Tutti conosciamo Peperita. O, almeno, siamo convinti di sapere chi sia. Abbiamo visto Peperita in azione a Bake Off Italia, il talent show di Real Time condotto da Benedetta Parodi, imparando ad apprezzarne allegria, leggiadria, spontaneità e maestria nell’arte della preparazione dei dolci. Colorata e divertente, Peperita ha portato il mondo drag in prima serata senza eccessi, scandali o pruderie a cui certa televisione ci aveva abituato.
Tuttavia, in pochi conosciamo Giacomo Liuzzi, che a Peperita ha dato vita. Durante il corso di quest’intervista in esclusiva, cambieranno spesso i pronomi usati, lasciando che a rispondere siano, a seconda dei casi Peperita o Giacomo. In punta di piedi, cercheremo di ripercorrere insieme il cammino che ha portato Giacomo a essere Peperita e, viceversa, i momenti in cui Peperita ha lasciato spazio a Giacomo.
Per capire quand’è nata Peperita, dobbiamo tornare ad esempio a Bari e al Giacomo sedicenne che, in un laboratorio teatrale, grazie alla perspicacia di un maestro come Marcello Prayer, comincia a relazionarsi con il suo lato femminile. Giacomo sapeva già qual era la sua identità, l’aveva realizzata a dodici anni, ma è stata la recitazione a portare a scoprire nuovi lati di un carattere che sarebbero a breve esplosi.
Cresciuto da una famiglia amorevole e aperta, come diremmo oggi, segnata dalla presenza di nonna Giulia e dal supporto di mamma Francesca e papà Teodoro, Giacomo ha lasciato poi presto Bari per raggiungere Milano. Ma, nella capitale meneghina, non tutto è stato semplice e forse non tutto ancora lo è. Mentre Peperita prende vita nei momenti più impensabili, Giacomo di giorno è un comunissimo lavoratore che qualche volta ha dovuto confrontarsi con i pregiudizi di chi non sa cosa sia realmente l’arte del drag.
Intervista esclusiva a Peperita
“Sto bene, anche se con l’arrivo della primavera si fanno sentire le allergie, soprattutto a livello degli occhi. Ogni volta che mi metto l’ombretto, comincio a lacrimare che sembro la Madonna del miracolo: lacrimo colorato e glitter!”. Comincia così la nostra intervista a Peperita, con un assaggio del clima di ironia, comicità e serietà che ci riserverà durante tutto il corso della chiacchierata.
Le spiego che cercheremo di rimanere in bilico tra Peperita, l’alter ego drag con cui la conosciamo tutti, e Giacomo, l’uomo che dà vita a Peperita. E, nel rispetto che ho sempre nei confronti delle persone intervistate, chiede se possa in qualche modo crearle fastidio. “Sono perfettamente in sintonia con me stesso. Ho parlato della mia storia anche in uno One Drag Show, in cui racconto da quando sono nato fino all’arrivo a Milano”, mi risponde.
“Concludo il mio show con un monologo sulle drag e una frase che ho scritto anni fa ma che mi rappresenta sempre: Giacomo e Peperita sono i due lati della stessa medaglia, camminano sempre schiena a schiena e mai faccia contro faccia. Peperita prende vita quando Giacomo decide che lo faccia, in quel momento lui sparisce del tutto. Ho imparato con gli anni a scindere completamente la persona dal personaggio: il pubblico, pagante e non, vuole il personaggio; la mia famiglia, i miei amici e la mia cerchia intima vogliono la persona”.
Non è facile incontrare chi riesce a tenere separati persona e personaggio. Spesso il secondo finisce con il prendere il sopravvento e inglobare la persona…
Non è il personaggio a essere più forte. È che quando hai una maschera, come accade per noi drag con trucco, parrucco e abiti, riesci a permetterti dei lussi che da “uomo” non potresti prenderti mai in quanto tutti abbiamo ricevuto un’educazione più o meno rigida. Abbiamo dei filtri mentali che ci impongono un determinato comportamento e anche un determinato modo di relazionarci con la gente. Quando si va in scena con il personaggio, invece, si abbattono i filtri. Il personaggio si muove su un binario completamente diverso e ti rende più forte. Ma, in realtà, sei sempre tu ma non i filtri tolti.
