Stiamo vedendo Pia Lanciotti nella serie tv di Rai 2 Noi siamo leggenda nei panni di Beatrice Nenchi, la madre di Marco e Viola. Integerrima poliziotta, Beatrice ha un rapporto molto conflittuale con la figlia, ribelle e anticonformista. Così come l’oramai leggendaria Wanda Di Salvo, il personaggio interpretato da Pia Lanciotti nel cult Mare fuori, ha con il figlio Carmine. Scherzando, Pia Lanciotti sottolinea come negli anni, sin dal suo esordio, il suo percorso professionale sia stato segnato da ruoli materni che nulla hanno in comune con lei o con sua madre, come se in qualche modo il karma avesse voluto metterla alla prova.
Incontro Pia Lanciotti su Zoom per quella che doveva essere un’intervista di routine, a scopo promozionale come si dice. Ma, pian piano, la conversazione assume una piega sempre più personale: con la gentilezza che la contraddistingue, andiamo avanti a chiacchierare per quasi due ore, come due vecchi amici che si ritrovano dopo chissà quanto tempo. Molte cose dette rimangono private, com’è giusto che sia, ma scopriamo fuori dall’intervista di avere un film del cuore in comune, Susanna di Howard Hawks, e la stessa fascinazione per miti come Joan Crawford o Bette Davis, due donne dal carattere forte e indomabile.
E il carattere indomabile (che è ben diverso dallo scontroso o dall’altero) è qualcosa che si presenta anche nel percorso di Pia Lanciotti, quando rivela ad esempio di aver sempre sofferto l’autorità e litigato con quei maestri che hanno provato a imporle la loro visione limitandone la creatività. La creatività è la forza che muove tutt’oggi Pia Lanciotti, memore dell’insegnamento ricevuto da una madre bonariamente generale che sin da bambina la spingeva a credere nei propri sogni e a non mollare mai la presa, qualsiasi cosa accadesse intorno. Ma non perché la madre fosse la Anna Magnani di Bellissima: semplicemente aveva intravisto nel suo sguardo, dolcemente malinconico, un’autodeterminazione che difficilmente poteva essere cancellata.
Sì, perché Pia Lanciotti aveva solo quattro anni quando vedendo Cyd Charisse ballare e recitare in un film disse ai suoi di voler fare “quello”, senza ancora sapere cosa fosse quel “quello”. Il che, pensandoci, ha qualcosa di alchemico e magico che rende giustizia a quel sentore popolare per cui il destino è scritto dalle stelle. Dal caos, secondo i punti di vista, o dall’amore, quel sentimento universale a cui Pia Lanciotti crede senza distinzione di sorta, etichette o categorizzazioni. Tanto che il suo sogno è quello di scrivere una storia su…
Intervista esclusiva a Pia Lanciotti
“La cosa preoccupante è che non se ne rende conto nessuno”, esordisce Pia Lanciotti quando ci ritroviamo su Zoom e ci confrontiamo su uno dei lavori che la vedono protagonista, il doppiaggio di un audiolibro di cui parleremo più avanti nel corso della nostra conversazione. La discussione finisce inevitabilmente sulla violenza di genere ma anche sulla violenza delle donne nei confronti delle donne: “Si fanno discorsi enormi sugli uomini ma molto spesso bisognerebbe lavorare anche sulle donne stesse, sull’essere umano in generale. Dobbiamo lavorare per l’unità e non per la divisione e la frammentazione”.
Ci ritroviamo alla vigilia di una ricorrenza per te molto particolare: nel 2024, saranno ben trent’anni di lavoro come attrice.
Avevo 16 anni quando ho sostenuto la prima volta l’esame per accedere al Piccolo Teatro, prima di quell’età non era possibile accedervi: cambiarono il regolamento tre anni dopo, capendo che forse era insensato. Quella volta arrivai tra gli ultimi 45 selezionati tra 1200 persone ma non fui ammessa. Ritentai una seconda volta a 18 anni, appena finito l’esame di Stato, e fui ammessa, trasferendomi a Milano.
