Paolo Conticini è una figura del panorama artistico italiano che affascina per la sua semplicità, autenticità e per il modo in cui ha saputo coniugare la carriera con un profondo attaccamento ai valori personali e familiari. Ma chi è davvero Paolo Conticini, oltre l'immagine pubblica di attore di successo? In questa intervista, emerge un uomo che, pur essendo parte integrante del mondo dello spettacolo, non ha mai perso il contatto con la propria essenza.
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Quando si parla con Paolo Conticini, colpisce subito il suo approccio umile e ironico alla vita e al lavoro. “Non ho mai pensato che sarei finito a fare il battitore d’aste con un martelletto in mano,” dice scherzando, riferendosi al suo ruolo in Cash or Trash. La sua reazione iniziale al successo del programma non è stata di trionfo, ma di genuina sorpresa. Tale capacità di meravigliarsi è una costante nella sua personalità: “Sono rimasto sorpreso dall’accoglienza del pubblico e lo sono tuttora”. Sì, perché Paolo Conticini è un uomo che non dà nulla per scontato, nemmeno dopo decenni di carriera. C’è sempre un senso di stupore che accompagna ogni suo traguardo, come se non fosse mai completamente certo di meritarsi tutto il successo ottenuto.
Questa autoironia e umiltà derivano da una profonda consapevolezza delle difficoltà intrinseche nel suo mestiere. Paolo Conticini conosce bene i momenti di incertezza che caratterizzano la vita dell'attore: “Il percorso che ho fatto è stato durissimo, fatto di continui no e ripetuti rifiuti”, riflette. La sua forza d'animo si rivela proprio in questa capacità di perseverare nonostante le difficoltà, senza mai perdere la connessione con la realtà e il mondo esterno.
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Dietro l’artista si cela un uomo molto legato alla sua famiglia e alle sue radici. Il suo amore per gli animali, ad esempio, è un valore che gli è stato trasmesso dal nonno Alvaro, figura centrale nella sua crescita. “Nonno Alvaro era un cacciatore, ma mi ha insegnato a rispettare la natura e gli animali. Da lui ho ereditato questa passione innata per il mondo animale”. Questa eredità emotiva è uno dei pilastri della sua vita e della sua identità, che rimane fortemente ancorata a valori semplici e genuini, come l'affetto per gli altri e il rispetto per la natura.
Paolo Conticini, inoltre, non è mai stato un uomo legato agli oggetti materiali, se non per il valore affettivo che vi si nasconde dietro. Racconta con tenerezza del peluche Gigi, un oggetto semplice ma carico di ricordi che lo accompagna dall'infanzia. È un simbolo del suo attaccamento al passato, non per nostalgia, ma per l’importanza che dà ai legami e ai sentimenti. Per lui, gli oggetti diventano il veicolo di storie, proprio come gli oggetti che racconta nel suo programma Cash or Trash.
Anche la sua visione della carriera riflette questo approccio: Paolo Conticini non si è mai visto solo come un attore. Nonostante il successo e la popolarità, ha sempre tenuto viva una sorta di timidezza nel definirsi tale. Non è un segno di insicurezza, ma di un profondo senso di responsabilità. Per Paolo Conticini, il mestiere di attore è un gioco che va trattato con serietà e rispetto, e il suo continuo dubbio sulla propria identità professionale è un riflesso di una ricerca interiore costante. Vuole essere più di una semplice immagine pubblica: desidera rimanere fedele a se stesso.
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Dietro il sorriso e la simpatia che lo caratterizzano sullo schermo, c’è un uomo profondamente riflessivo, che ha attraversato momenti di crisi e di autocritica. Non ha mai nascosto che la sua carriera è stata segnata da dubbi e ripensamenti, ma in ogni fase ha saputo trovare dentro di sé la forza per andare avanti, cercando sempre un piano B. La capacità di adattamento è forse uno degli aspetti più rilevanti della sua psicologia: la sua voglia di non fermarsi mai, di reinventarsi e di esplorare nuovi orizzonti, senza perdere mai il contatto con la propria identità.
