Pasquale Provenzano è un giovane cantautore e polistrumentista siciliano. Ha appena pubblicato il suo nuovo singolo, Milioni di parole (Mind), una ballata nostalgica in cui la poesia della sua scrittura ripercorre un momento decisivo per la sua vita di musicista e uomo.
Ha solo 26 anni Pasquale Provenzano, eppure sembra che abbia vissuto tantissime vite in una sola. Milioni di parole preannuncia il suo primo album, Piccole, minuscole cose. E di queste piccole, minuscole cose abbiamo voluto parlare con lui, muovendoci in bilico tra le piccole e le grandi questioni esistenziali.
Con un cognome del genere, era inevitabile parlarne sin da subito per evitare ogni dubbio. Originario di Prizzi, nel palermitano, non ha alcun legame che possa ricondurlo a qualcuno di tristemente famoso. Anzi, Pasquale Provenzano è laureato in Giurisprudenza e insegna anche Diritto in una scuola secondaria paritaria. Ha una bella responsabilità sulle spalle: ogni giorno è a stretto contatto con i ragazzi che costituiranno la società del domani e a loro deve trasmettere il valore della legalità, della libertà e dell’uguaglianza.
E, curiosamente, senza neanche cercarlo, durante il corso di quest’intervista Pasquale Provenzano torna indietro nel tempo, alla sua infanzia. In un momento in cui la televisione italiana ci offre uno squallido ritratto di vip che escludono qualcun altro perché diverso da loro, Pasquale Provenzano ripercorre gli anni in cui l’esclusione e, per riflesso, l’autoesclusione hanno segnato il suo essere bambino.
Si parla tanto oggi di body shaming. E inevitabilmente lo si collega all’universo femminile sottovalutando quanto anche l’altra metà della mela possa essere sensibile al riguardo o quanto possa essere stata vulnerabile negli anni. Ma non c’è vittimismo nelle parole di Pasquale Provenzano. Come suggerisce il titolo del suo singolo, le parole sono milioni e tocca a noi darle il giusto peso. Anche quando tutto il mondo intorno sceglie una direzione che invece tu percorrerai in maniera ostinata e contraria.
Intervista esclusiva a Pasquale Provenzano
È appena uscito il tuo nuovo singolo Milioni di parole e sta avendo un ottimo riscontro. Cosa si prova nel raccogliere i frutti di quello che per molti era un passatempo?
È un periodo abbastanza bello e pieno. Veniamo fuori da due anni difficili. Prima del lockdown da CoVid e dalle successive restrizioni, stavo cominciando già a raccogliere qualche frutto del mio impegno ma la pandemia ha tagliato le gambe un po’ a tutti, costretti a rimanere a casa. Tutto ciò che stava per iniziare è stato posticipato ed è ripatito lo scorso anno con il botto, con un’occasione che ha reso possibile ciò che oggi sto vivendo: un concerto in Francia organizzato dal Parlamento Europeo con al centro giovani provenienti da tutta Europa chiamati a far rete, ognuno con la propria esperienza in ambiti artistici differenti. È stata una bella boccata d’aria fresca di cui avevo bisogno ed è in quella circostanza che ho conosciuto i ragazzi della mia attuale etichetta discografica.
E come spesso accade sono le piccole, minuscole cose, per giocare con il titolo del tuo prossimo album, che portano a grandi cose. E tu sai come si gioca con le parole dal momento che sei laureato in Giurisprudenza. Cosa porta uno studente di Giurisprudenza a dedicarsi alla musica a tempo pieno.
A proposito del CoVid, mi sono laureato durante la prima sessione di laurea a distanza durante il lockdown… Rigiro però la questione. Io mi sono chiesto diverse volte in effetti cosa avesse portato me, un musicista, a studiare Giurisprudenza. Avevo anche frequentato il liceo classico, presentato una tesina alla maturità sui poeti maledetti. È lecito che mi chieda io stesso perché non abbia continuato poi con Lettere o con il Conservatorio. La risposta è però semplice: volevo avere più contezza del mondo che ci circonda. Non mi pentirò mai di aver scelto Giurisprudenza, pur essendo una facoltà molto tosta e con materie di un certo peso.
Però, mentre studiavo, continuavo a scrivere e fare musica in una città come Palermo che, come si sa, non è che offra tantissime possibilità in ambito musicale. C’è stato anche un momento in cui ho pensato di mollare gli studi ma ho poi stretto i denti e sono andato avanti. Ho fatto un po’ come alcuni dei miei punti di riferimento artistici, cantautori con un percorso simile al mio: penso ad esempio a Brunori, laureato in Economia. In fin dei conti, Giurisprudenza mi permette di avere uno sguardo a 360° sulla realtà che mi circonda e mi permette di avere un’ottica diversa, più sociale, sulla mia arte.