A 16 anni cosa ti portava a tentare la strada del teatro?
Avevo quattro anni quando ho avuto chiaro cosa volessi fare. Ero un’appassionata di commedie americane degli anni Cinquanta: guardavo quei film in cui Cyd Charisse ballava e dicevo che anch’io volevo fare “quello”. Ho cominciato presto a dire a mia madre che volevo studiare inglese e danza perché mi sarebbe servito: avevo le idee molto chiare, avrei voluto andare negli Stati Uniti e frequentare l’Actor’s Studio. Avevo già deciso cosa fare quando a sedici anni la mia insegnante di danza aveva letto un trafiletto su un quotidiano in cui si annunciava il concorso indetto dal Piccolo Teatro e si è tutto messo in moto. Il concorso prevedeva tre esami: superai quello al Teatro Argentina di Roma (quando ci sono tornata da attrice anni dopo, ho cercato la sala in cui avevo sostenuto il provino) e superai il secondo ma non il terzo.
A quattro anni vivevi ancora a Battipaglia, il comune in provincia di Salerno in cui sei cresciuta. Cosa ha significato per te spostarti a sedici anni?
Devo tutto ai miei genitori ma soprattutto a mia madre. Aveva notato la mia grande determinazione e ha capito che non avrei mai potuto realizzare ciò che volevo lì dove stavo: ha fatto di tutto per spingermi fuori di casa. Ho ancora delle grandi malinconie quando la sera esco per andare in teatro: è dovuta probabilmente a quella strana sensazione di abbandono e solitudine di quando mi ritrovavo da bambina a cinque o sei anni ad andare da sola a scuola di danza. Andavo da sola perché comunque i miei lavoravano ma mi guidava la determinazione.
Oggi si parlerebbe più correttamente di autodeterminazione, qualcosa che tu hai mostrato di avere in anni in cui per le donne era complicato farlo in quel settore che è poi diventato il tuo.
Non ci ho mai pensato. Non mi sono mai pensata differente da un uomo. E dirò anche di più… io non ho mai avuto figli e non ho mai pensato di averne, pur amando infinitamente i bambini. Ho sempre avuto un’immagine di me molto particolare: mi vedevo come quel bambino che in un film degli anni Trenta interpretava Tom Sawyer… Nonostante fossi estremamente femminile, ho sempre avuto i capelli molto corti.
Sdoganiamo così un altro cliché: una donna per essere tale non ha bisogno di essere madre.
Direi proprio di no. Anche perché l’energia creativa e quella generativa si nutrono dello stesso canale: c’è chi mette al mondo dei figli, chi scrive un libro, chi dipinge un quadro e chi fa film, come nel mio caso. Purtroppo, quel pensiero fa parte di una cultura che è stata inculcata e che non ha ragione di essere perché depotenzia il nostro potere. Io credo invece che la nostra vita sia un continuo scoprirci e rivoluzionarci, un morire e rinascere anche dolorosissimi: c’è chi rinasce attraverso un figlio e chi attraverso i personaggi che interpreta. In fondo, la relazione che un attore ha con un suo personaggio è figliare: spesso, quando lavori con le sostituzioni emotive, quel personaggio non è altro che la tua parte infantile, più nuova, non più in cattività o più fragile, che ha bisogno del tuo sostegno.
Sia nella serie tv Noi siamo leggenda sia in Mare fuori interpreti due madri. Nella prima, sei Beatrice, una poliziotta bella tosta e determinata che ha un rapporto complesso con i figli Viola e Marco. È un altro modo di essere madre rispetto a Wanda Di Salvo, che interpreti nella seconda. Cosa ti porta a differenziare due personaggi che ricoprono entrambi la stessa funzione sociale?