Infine, Paolo Conticini è un uomo che vive intensamente le sue relazioni personali, come dimostra il lungo legame con la moglie. “Il segreto di un rapporto duraturo? Amore, complicità e tanta pazienza”, dice sorridendo. È un altro aspetto della sua vita che riflette la sua personalità: nonostante la sua carriera pubblica, la sfera privata rimane per lui un luogo di autenticità e intimità, dove coltiva i legami più importanti.
Paolo Conticini è, in fondo, un uomo che cerca la verità nelle cose semplici, sia nella sua carriera artistica che nella vita personale. Il suo successo non lo ha mai allontanato dalla sua umanità, dalla sua curiosità innata e dalla volontà di rimanere autentico in un mondo che spesso richiede il contrario.
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Intervista esclusiva a Paolo Conticini
“Dovrebbe essere la settima edizione, anche se sono poco ferrato con i conteggi”, scherza Paolo Conticini quando lo raggiungiamo telefonicamente prima dell’inizio delle registrazioni delle nuove puntate di Cash or Trash, il programma fenomeno dell’access di Nove. “Quando mi hanno proposto, ero molto scettico sulla dinamica del programma ma al contempo curioso. Ma, come ogni offerta di lavoro, va sempre presa in considerazione: ho realizzato la puntata zero e facendolo mi sono accorto di quanto il tutto fosse divertente”, risponde quando gli chiediamo se si sarebbe mai aspettato alla vigilia il successo riscontrato.
“Mi sono chiesto persino che ci facessi con un martelletto in mano a far da battitore d’aste. Ma, quando sono arrivati i risultati d’ascolto della messa in onda, sono rimasto sorpreso dall’accoglienza. Sono tutt’ora sorpreso: spesso le repliche vanno ancora meglio della prima messa in onda. Ed è anche un periodo molto favorevole per Nove, la rete che ci ospita: sta letteralmente esplodendo, è appena arrivato anche Amadeus a farci compagnia e gira voce che altri grossi nomi arriveranno presto. E sono molto contento di tutto ciò”.
Il successo del caso di Cash or Trash si sposa son la semplicità del programma stesso: dopotutto, a tenere banco è sempre un semplice oggetto.
Le cose semplici sono spesso quelle più difficili da realizzare. Sembra un controsenso ma non è facile far qualcosa di semplice. Certe volte ci si arrovella per stupire o meravigliare il pubblico mentre Cash or Trash dimostra come sia la semplicità a far presa sul pubblico: tutti quanti abbiamo qualcosa in casa che ci è stata regalata o che abbiamo trovato di cui ci chiediamo il valore. Ragione per cui è un programma alla portata di tutti, dai bambini agli anziani, con anche una sua valenza socio-culturale: dietro a un oggetto, si celano storie o dettagli legati a particolari periodi storici che ci permettono di rinfrescare o di scoprire notizie sulle nostre radici o tradizioni.
C’è un oggetto che ha accompagnato la tua vita fino ad ora e di cui non ti libereresti mai per nessuna cifra?
Non sono una persona estremamente legata agli oggetti per il loro valore: mi dispiace semmai buttarli via perché spesso mi sono stati regalati da qualcuno o magari mi ricordano qualcosa. Tanto che con mia moglie c’è un tacito accordo: ci penserà lei a farli sparire perché altrimenti rischierei di diventare un accumulatore seriale, non perché mi piace accumulare ma per il ricordo insito in ognuno di loro.
Però, c’è un oggetto a cui sono particolarmente affezionato: è un peluche di nome Gigi che è con me da quando sono nato. Era stato regalato a mio fratello, più grande di me di due anni e mezzo, che lo ha sempre rifiutato: non gli ho mai chiesto il perché… Ho dormito con Gigi fino agli undici o dodici anni: ne sono ancora oggi gelosissimo ma non ci dormo più insieme (ride, ndr). In compenso, dormo con un altro “peluche”, un maltipoo di nome Dado, un cagnolino di quattro chili, arrivato dopo la morte di Iago, il mio chihuahua.
Da cosa nasce l’amore per i cani?
L’amore per gli animali mi è stato trasmesso da mio nonno. Sembra un controsenso ma nonno Alvaro era un cacciatore che catturava uccelli per motivi di studio: li inanellava e li riportava in libertà per seguirne la migrazione. Anche se credo che l’amore per gli animali sia qualcosa di innato, è stato lui che mi ha fatto avvicinare agli animali con trasporto e passione.
