e la restituisce a chi non ha la stessa capacità o sensibilità.

È un modo mio per comunicare quello che il personaggio interpretato ha vissuto o provato realmente. Il mestiere di attrice mi si avvicina nella mission di interpretare. Anche se in questa ultima parte della mia vita il canto mi manca. Come Whitney Houston, sono nata come cantante in parrocchia. Le prime “esibizioni” sono state nella mia parrocchia rock di Maranello. Ho poi fatto di tutto, dal metal al rock o al melodico. Nei musical, una canzone è in realtà il monologo di un’attrice. Non si deve pensare solo all’intonazione o alla bella voce ma anche all’interpretazione, ciò che arriva di più al pubblico.

To play rende bene il modo di fare tutti i miei lavori. Recitare è un brutto termine, non mi è mai piaciuto. Lo so che interprete è un termine impegnativo ma mi sento così. Da qui nasce la mia meticolosità nel preparare i personaggi. Se sono realmente esistiti, bisogna essere doverosamente attenti. Abbiamo una responsabilità nei confronti del pubblico che ci vede, che ci ascolta. Essere interprete è quello: arrivare a emozionare, nel bene o nel male, chi ci vede o ascolta. Anche divertire, non penso solamente a far piangere.

Paola Lavini in La ballata dei gusci infranti.
Paola Lavini in La ballata dei gusci infranti.
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