Io che non ho mai avuto figli, ho un rapporto particolare con i personaggi materni. Ho quasi sempre interpretato madri non sempre compiute: ero una madre anche in uno degli spettacoli teatrali più importanti a cui ho lavorato in passato, Il gabbiano di Cechov con la regia del lituano Eimuntas Nekrosis. Nonostante avessi trent’anni, interpretavo Irina mentre Fausto Russo Alesi era in scena mio figlio ed è stato il ruolo che mi ha posto all’attenzione degli altri. Come non si sa, riuscii in qualche modo a connettermi con qualcosa che non potevo conoscere se non attraverso l’immaginazione e il lavoro profondo fatto dal regista.
Da quel momento in poi, tutti i personaggi che mi hanno portato visibilità sono sempre stati legati a delle madri. Non volevo nemmeno interpretare Wanda Di Salvo: è stato il regista Carmine Elia a convincermi a farlo (“tanto poi sarai Anita in Sopravvissuti, perché no?”). Ho letto allora la sceneggiatura, in un primo momento erano previste solo tre scene, ma ho intercettato qualcosa di interessante in una scena in cui Wanda dava uno schiaffo al figlio Carmine. Tra i tanti dubbi che avevo c’era anche il fatto che per la prima volta avrei dovuto recitare in napoletano: nemmeno la direttrice del casting pensava che potessi farlo tanto meno io.
E, invece, è stato il personaggio che più di ogni altro mi ha fatto amare dalla gente. In tanti mi chiedono se mi sono documentata sulle donne di camorra: sì, ho dato un’occhiata qua e là ma non era quello che mi interessava portare in scena. Volevo semmai restituire con Wanda una madre che aveva intravisto (e che intravede) nel figlio qualcosa che lei non aveva per tante ragioni avuto la possibilità di fare: in Carmine, Wanda riconosce una parte di se stessa, quella che è più sana ma anche più fragile. Ragione per cui farà di tutto per proteggerlo e per allontanarlo, forse per dargli un impianto un po’ più strutturato. Nel corso di Mare fuori 4, ci sarà un flashback bellissimo in cui si vedrà com’erano: innamoratissimi l’uno dell’altra.
Per cui, riassumendo, Wanda è una madre che vorrebbe forse profondamente che il figlio si allontanasse da quel destino così nero nel quale lei non è invece riuscita a non cadere. Almeno è così come la vedo io: tento sempre attraverso la scrittura di portare qualcosa di mio che vada in questa direzione: ci sono dei momenti in cui l’umanità di Wanda emerge, soprattutto sul finale della terza stagione quando tutto quello che organizza è in realtà in difesa del figlio e non contro. Tutto ciò che la dannerà sarà sempre come lui la vedrà continuamente come un nemico. Anche perché, se non si fosse capito, a lei piace Rosa perché ha il suo stesso carattere: se i due potessero scappare via lontano, Wanda farebbe di tutto per farli andare via insieme.
È facile entrare e uscire da un personaggio così complicato che porti avanti da più stagioni?
Credo si intuisca quanto sia molto legata a Wanda per varie ragioni per cui mi piace fantasticare molto su di lei. È bellissimo quando un attore può affrontare sfide nuove o calarsi in personaggi potenti, occasioni che al cinema e alla televisione non ho mai avuto mentre al teatro sì. Mi mancano un po’ il teatro e l’affrontare quei personaggi che ci risuonano sempre, che si parlano di qualcosa che nella vita stiamo per affrontare o che abbiamo affrontato: molto spesso il personaggio aiuta sia l’attore sia lo spettatore a confrontarsi con i propri demoni o con qualcosa che credi di aver risolto in passato ma così non è.
In questo, trovo che gli artisti siano straordinariamente fortunati: lo studio di un personaggio riempie quegli spazi e quei silenzi che ti porti dentro aiutandoti a crescere. Ecco perché credo che sia importante scegliere con cura su quali storie investire, sono il territorio che permettere al personaggio e a un attore di incontrarsi per creare qualcosa di nuovo con cui danzare insieme allo spettatore. Lavorare a teatro è un continuo macinare karma per cui il lavoro è molto più autentico quanto più è profondo: è quasi un lavoro da alchimisti… l’alchimista trasforma, andando oltre quello che già si vede e c’è.