La tua laurea in Giurisprudenza mi permette anche di scherzare sul tuo cognome abbastanza “pesante”.
A parte il cognome, ho anche un nome abbastanza pesante alla pronuncia. Pasquale Provenzano è quasi cacofonico, non è la stessa cosa di Tommaso Paradiso! Nonostante il cognome, non c’è nessun legame nemmeno lontano con il boss siciliano.
E per mia fortuna non ricordo particolari e spiacevoli ricordi legati al cognome, se non quando partecipando a Casa Sanremo il presentato sul palco del Palafiori si mise a “scherzare”, imitando anche l’accento siciliano, su di esso. Capisco l’ironia ma non era quello il contesto. In un ambiente così istituzionale, l’avrei evitata: non era come quando si scherza tra amici. So che il mio cognome si porta dietro tanti stigmi sociali. Ma non mi andava di sceglierne uno d’arte: mi piace rendermi la vita complicata!
Dici di scrivere musica per radical chic e per universitari esauriti.
Il concetto di radical chic per me è collegato, oltre che a un determinato modo di guardare alla vita, alla fascia di ragazzi che hanno tra i venti e trentacinque anni. Anche perché non penso che al di sotto dei vent’anni sappiano cosa significhi! Mi rivolgo con i contenuti dei miei brani ai miei coetanei, sono quelli con cui so, anche per questioni anagrafiche, interfacciarmi meglio. Lo stesso ragionamento può estendersi agli universitari esauriti! Mi piacerebbe avvicinarmi a un pubblico più giovane, senza dubbio. Anche perché, nel frattempo, sto usando la mia laurea per insegnare diritto ed economia in una scuola superiore.
Quindi, hai la possibilità di avere un feedback immediato. Ma i tuoi studenti ascoltano le tue canzoni?
Qualcuno le ascolta abitualmente. E non può che farmi piacere ma anche sperare che il cantautorato in Italia possa andare ben oltre a ciò che sento oggi, progetti che faccio fatica a definire musicali. Mi piace che ci siano giovani di dieci anni meno di noi che si avvicinano a un certo tipo di musica, non solo al cantautorato in generale ma anche ai cantautori siciliani. E di bravi cantautori ne abbiamo tanti in questa terra, da Dimartino a Mario Venuti.
Sostieni anche sui tuoi social che scrivere è un atto di coraggio.
È un atto di coraggio perché ti permette di confrontarti anche con un lato di te stesso che non riesci ad accettare o che accetti solo in parte. La scrittura è quel mezzo che ti permette di metabolizzare aspetti del tuo carattere o avvenimenti particolari che possono farti stare male o bene a seconda delle circostanze. Scrivere è come mettersi davanti a uno specchio, guardarsi, capirsi e decidere che direzione prendere.
Ma c’è anche un’altra motivazione più sociologica, se vogliamo. Per chi come noi proviene da un piccolo centro di provincia siciliano, è sempre una scommessa quando ci si espone in ambito artistico. Se non giochi a calcio, sei quello strano per intenderci. Io ricordo ancora i commenti poco lusinghieri da parte di gente del mio circondario quando ho pubblicato il primo videoclip su YouTube. Migliaia di views in due giorni di gente che non era tanto incuriosita dalla canzone ma che era mossa dal desiderio di prendermi per il culo. Trovavano ilarità in quello che stava succedendo. Per non parlare dei commenti sui sociali: “Ma perché non vai a X-Factor?”, scritto a mo’ di sfottò.
Era il 2018, non chissà quanto tempo fa. Oggi mi accorgo che invece, soprattutto nei giovani, la sensibilità è cambiata. Frequentando gli ambienti scolastici, mi accorgo di come tra ragazzi e ragazze ci siano alcune teste molto, molto belle, lucide e pensanti. Ci sono anche realtà a livello associativo che sembrano essere molto più aperte e partecipate di quando avevo io sedici anni.
Scrivere è esporsi anche personalmente, come dicevi tu. E in Milioni di parole, il tuo ultimo singolo, ti esponi molto a livello personale raccontando dei tuoi dubbi di musicista a un bivio essenziale: la carriera o gli affetti? Come se le due strade fossero inconciliabili.