Tocca dunque capire come prendere il meglio del personaggio e portarlo nella persona. Da Giacomo, ad esempio, sono una persona molto timida, anche se non si direbbe, e riservata. Di conseguenza, nelle situazioni di panico, sfrutto Peperita: anche senza trucco, riesco a trasformare la mia testa e abbassare quei filtri per risultare simpatico. Dentro di me c’è la guerra ma fuori il sorriso.
Spesso è proprio la timidezza che sta alla base dell’esplosione di personaggi come Peperita: è come se fosse una terapia d’urto. Quando nasce Peperita?
Peperita è nata a Bari quando avevo sedici anni. È allora che per la prima volta che l’ho dipinta nella mia testa. Come tutti, ho avuto un percorso di vita un po’ particolare, lungo e articolato, fino a quando in un determinato momento, su consiglio di persone esperte chiamate ad aiutare la mia famiglia a incanalare le mie energie (ero iperattivo), ho frequentato un corso di teatro. Durante le lezioni, il maestro Marcello Prayer si è accorto che ero estremamente in contatto con il mio lato femminile e quasi per sfida mi ha chiesto di approfondirlo.
Ovviamente a sedici anni non potevi frequentare all’epoca i locali gay dove si esibivano le drag. Ma, una volta fingendo di avere 18 anni, ho preso il mio scooter, regalato dal nonno, e sono andato in uno dei locali di Bari. Ricordo ancora il forte profumo e il fascino emanato dalle drag e da quel momento non mi sono più fermato psicologicamente con la costruzione del personaggio. Ho fatto poi tantissima gavetta.
Per quattro anni, sono stata la portaborse di una drag queen che in Italia è molto famosa, diventata poi il mio migliore amico, La Wanda Gastrica: le portavo la valigia o le tenevo lo specchio mentre si truccava nei sottoscala. Fino a quando non mi ha chiesto se fossi pronta per la mia prima serata. Nel truccarmi per la prima volta per uno spettacolo, mi sono riconosciuta e da lì non mi sono più fermata: era il 2009.
Ma Marcello Prayer ha individuato dal nulla la tua parte femminile o c’era qualcosa in te che la lasciava trasparire?
Il corso che teneva era molto particolare. Spegneva le luci del teatro, ci faceva fare un esercizio di respirazione e poi ci chiedeva di interpretare con il corpo degli agenti atmosferici o degli oggetti. Il suo era un corso sulla percezione del proprio corpo e a me è risultato utilissimo. Ero sovrappeso ma, grazie al corso, ho imparato a camminare senza urtare la gente: ancora oggi al buio conosco perfettamente i limiti del mio corpo e lo spazio che occupo. Dopo una delle sue lezioni, mi disse che aveva notato come, quando facevo qualcosa che tirava in ballo la parte femminile, mi sentissi molto di più nella mia comfort zone. Ed effettivamente era vero: con un paio di scarpe da tennis inciampavo, con i tacchi no.
Tu avevi già indagato la tua identità sessuale?
Si, sapevo già della mia sessualità. Ne avevo preso consapevolezza quando a 12 anni ho sentito la mia prima pulsione sentimentale nei confronti di una persona del mio stesso sesso. Era un mio compagno di classe a cui ero particolarmente affezionato: solo dopo ho capito che non era affetto ma una fortissima intesa sentimentale, che non sfociata in nulla. Non si era come i ragazzi di oggi: all’epoca, a 12 anni si giocava ancora al parchetto con gli altri bambini o si costruivano le casette sugli alberi.
Sebbene abbia preso coscienza presto della mia sessualità, non ho mai dovuto fare un vero e proprio coming out a casa. Ho avuto la fortuna di avere una famiglia intorno con una mente apertissima. Mia nonna lavorava all’ospedale di Bari, al Policlinico, all’accettazione ma per anni è stata anche un’ostetrica: era abituata a vedere ogni tipologia di persona e a trattare tutti allo stesso modo, a prescindere da ogni distinzione. Quindi, ha educato anche i suoi figli alla normalità dell’incontro con l’altro.
Quando ho avuto la mia prima fidanzatina, l’ho portata a casa e lo stesso ho fatto qualche anno dopo con un ragazzo con cui poi sono stato cinque anni. L’ho presentato sin da subito come il mio compagno e non c’è mai stata la scena madre in cui facevo svelavo il mio orientamento e mi cacciavano di casa. Anzi, una volta, per esorcizzare quello che per molti ragazzi è un dramma, con mia madre l’abbiamo pure inscenata…
E tuo padre come l’ha presa?