Il teatro è il mondo che ti ha formato. Ed è lo stesso mondo che non sta vivendo un momento particolarmente bello. Mentre nel sottobosco c’è grande fermento e creatività, in superficie non viene sostenuto a livello istituzionale: si chiudono i teatri anziché mantenerli in vita. Cosa dovrebbe cambiare secondo te della concezione che hanno tutti quanti del teatro e, soprattutto, quelli che detengono il potere?
Dovrebbe cambiare l’idea del potere: la politica dovrebbe essere un’opera collettiva ma sta diventando sempre più un abuso di potere. Chi ha la necessità del controllo non ha niente a che spartire con tutto quello che è l’arte. L’arte non è quello che pensano che sia, non è vero che non produce nulla: produce uomini ma non se ne accorgono. Chiudendo i teatri sottraiamo tanta meraviglia e tanto stupore all’essere umano.
Ti abbiamo recentemente visto in Circeo, dove interpretavi l’avvocata Tina Lagostena Bassi. Nonostante fosse la più matura anagraficamente delle tre protagoniste, era forse quella più moderna e proiettata al futuro.
Ho scoperto molto di Tina Lagostena Bassi, anche dopo le riprese. Per una strana coincidenza, sono stata da un medico che aveva avuto in cura anche lei da cui mi sono fatta raccontare com’era. Ma ho anche visto un video in cui per stare vicina alla figlia si era iscritta anche lei, oramai in pensione, ai corsi di reiki, ottenendo a 76 anni il secondo livello quando c’è ancora gente che non sa ancora nemmeno cosa sia.
Ma non solo… studiava i cristalli ed era stata amica di Fabrizio De André e Paolo Villaggio a Genova durante gli anni dell’Università. Anche quando si era ritirata dalla professione e poteva godersi la sua meritata pensione, non riusciva a star ferma e ha preso parte a un programma televisivo: ha fatto della sua vita un servizio collettivo, un qualcosa che la accomuna ad Angela Davis, di cui sto doppiando per un audiolibro Autobiografia di una rivoluzionaria.
Qual è stata, da donna, la difficoltà maggiore di addentrarsi in una storia come quella di Circeo?
La cosa che mi ha colpito maggiormente è stata la storia di Donatella Colasanti in sé. Il regista Andrea Molaioli mi ha fatto riflettere su una particolare nota: si era finta morta dopo essere stata massacrata e per lei, uscire dal bagagliaio di quell’auto in cui era stata rinchiusa, ricoperta di sangue, è stato come nascere una seconda volta. Nella serie tv, la si sente spesso dire “Io voglio vivere, voglio essere felice, non voglio essere ricordata come la vittima” e, invece, in qualche maniera tutti hanno continuato a vederla e definirla sempre come tale: non ha avuto la possibilità di rifuggire da qual destino.
Per certi versi, è come se fossa morta non una volta ma infinite volte, anche a causa dei processi con quelle orrende e vergognose procedure maschiliste e dell’impossibilità di buttarsi tutto alle spalle. Mi sarebbe piaciuto come Tina poterla salvare in qualche maniera: a me piace tanto riscrivere la storia e dare una seconda possibilità, un po’ come nello stile di Quentin Tarantino… sarebbe stato bello fare un Circeo in cui poteva avere una seconda possibilità di vita.
Come vivi la popolarità che ti è arrivata addosso oggi?
È divertente. E il lato bello è dato dal potersi confrontare quotidianamente con i ragazzi e con i bambini, parlare con loro e scoprire quali sono i loro sogni, quelli che si realizzeranno se ci credono veramente. Dico sempre loro di pensare in grande, solo così potranno diventare ciò che vorranno, e di non abbandonare mai la speranza, anche quando gli adulti provano a smorzarla con i loro “Dove dovete andare?”.