C’è una persona nella mia vita a cui sono legato da parecchio tempo. Mi trovavo a Strasburgo per il concerto di cui parlavo prima. Ero in una terra straniera per suonare ma inevitabilmente nella mia testa si sono susseguite molte domande e dubbi. Se credi in quello che stai facendo, certe questioni te le poni.
E adesso che si fa? è stato il primo pensiero. Per la prima volta, la musica mi aveva portato lontano dai miei affetti e dal luogo in cui vivo e sono cresciuto. Ho molto rispetto di chiunque e di qualunque cosa che mi gravita intorno o attorno alla quale io mi trovi a gravitare per un motivo o per un altro. La domanda era lecita: ce la posso fare? Nonostante la felicità del momento, sentivo una certa malinconia di casa, dei miei affetti e delle persone che mi avevano permesso di arrivare fino a lì. E se con gli anni quegli stessi affetti avrebbero potuto dirmi che non c’ero mai quando occorreva la mia presenza?
E hai trovato una risposta?
Dobbiamo seguire quello per cui crediamo di essere nati. È un po’ come quando nei film si dice “se ami qualcuno lascialo libero”. È una frase che possiamo riferire pure a noi stessi: dobbiamo sentirci liberi di fare quello che vogliamo e di avere fiducia in chi ci dice che ci sarà. Alla fine, se son rose fioriranno: vale sia per la musica sia per gli affetti. “Sei nella mia testa in sei milioni di parole” può riferirsi sia alla persona amata sia alla musica, qualcosa di cui non potrei fare a meno e che mi spinge ad andare avanti, anche quando mi sento dire che a 26 anni per il mercato musicale sono vecchio.
A 26 anni sei già arrivato alla data di scadenza?
Si, per alcuni discografici si, tanto che sono spesso nati dubbi anche in me. Ma se la possibilità mi si è presentata adesso che colpo ne ho? In Sicilia, fino a dieci anni fa era quasi impensabile avere uno studio di registrazione casalingo, anche piccolo, con cui produrre la propria musica. Ma niente può fermarmi: ho passato già due compleanni fermo per la pandemia e ho solo voglia di continuare per la mia strada.
Fa paura comunque pensare che a ventisei anni ti giudicano “vecchio”.
Credo che tutto sia legato all’ottica puramente consumista alla quale ci hanno abituati negli ultimi anni. È figlia della stessa idea per cui alcuni desiderano accorciare il periodo scolastico, passando dai canonici cinque anni delle superiori ai quattro, con valutazioni legate a sempre più test a crocette. È un modo molto statunitense di concepire la scuola: non solo filorusso o antiamericano ma penso che ci sia un limite a determinate cose. E la società del consumo ha anche un po’ rotto il c**zo perché fa perdere la rotta, la trebisonda di quello che è l’essere umano.
Hai però cominciato a suonare a sedici anni. Cosa ti ha spinto a suonare? Il classico “sacro fuoco dell’arte”?
Se penso a una chitarra che suona, il primo ricordo va a due persone che oggi non ci sono più. Uno è mio nonno paterno: suonava la chitarra e si divertiva a proporre musica folk in dialetto siciliani durante le serate con gli amici. In paese, si ricordano tutti di mio nonno: era un buon chitarrista per quei tempi. Mi ricordo di lui che suonava la chitarra seduto sul divano del salotto di casa mia: mentre giocavo, gli chiedevo di inventare canzoni che avessero come oggetto quello che stavo facendo.
L’altra persona, invece, è quella che è stata fondamentale nel farmi capire cosa significasse essere un musicista. Suonare, saper suonare e avere attitudine per la musica sono tre fasi differenti: non è detto che ogni musicista riesca a farle proprie. Non mi definisco un virtuoso della chitarra ma se ho capito come si fa musica e come si affronta lo devo all’unico insegnante di strumento che per sei mesi ho avuto, Salvatore Giacopello.
Mi rivolsi a lui quando, dopo aver superato la pigrizia, a diciott’anni ho avuto grazie alla patente la possibilità di spostarmi da un paese all’altro. Insegnava in un’accademia musicale di Corleone. Mi spiegò cosa fosse la musica ponendomi delle domande. Capii allora che non tutti gli strumenti erano uguali, che non tutta la musica era uguale.
E come hanno preso i tuoi genitori, siciliani, l’idea di avere un figlio musicista?
Quando ho detto ai miei che non serviva pagare la retta del secondo anno all’Università perché volevo fare il musicista, in casa è scoppiato un terremoto. Sono stati mesi di fuoco: tutte quelle crisi tra genitori e figli che non avevo vissuto durante l’adolescenza si sono verificate in quel frangente. Stavo per compiere vent’anni, non avevo mai manifestato atteggiamenti irresponsabile e non ero mai stato un rivoluzionario, motivo per cui mi ritenevano una persona matura e non capivano la mia scelta. Pensavano ai problemi legati alla mia stabilità, anche economica, futura, non sapendo che comunque un piano b l’avrei trovato: avrei potuto ad esempio insegnare al conservatorio.