Nonno Alvaro è uno dei pilastri della famiglia Conticini…
È stata una figura fondamentale nella mia crescita: mio padre, com’è giusto che sia, ha sempre fatto il padre mentre mio nonno, pur comportandosi con me da padre, è stato anche amico e modello da imitare o seguire. Tra di noi c’era grandissimo feeling: mi ha educato, mi ha viziato e mi ha insegnato molto… ma fino a un certo punto perché poi era geloso di ciò che sapeva (ride, ndr). Probabilmente, voleva anche farmi percorrere una strada diversa rispetto a quella più sicura voluta da mio padre, che mi spingeva a trovare un lavoro sicuro per un futuro meno instabile. Papà sapeva quanto dura fosse la vita.
Che tipo di bambino era il Paolo di allora?
Ero un bambino che seguiva gli insegnamenti del padre, che condivideva la giornata con il fratello e che imparava. Non credi di essere cambiato molto da allora: avevo il desiderio di scoprire, ero spinto dalla curiosità, notavo tantissime cose ed ero attratto dalle novità. Come lo sono ancora oggi: mi piace ad esempio chiacchierare molto con le persone e conoscerle proprio perché appassionato alla novità.
Ho ancora tanta voglia di fare e di scoprire cosa sarà o succederà. Rispetto al passato, forse ho più i piedi per terra: non mi posso permettere di essere incosciente quanto in passato. Incosciente sì ma anche ubbidiente e rispettoso nei confronti della famiglia: ascoltavo sempre gli “ordini” che mi venivano dati.
Al lavoro di attore però arrivi quasi per caso.
Tentavo di trovare un’occupazione ma non sapevo cosa fare: saltavo di palo in frasca. Mi capitò di partecipare a un concorso per vigili del fuoco e contemporaneamente mi venne offerta la possibilità di fare cinema. In quel momento, ebbi un conflitto terribile con mio padre che vedeva sfumare l’idea di stimare il figlio. Oggi posso dire che aveva ragione.
Perché il lavoro di attore comporta costante disequilibrio?
Il percorso che ho fatto è stato durissimo, come quello di tutti coloro intraprendono questo mestiere fatto di alti e bassi, di continui no e di ripetuti rifiuti. È il nostro un lavoro assurdo che dipende da fattori esterni a te come la fortuna o la volontà altrui: puoi essere bravo quanto vuoi ma se il pubblico non ti accetta o se non fai parte di un progetto che avrà successo, è tutto inutile. E, quindi, aveva ragione papà: mi aspettava una strada estremamente difficile ma fortunatamente oggi son qui che faccio un’intervista con te e lui è contento di quello che è stato. Ma ci sono stati mesi in cui non ci siamo nemmeno parlati. E a ragione, ripeto: se avessi io un figlio, non gli farei mai commettere la mia stessa follia.
Nei momenti di bassa, a cosa hai fatto appello per resistere?
Ho sempre cercato un piano B. Intorno ai 31 o 32 anni, stavo per aprire un ristorante. Avevo cominciato a quasi 25 anni a lavorare, erano anche arrivati tantissimi progetti ma niente che mi permettesse di essere indipendente e libero facendo l’attore. Sono arrivati dopo i film di Natale, la pubblicità per un operatore telefonico e i grossi contratti che mi hanno permesso di dire che faccio l’attore. Anche se, in un primo momento, non dicevo mai di esserlo perché me ne vergognavo… mi imbarazzava perché non lo ritenevo un mestiere al pari del chirurgo, dell’avvocato o del giornalista.
E quando hai fatto scrivere sulla carta d’identità la parola “attore” alla voce professione?
Non credo di averlo mai fatto…
Ma perché non ti riconosci in quell’identità?
Mi riconosco ma mi fa strano. Vedo il mio lavoro sempre come un gioco da portare avanti seriamente per due ragioni fondamentali: la convinzione di non avere altra strada davanti (sarebbe un bel salto nel vuoto) e il rispetto per il pubblico che paga anche per venire a vederti, per i colleghi che lavorano con te, per un produttore che tira fuori i soldi… sono tante le ragioni per cui si deve giocare seriamente.