Purtroppo, certi atteggiamenti sono insiti in noi senza che ce ne rendiamo conto ma perché smorzare il sogno di un bambino? Ricordiamoci che fino ai sette anni il cervello dei bambini è in onde alfa, quelle dell’ipnosi: qualsiasi cosa venga loro detta, viene acquisita e metabolizzata. Lo vediamo anche nelle cose semplici: se papà e mamma in casa usano un determinato linguaggio discriminatorio, tendono a riprodurlo e farlo proprio.
Appartieni anche tu a una generazione di donne che ha trovato il grande successo e la grande affermazione solo a un certo punto della propria vita. Vi si vede finalmente riconosciuto un talento che prima non vedevano perché si guardava ad altro. Cosa è cambiato secondo te?
Eravamo pronte noi, non c’è altra spiegazione. Quando si è pronti e ci allinea alla propria verità, non si può non essere visti. Non si può sempre puntare il dito contro qualcosa ma si dovrebbe puntare verso se stessi. Quando attraverso dei momenti no perché magari ho riposto fiducia ingenua in qualcosa in cui si investe tempo ma non si concretizza, non ce la faccio più a prendermela con qualcuno. Considero semmai il lato positivo della situazione: sto imparando qualcosa, tutto capita per me e non contro di me.
Se la Pia Lanciotti di oggi incontrasse la Pia Lanciotti di trent’anni fa cosa le direbbe?
“Sei sulla strada giusta, non avere paura di fidarti”. Nell’ultimo anno c’è stato un notevole cambio di rotta dentro di me in merito alla fiducia: mi è accaduto di fare due cose che mai avrei pensato di poter fare. Ho cominciato a scrivere, mi ha spronato una mia amica a farlo: “Quando hai qualcosa in testa, scrivila” e così ho fatto, alzandomi al mattino presto e tenendo in braccio uno dei miei gatti. E ho organizzato un mio primo seminario con Ivana Chubbuck, una straordinaria maestra d’attori che avevo incontrato dieci anni fa e che mi aveva cambiato la vita con il suo metodo così come l’ha cambiata a chi in quei due giorni si è presentato: alla fine, la gente era felice ed era meraviglioso.
Che tu scriva è qualcosa di molto interessante…
E infatti ho intenzione di cominciare una terza cosa mai fatta prima: l’adattamento di un romanzo. Ne ho vista una versione in Spagna e voglio realizzarne una italiana. Mi piace scrivere, era qualcosa che facevo anche da piccola: ero innamorata perdutamente di Elvis Presley ed era a lui che scrivevo, a tredici anni, con la mia Olivetti quando i miei andavano a dormire. Peccato che ho poi ho bruciato tutto ciò che scrivevo e scrivevo! (ride, ndr). Non è un caso che tutti i miei fidanzati siano quasi sempre stati dei capricorno come lui ma senza il ciuffo…
E, nonostante di te non si sappia nulla di privato, abbiamo scoperto che hai dei gatti.
È successo tutto per caso. Vivo in campagna con il mio compagno e un giorno dello scorso anno un nostro amico ci ha portato quattro gattini da far stare lì. Li ho visto crescere e li ho nutriti fino a quando, a poco a poco, me li sono portata su in casa. Erano poi rimasti in tre ma quest’estate è arrivata una bellissima gatta incinta che ne ha partoriti altri cinque. E oggi i “miei” gatti sono nove: mi rende orgogliosa il fatto che una creatura di un’altra specie, così indipendente e libera, ci abbia scelti. In passato ero persino allergica ai gatti ma quando si crea una corrispondenza, un sentimento di calore e amore, tutto sparisce. In fondo cos’è un’allergia se non una forma di separazione? (ride, ndr).
Tua mamma è ancora viva. Cosa pensa di quello che è diventata la figlia che così tanto spronava?