Mia madre aveva già allora un’apertura mentale straordinaria. Mio padre, invece, ci ha messo un po’ più di tempo ad accettarlo. Ma non perché fosse bigotto o omofobo: aveva semplicemente scarsissima conoscenza di quel mondo, nonostante la cliente preferita della sua salumeria fosse Sabrina, una delle prime donne transessuali di Bari dalla bellezza stratosferica. Tra l’altro, ha impiegato più tempo anche per un altro fattore: doveva fare i conti con l’idea che non avrei portato avanti l’eredità del cognome di famiglia e che non sarebbe diventato nonno di un bambino che si sarebbe chiamato come lui.
Ha raggiunto la pace dei sensi quando mia sorella ha avuto una figlia e l’ha chiamata come mia madre: forse il suo più grande desiderio era proprio quello di diventare nonno. Pensa che la festa del suo 70° compleanno il prossimo 10 aprile, ha invitato prima il mio compagno che me, inaudito! (ride, ndr). Mi ritengo un figlio, un fratello e un nipote molto libero cresciuto in una famiglia libera di amare. Ed è bellissimo: so di avere un porto sicuro a cui fare affidamento nei momenti di difficoltà, cosa che molti dei componenti della mia comunità, quella LGBTQIA+, non hanno. Ecco perché per molti di loro sono una mamma drag: li accolgo e cerco di confortarli quando non vengono più guardati in faccia dalle loro famiglie.
Il rifiuto delle famiglie, il disconoscimento e la violenza psicologica tra le mura domestiche sono alcuni degli aspetti di cui si parla sempre poco. Si tende a sottolineare sempre gli atti di bullismo che vengono dall’esterno e quasi mai di quelli che provengono da chi ha il tuo stesso sangue.
Sono quelli che ti segnano a vita. Forse con un po’ di coraggio e forza si possono superare se non da soli con l’aiuto del tuo gruppo. Dai bulli ci si può difendere anche con l’aiuto degli altri ma come ci si difende dalla famiglia o dalla persona che ti ha messo al mondo che ti guarda con disprezzo? Basta uno sguardo a volte per far soffrire cinque volte di più di un pugno in pieno viso dato in centro città. Ma tutto questo è come sempre colpa dell’ignoranza: genera sempre violenza. Nessuno di noi nasce con il libretto delle istruzioni, neanche i genitori, e occorre dunque che si conosca prima di esprimersi. Con la mia esperienza a Bake Off, nel mio piccolo, ho cercato di sdoganare un po’ di pregiudizi e ignoranza: sono entrato in casa degli italiani “normalizzando” la figura delle drag queen e scacciando qualche demone.
Sulla figura della drag queen sono tanti i pregiudizi legati anche a un modo sbagliato di intenderla. Nell’ottica comune, drag queen equivale a travestito anche per via di un immaginario collettivo che hanno contribuito a creare soprattutto in passato film o prodotti televisivi.
L’immaginario è legato quasi sempre a Il vizietto ma fortunatamente, come per tutte le professioni e quindi anche i lavori artistici, ci sono delle evoluzioni naturali. La figura della drag queen è arrivata molto prima negli Stati Uniti che da noi. Qui, abbiamo avuto all’inizio della storia delle drag italiane degli esempi, anche televisivi, di figure che, invitate nei salotti televisivi, venivano chiamate solo per rispondere a domande inerenti sulla sfera sessuale. Chiaramente, la gente ha finito con il fare confusione. Con Bake Off ci ho tenuto a mostrare che modificare il corpo e l’aspetto è un vero e proprio lavoro, un lavoro normalissimo per cui pago le tasse, ho una partita IVA e fatturo.
Entrare a Bake Off da Peperita e non da Giacomo è stato anche coraggioso da parte tua…
Sono una persona che si butta nella vita. Mi hanno insegnato che se non risichi non rosichi. Avevo una mia missione e non ho mai pensato agli altri concorrenti o alla rivalità. Volevo far vedere a tutti quanti quanto sia bello avere diversi colori come quelli della bandiera rainbow ed essere liberi dagli schemi mentali che vengono imposti. È questo che mi ha spinto a esprimere me stesso al massimo della potenzialità e credo che il mio esempio sia arrivato: mi hanno scritto e continuano a scrivermi diverse mamme, incoraggiate ad affrontare con i propri figli temi delicati come quello della sessualità, e diversi figli, che grazie a me hanno trovato la forza di fare coming out o di esprimere il desiderio di voler diventare drag. Ecco, mi sono sentita un po’ come la Giovanna d’Arco della situazione, tolto però il rogo finale! (ride, ndr).