I film di Natale, i cinepanettoni, un fenomeno di culto che improvvisamente si arresta: scoppia la coppia Boldi-De Sica e chi ha provato a prenderne l’eredità è andato incontro a tonfi incredibili.
È semplicemente finita un’epoca. Il cinema stesso oggi fatica ad andare avanti, dopo la mazzata terribile data dall’avvento di internet, delle piattaforme e del CoVid. È come se ci fossimo disabituati, dopo aver comprato televisori enormi, ad andare al cinema, a meno che non ci sia l’evento a cui tutti vogliamo prendere parte.
Non c’è quasi più voglia di andare al cinema quando due mesi dopo lo stesso titolo arriva in piattaforma e lo puoi recuperare, invitando persino gli amici a casa e organizzando con loro una cena, spendendo persino un quinto di quello che spenderesti nel prendere la macchina, mangiare una pizza ed entrare in sala.
E poi, diciamoci la verità, di idee originali ne vengono fuori poche. Vedo molta scarsità e un continuo ripetersi che tra sequel o remake non aiuta.
Ma cosa hai pensato nel momento in cui la coppia è scoppiata?
Era finito di sicuro un bel giochetto. Prender parte a quei film significava guadagnare soldi ma anche fare dei bei viaggi e avere una visibilità enorme. E avere visibilità faceva sì che arrivassero anche altre proposte di lavoro e avere un pubblico che ti segue e che ti ama. Ancora oggi, mi ritrovo gli effetti di quella visibilità, soprattutto quando sono protagonista di uno spettacolo a teatro.
Abbiamo pensato tutti a quello. Fortunatamente, avevo davanti a me altre strade aperte, come ad esempio la serialità televisiva, il teatro o i programmi d’intrattenimento, che mi hanno permesso di ammortizzare abbastanza bene quella grossa perdita. Altri colleghi, invece, l’hanno subita in maniera forte e in molti non si sono mai ripresi.
Curioso da bambino, da adolescente scopri il tuo corpo e muovi timidamente i primi passi come modello. Che rapporto avevi con quel corpo? E che rapporto hai oggi con la tua fisicità?
È un discorso che mi ha sempre imbarazzato. Sarei bugiardo nel dire che non notavo la mia fisicità ma sono stati gli altri a farmela scoprire. A sedici o diciassette anni, frequentavo da mia abitudine persone più grandi di me e fu Piero, un mio amico che all’epoca era già quarantenne, a suggerirmi l’idea di andare a bussare da un’agenzia di moda per partecipare alle sfilate, con mia incredulità.
Sono quindi sempre stati gli altri a vedere un qualcosa di diverso in me e a spingermi a fare dei tentativi: andai in quell’agenzia dietro quel consiglio e cominciai con le prime sfilate di moda, mai però per grandi nomi. E andò così anche per un concorso di bellezza: partecipai perché spinto da un agente di moda, di mio non ci avevo mai pensato. Sono sempre stato insicuro a riguardo, anche oggi: non sono spavaldo come può sembrare, sebbene questo lavoro comporti una buona dose di esibizionismo.
Hai mai comunque avuto la percezione che la tua fisicità poteva essere anche un limite?
Più che la percezione, la certezza. È successo tante volte che mi si scrutasse più degli altri ai provini con una certa aria di sufficienza, per cui dovevo mostrare quello che sapevo fare. Venivo visto in maniera diversa e messo costantemente sotto esame. Motivo per cui non occorre solo essere belli ma anche bravi per portare gente a teatro.
E a teatro torni a novembre con Tootsie.
Debuttiamo al Teatro Lirico di Assisi, con un testo che risulta essere molto attuale ma anche metaforico. Tootsie racconta di un uomo che si traveste per fare il suo lavoro, qualcosa che facciamo tutti noi attori, chiamati a indossare panni non nostri per lavorare. Ricordo ancora il mio primo provino con Christian De Sica, le sue domande e il modo in cui dovevo assumere un’impostazione fisica differente in base alle risposte, come se fossi adattabile a tutte le sue richieste. Come Dustin Hoffman che nel film Tootsie si traveste da donna perché è disperato dal non essere chiamato da nessuno, anche la maggior parte degli attori è disposto a far qualsiasi cosa pur di lavorare.