È felicissima: ancora oggi mi spinge a fare di più e a non scoraggiarmi mai: anche quando tutto appare buio, passerà, a da passà ‘a nuttata… tra l’altro, per il napoletano di Wanda Di Salvo ho chiesto a lei. È sempre stata una donna molto forte ma adesso sta manifestando anche una forma di tenerezza meravigliosa: lei e mio padre sono sempre stati all’opposto. Papà aveva un’attitudine femminile mentre mamma era molto più generale: sono cresciuta con due genitori lontani da quello che vuole il cliché.
Ma non sarebbe cambiato nulla neanche se fossero stati due maschi o due femmine, ci sarebbe stato sempre qualcuno dei due ad avere un’energia più forte e l’altro con un’energia più debole. What’s the problem?, mi verrebbe da chiedere a tutti coloro che ancora si pongono il problema senza mai mettersi nei panni della sofferenza altrui. E a tal proposito, complice anche una recente conversazione avuta con una persona a me cara, mi piacerebbe un giorno raccontare la storia di una madre che accompagna il figlio verso la transizione di genere, nonostante tutto e tutti. Personalmente, non tollero tutto il legiferare che si fa su delle scelte profonde che ogni anima dovrebbe poter fare liberamente. Ma cosa vuoi poi legiferare sulle scelte private che non limitano la libertà altrui?
Mare fuori 4: Le prime foto (credits: Sabrina Cirillo)
1 / 9Cos’è per te la malinconia?
È qualcosa che è molto presente in me e che recupero quando provo paura. Credo di avercela nello sguardo ma non saprei definirla. So cos’è per me la nostalgia, è un luogo delizioso in cui rifugiarsi delle volte, ma non la malinconia.
Hai praticato danza da bambina. Che ti ha lasciato?
Mi ha insegnato la disciplina e a entrare in sintonia con il mio corpo. Non so come si possa essere disgiunti da esso, ogni cosa che viviamo accade per una ragione profonda insita in noi. Mi piacerebbe ancora oggi dedicarmi di più alla danza e conoscere con i suoi esercizi meglio il mio corpo, in grado di sorprenderci in continuazione.
Cosa ti manca oggi, oltre alla sbarra al mattino?
Mi piacerebbe lavorare maggiormente con gruppi e avere un’autonomia creativa maggiore. Per il resto, mi reputo felice: sono fortunata nelle amicizia, sono innamorata di un uomo che amo e con cui stiamo affrontando insieme un percorso di conoscenza anche bello, sono fortunata ad avere una famiglia e persone intorno che mi aiutano a crescere e a evolvere. Ma penso anche che il meglio debba sempre venire…
Hai mai pensato di insegnare ai ragazzi?
Che buffo che tu me lo chieda perché, pur non avendone mai parlato, è qualcosa che è nei miei piani e che farò. La resistenza maggiore dal farlo è data dall’aver io avuto maestri come Strehler e dall’aver visto le cose più belle che si potessero vedere con gli occhi: cosa vado a insegnare invece io? Ho sempre avuto l’aria da eterna allieva: ancora oggi mi piace imparare, guardare gli altri in azione o prender parte ai seminari per la mia volontà di continuare sempre a crescere. Però, mi rendo conto che a un certo punto arriva anche il momento di testimoniare: è un atto di servizio. E forse l’ho compreso.
Ragazzi, tanti quelli presenti sia in Mare fuori sia in Noi siamo leggenda.
Mi ha molto sorpresa come molti di loro stiano studiando con un impegno quasi raro, come ad esempio Giacomo Giorgio (è venuto anche lui al seminario di Ivana Chubbuck). Mi incuriosiscono Massimiliano Caiazzo e Artem, sono creature che reputo molto simili a me: è difficile che io segua un metodo prestabilito, da anarchica prendo quello che mi serve e ricostruisco il puzzle per me. Ho litigato persino con i miei maestri, da Strehler a Ronconi, proprio perché non tolleravo che qualcuno mi teleguidasse o inculcasse qualcosa. Selene Caramazza è bravissima, così come lo son Emanuele Di Stefano e Domenico Cuomo ma anche Sofya Gershevich. Ma l’elenco è davvero lungo…