Non c’è niente di più naturale della sessualità, in tutte le sue sfumature…
È la cosa più bella che abbiamo. Quando riesci a esprimerla, sei sereno e ti senti leggero nei momenti in cui sei anche con il partner a fare una passeggiata per strada. Ti senti libero di prenderlo per mano e di non vedere più nulla di ciò che ti circonda: senti solo che stai amando. Dovrebbero imparare tutti a non pensare a chi si sta amando ma a concentrarsi sul fatto che stiamo amando.
Quand’è la prima volta che ti sei sentita libera?
Quando ho firmato il primo contratto di affitto a Milano. In quel momento, ho percepito un grande senso di leggerezza: è come se mi fossi appropriato veramente della mia vita e di quello che volevo fare. Avevo lasciato Bari con 20 euro in tasca e dormito per un mese e mezzo in un portone perché non avevo i soldi per affittare una stanza. L’affitto del mio primo monolocale di 17 metri quadri in via Padova mi ha fatto capire che ce l’avevo fatta: ero arrivata in una città che va a 300Km/h al secondo ed ero riuscita ad entrarci. Assecondare quel giro per me è stato sinonimo di libertà.
C’è mai stato qualcuno che ha provato a tarparti le ali? Se sì, come si reagisce?
Sapessi quanti… Peperita ha sempre risposto a chi ci ha provato, scherzosamente ma anche a volte in modo molto provocatorio. È capitato anche negli ambienti di lavoro di giorno, ho avuto dei capi in alcune aziende che hanno provato a mettermi davanti a una scelta: la crescita professionale o la vita da drag. Ho sempre scelto di non scegliere. L’ho sempre detto anche ai miei compagni: chi mi chiede di scegliere tra due cose, sta in quel momento limitando la mia libertà di scelta. E qualora fosse sceglierei sempre Peperita: è il mio modo di difendermi da chi vuol tarparmi le ali, sono bellissime e le spiego ancora di più.
In che settore lavori di giorno?
Sono impiegato nel mondo del service. Da dislessico iperattivo, sono una manna dal cielo per le aziende: ho la forza di un uomo ma il multitasking di una donna. Assumere me è come assumere tre persone! (ride, ndr). mi piace il lavoro che faccio, ho una spiccata attitudine al problem solving e per questo devo ringraziare nonna: a cresciuto me, i miei cugini e i suoi figli insegnando loro a concentrarsi sulla soluzione dei problemi e non sul piangersi addosso. Ci diceva sempre: quando vi si presenta un problema, prima risolvetelo e poi lamentatevi.
Hai notato mai, sempre negli ambienti di lavoro, episodi di discriminazione legati alle tue scelte?
In sincerità, sì. Lavoro da quando avevo 15 anni, ho iniziato come strillone per strada: vendevo i quotidiani al semaforo a Bari perché volevo comprare il mio primo telefono cellulare, quello che pesava 6 chili e con un’antenna di 12 metri con cui non potevi fare altro se non telefonare. Notavo qualche volta gli sguardi di disappunto ma erano latenti, non ho mai subito atti violenti.
Crescendo, c’è stato anche chi ha insinuato che pensassi ad altro anziché concentrarmi sul lavoro non capendo che cosa facessi io da quando timbravo l’uscita a quando timbravo l’ingresso era una questione privata e non aziendale. Ma spesso costoro erano coloro che nella vita non avevano avuto il coraggio di essere quello che veramente erano o di fare ciò che volevano. Ovviamente, è un mio pensiero personale e non una legge divina!
Oggi lavoro in una realtà splendida. Un mese fa, sono stato anche intervistato dall’hr ed è uscito un articolo sull’intranet aziendale che ha fatto il giro del mondo: sono ambasciatore per l’inclusività della mia azienda.
Ma è sempre stato tutto così facile a Bari?