Tootsie è un musical: reciterai, canterai e ballerai. Quale preferisce delle tre attività?
Mi piacciono tutte e tre. Se da piccolo m’avessero chiesto cosa avrei voluto fare da grande, avrei risposto “il cantante”, senza sapere che da grande mi sarei ritrovato a cantare e ballare contemporaneamente: non potevo chiedere di meglio.
E tra cinema, teatro e televisione?
Cinema, teatro e televisione, però, si diversificano molto nelle modalità di esecuzione: fare cinema e tv è quasi noioso per i tempi di attesa tra una ripresa e l’altra o tra le riprese e la messa in onda. Recitare a teatro è più stimolante: nei pomeriggi liberi dalle prove, visiti città e paesi, e sul palco ti permette di avere il contatto diretto con il pubblico, qualcosa per me di fondamentale.
A chi diresti oggi grazie per quello che è arrivato dopo il primo provino?
Quel primo provino mi ha dato la possibilità di fare quello che sto ancora facendo oggi. Ma ci sono stati anche dei percorsi precedenti e altri che sono arrivati dopo. Quindi, il mio grazie andrebbe in primis a Christian e poi a tutti coloro che hanno creduto in me portandomi alla meta giusta.
Ti ha mai ferito il pettegolezzo?
Tantissime volte. Ma fa parte della notorietà, del gioco e della debolezza insita in ognuno di noi. Quando le mie spalle sono diventate più forti ed è cresciuta la stima nei miei confronti anche da parte dell’ambiente, ho imparato a guardare oltre. Il pettegolezzo arriva spesso da chi non ha altro da fare che guardare la vita degli altri ma oggi mi fa ridere. In passato, però, sì, mi incazzavo proprio perché non appartiene alla mia forma mentis: sono sempre stato una persona rispettosa e avrei voluto che non venisse tenuto nei miei confronti un comportamento che io non tenevo con gli altri.
Come reagisci invece agli effetti della popolarità?
Adoro le persone che mi fermano per strada per chiedermi una fotografia o per farmi i complimenti: sono tutte conferme del fatto che tutto ciò che hai fatto è andato bene. Mi piace l’affetto della gente, soprattutto se arriva da persone più adulte di me: sono quelle a cui non importa niente della tua notorietà e per tale ragione più sincere e dirette.
Il pubblico ti ha visto di recente anche nella serie tv di Rai 1 Gloria, ora un successo su Netflix, dove interpreti te stesso: è più facile o più complesso di interpretare altri?
Non esiste niente di più difficile che essere se stessi: il rischio è quello di diventare una macchietta. L’ho allora visto come un personaggio che si chiamava Paolo ma che comprendeva una parte enorme di fiction per come era tontolone e troppo concentrato su se stesso. Come uno degli attori tipici del cinema italiano, pronto a fare i capricci per un camerino troppo piccolo o una battuta in meno rispetto al collega: qualcosa che non ho mai sopportato e che non mi è mai appartenuto.
Credo di avere avuto la scuola più bella del mondo in tal senso: ho lavorato molto con De Sica, Boldi e tutti altri professionisti con i contro attributi che mi hanno insegnato che i grandi attori non fanno mai capricci e non necessitano di rivalersi su bazzecole. Non dico di essere un grande attore come loro ma credo di aver appreso da loro quale sia l’atteggiamento da tenere. Come si dice a Pisa, ‘chi se la tira, se la stacca’.
Quale attributo deve avere nella vita di tutti i giorni una persona per essere tua amica?
La lealtà, immancabilmente. E, infatti, le persone di cui sono amico sono le stesse che sono cresciute con me. Negli anni ho raccolto conoscenze e tanti altri amici ma quelli che hanno resistito sono coloro con cui sono cresciuto. Anche perché l’ambiente dello spettacolo è molto fuorviante in tal senso, “falso”: quando le cose vanno bene, ti cercano tutti ma, quando vanno male, non c’è nessuno a chiamarti. Non sai mai di chi fidarti o quali ragioni si celino dietro a un avvicinamento. E da buon pisano c’è della sana diffidenza in me: preferisco stare con le vecchie amicizie, con chi non ha alcun interesse nell’essere mio amico.