Al loro no, mi sono anche rifiutato di ascoltare musica per mesi e mesi. Mio padre mi chiedeva continuamente se mi sentissi Lucio Dalla o De Gregori. E forse è stato anche questo che mi ha spinto dopo il periodo di silenzio a riascoltare musica partendo da due album fondamentali, Dalla e Lucio Dalla, l’essenza della musica italiana degli anni Ottanta per quanto concerne il cantautorato pop. Sono i due dischi che mi porterei su un’isola deserta!
Hanno cambiato idea oggi i tuoi genitori?
Si sono rassegnati. Anche perché nel frattempo mi sono laureato e ho trovato un lavoro come insegnante. Hanno capito che lavoro e musica possono convivere e infatti mi ritrovo a insegnare diritto e a parlare di cantautorato, di musica e di rivoluzioni culturali in classe. I miei oggi sono passati dall’aver paura che potessi mandare in fumo tutto i sacrifici che avevano fatto fino a quel momento al sostenermi anche nelle spese collaterali che il lavoro di musicista comporta. Ed è questa la vittoria più grande. L’importante è che i miei genitori e le persone che hanno sempre riposto fiducia in me siano felici di vedermi felice.
E chi ti sta accanto sentimentalmente è felice?
Sono sicuro che c’è da parte sua un supporto fondamentale. Se non ci fosse stato, oggi non saremmo qui a parlare di Milioni di parole.
Non deve comunque essere stato facile trovare muri.
Non è facile quando tutti dicono no e tu senti che invece è sì. Ci vuole sì determinazione ma anche una persona speciale accanto. L’intimità che si crea è il fuoco che serve ad alimentare il tutto. Sul palco o in scena indossi degli abiti che ti puoi permettere di togliere solo quando sei a casa, con le persone con cui stai bene.
In un verso di Non tremo più, tuo precedente singolo, canti di essere stato uno sfigato.
È vero, lo ero o meglio mi ci facevano sentire, almeno fino al primo anno di università. Sin dalle elementari, ho patito il fatto di non essere alto e di avere qualche chilo in più. Sono stato preso in giro per il mio aspetto fisico sia alle medie sia alle superiori da quelli che in quel momento si ritenevano fighi e che oggi sono finiti a fare i peggiori lavori. Non ho subito chissà quale grosso trauma: c’è gente che ne rimane segnata a vita e che ha bisogno di aiuti esterni per superare l’esclusione. Da insegnante, purtroppo, noto che certi atteggiamenti sono duri a morire: vedo tutti i giorni cosa significa vedere ragazz* mess* da parte dai bulli.
Il bullismo è l’estremizzazione violenta dell’esclusione. Non è facile non sentirsi accettati dal gruppo dei pari.
Io ho cominciato alle elementari a scrivere. La sera dopo che finivo i compiti avevo un quaderno su cui annotavo i racconti che inventavo. Pensandoci, era come un modo inconscio per staccarmi dalla realtà. Era una sorta di diario ma non parlavo solo di me. Continuo forse a farlo anche oggi ma in maniera più conscia con le canzoni ma allora avevo bisogno di staccarmi dalla realtà.
Ricordo che venivo escluso e che automaticamente ero io che mi escludevo e precludevo determinate esperienze. Sentivo i commenti quando stavo per esempio per arrivare a bordo piscina e chiaramente da quelli cominciavo anche a farmi certi miei film. A volte è anche facile crearsi delle illusioni per cui sono sicuro che ci saranno state anche occasioni in cui ero io che vedevo la realtà in maniera diversa.
Ti senti oggi un uomo libero?
Non lo so se mi sento libero. Mi viene da dire sì. Ma come dico spesso a mio padre, che ha idee diverse dalle mie, fino a quando la mattina potrò alzarmi, andare a lavorare, scrivere quello che voglio e avere la possibilità di suonarlo e cantarlo, allora mi sentirò un uomo libero. Mi ritrovo spesso a parlare di libertà con i miei studenti. Forse l’unica libertà residua, che è la più importante, è quella di fare bene e di avere rispetto verso il nostro prossimo. È il punto di partenza per ripartire e ricostruire qualcosa di umano. Credo nell’intimità e nella bellezza delle piccole, minuscole cose.