Le grandi città del sud come Bari, Napoli o Palermo, si muovono a una velocità diversa rispetto ai piccoli paesi. Tuttavia, capitava che in un locale gay di Bari, nel quartiere Murat, ogni tanto si presentasse una piccola schiera di Forza Nuova che cercava lo scontro. Dimenticava però che spesso e volentieri nei locali gay ci sono delle donne transessuali che hanno una forza inaudita: ho assistito a delle scene meravigliose con una mia amica che sapeva come difendersi bene.
Comunque, ho visto un grande cambiamento in chiunque a Bari dopo il primo Pride. Ero già parte integrante della comunità gay di Bari, lavoravo come pr nella più importante discoteca della città e facevo parte del comitato organizzatore del Pride. In testa alla parata, con Vladimir Luxuria vestita da Madonna (non quella di Like a Virgin ma quella vergine!), c’era La Wanda Gastrica con un carrello della spesa, dove a un certo punto le signore hanno cominciato a mettere acqua e crackers, preoccupate per noi che stavamo sotto il sole cocente. In quel momento, abbiamo percepito un cambio completo di rotta: è come se ci avessero dato il permesso per uscire dai locali.
Però, ricordo la paura ad entrare per la prima volta in un locale gay, avevo nascosto il motorino tra i cespugli per evitare che mi vedessero, o quella che provavo quando con il primo fidanzato ci si scambiava un bacio in macchina al semaforo: tendevo subito a guardarmi intorno, un retaggio che ancora oggi mi è rimasto. Se il mio compagno Alessandro mi bacia per strada, alzo subito lo sguardo per vedere chi c’è. Poi mi chiedo perché lo sto facendo: siamo nel 2023 e la paura non è che possano farmi del male ma di urtare la sensibilità altrui.
Hai citato il Pride. Cosa rispondi a chi dice che sono semplicemente una carnevalata?
Come in ogni cosa, ci sono gli eccessi. Pensiamo ad esempio al tipo che dopo una vittoria calcistica è andato in giro per Milano vestito da Borat: la sua fede calcistica lo ha portato a una manifestazione di gioia un po’ più colorata. Il Pride non altro che una grande festa di tutta la comunità gay che chiede a gran voce di essere tutti cittadini di serie A. L’eccesso fa parte della festa e non deve essere considerato negativamente: è una provocazione che invita a non nascondersi o a non reprimere parte dell’identità.
Ma non è l’unico aspetto dei Pride. Il problema è semmai la rappresentazione che ne fanno giornali e tv. Hanno immagini di repertorio che usano dal 1997 e che mando in onda in continuazione. E quindi il pubblico medio vede le donne pipistrello e non gli avvocati che sfilano in prima fila o le famiglie arcobaleno. Non farebbero notizia o scalpore. Mostrare gli eccessi serve anche a distogliere l’attenzione dal nucleo centrale: i diritti, che con una serie di provvedimenti in questo momento storico stanno provando a levarci ulteriormente.
Pensi di dare un seguito all’esperienza maturata con Bake Off?
Sto continuando a preparare dolci. Ho un mio sito personale (www.lapepeincucina.com), aggiornato ogni due settimane, e un canale ufficiale Instagram dove ogni settimana pubblico un reel in esclusiva di una ricetta che non è presente altrove. Do in questo modo la possibilità a chi non sa navigare su internet di avere un accesso più immediato alla ricetta. E poi in cantiere ho altri progetti di cui non parlo finché non firmo i contratti: non perché sono scaramantico ma perché “non vendo sogni ma solide realtà”!
Non ho mai smesso di credere in questo sogno e sto lavorando affinché si concretizzi: non voglio improvvisare, motivo per cui nel frattempo sto facendo la gavetta imparando da alcuni degli chef più preparati in circolazione (da Mirko Ronzoni, per esempio). Come ho detto anche a Bake Off, se rinasco, voglio farlo come Benedetta Parodi: mi sono avvicinato alla cucina grazie a lei, ai suoi primi libri e alle sue prime ricette in tv.
Mai avuta la tentazione di partecipare a un reality?
Non sono nelle mie corde. Forse l’unico a cui parteciperei è Pechino Express: è il mio programma preferito dopo Bake Off. Mi ci vedo bene: potrei vincere per la tendenza naturale che ho nell’ottenere quello che voglio. Mi piacerebbe farlo come Peperita e in coppia con qualcuno che è l’esatto opposto di me: l’ideale sarebbe Pillon: farei una bella chiacchierata per lui per capire da dove nasce la sua chiusura nei confronti di tutto ciò che lo spaventa.