Stai per celebrare i trent’anni di attività. Li festeggerai?
Non so se festeggerò prima i trent’anni con mia moglie o quelli di lavoro: i due grandi eventi della mia vita sono andati di pari passo (ride, ndr).
Detto tra noi, mi confessi il segreto per stare insieme da trent’anni con la stessa persona?
Innanzitutto, l’amore. E poi la complicità… e tanta pazienza. Senza queste tre componenti, non si va da nessuna parte.
Tante vacanze, anche per lavoro, come ricordato prima. Ma ce n’è qualcuna che ti manca ancora?
No, perché la vacanza che desideravo è quella che sto realizzando ora. Con mia moglie, abbiamo trovato una casa all’isola d’Elba in cui trascorriamo gran parte dell’anno o ritorniamo ogni volta che ne abbiamo l’occasione. Abbiamo trovato sull’isola una dimensione molto carina, semplice e vera, che si avvicina a quella delle nostre radici. Sebbene siamo a due ore da Pisa e a tre da Roma, sembra di stare dall’altra parte del mondo. È una bella vacanza, no?
Lo è: l’isola cambia la percezione sul mondo stesso e sulle sue priorità.
Appena saliamo sul traghetto, abbiamo la percezione di essere già in vacanza. Siamo in un posto che si chiama Poggio, a 350 metri di altitudine, e si vede il mare in lontananza: è magico… c’è un’energia meravigliosa ed è molto rilassante, immersi nel silenzio.
Riesci a staccare totalmente la spina?
Non proprio. Il mio cervello va sempre a mille: la maggior parte delle discussioni con mia moglie nasce proprio dal mio impegno nel pensare e voler fare sempre qualcosa. Ragione per cui studio sempre e sto alla costante ricerca di novità: è difficile che io stia fermo.
Nei tuoi trent’anni di lavoro, ci sono state delle volte in cui, prendendo parte a dei progetti, hai pensato “ma chi me l’ha fatto fare?”?
Chiaramente, ci sono stati progetti che sono andati meglio di altri e altri che sono andati peggio: le reputo però tutte esperienze costruttive. Ho avuto abbastanza fortuna nel non avere avuto mai schianti totali… però, sì: una volta mi convinsero a fare alcune pose in una fiction con la promessa da parte del produttore di avere un ruolo da protagonista nel suo successivo lavoro. Non se ne fece più nulla e forse avrei potuto risparmiarmi quella fatica.
Il passato torna sempre a bussare: cosa ne pensi di un’altra possibile stagione di Un medico in famiglia?
Il mio personaggio era una sorta di Peter Pan, sarebbe oggi fuori luogo per questioni anagrafiche, e dovremmo trovare la quadra giusta se me lo chiedessero. Parliamo di una serie che porterò sempre nel mio cuore, anche per il ricordo che conservo del produttore Carlo Bixio, una persona meravigliosa. Non me l’hanno ancora proposto ma prenderei in considerazione l’ipotesi.
Così come direi di sì a un ritorno di Provaci ancora, prof!, una serie tv i cui risultati dell’ultima puntata dicevano che si sarebbe potuto continuare il racconto. E c’erano anche ottime prospettive per farlo, con il trasferimento della storia e del cast a Napoli. Ancora oggi, quando pubblico sui social, ricordi legati alla prof, ricevo il pieno di like di gente che vorrebbe il ritorno di quel racconto in grado, con la sua comicità, di affrontare temi e argomenti profondi e importanti, dalla ludopatia alla violenza sulle donne.
Guardando al futuro, il ruolo che ancora non è arrivato?
Non mi hanno mai chiesto di interpretare un cattivo. Mi piacerebbe da morire portare in scena un delinquente, qualcosa che esuli da tutti i ruoli che ho finora interpretato. Purtroppo, c’è un grosso limite nel cinema italiano: l’ingabbiamento di un attore in un ruolo che ha funzionato. E su di me è stata posta l’etichetta del simpatico, come se avere una “bella faccia” fosse indice solo di quello.