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“Usavo la maschera perché volevo nascondermi, non mi consideravo adatto”: Intervista esclusiva a Pianista Indie

Pianista Indie ha da poco rilasciato una nuova canzone, Champions League. E si è tolto la maschera che usava per presentarsi in pubblico. E finalmente si racconta come uomo e come artista, sulla scena da molto più tempo di quello che si crede.
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Pianista Indie rappresenta una delle novità più interessanti degli ultimi anni. È da poco uscita la sua nuova canzone, Champions League, e come al solito si è rivelata un successo su tutte le piattaforme digitali. Il suo seguito non stupisce: la sua scrittura è fresca e per molti versi originali. In un’epoca in cui tutti puntano all’innovazione ma si rivelano conservatori, Pianista Indie punta alla tradizione ma si rivela una boccata d’ossigeno in un panorama ultimamente fin troppo asfittico.

I successi che Pianista Indie ha inanellato dal 2018 in poi sono tanti. Possiamo citare Urologia, per esempi, Zara o Kubrick. Ma quello che ha sempre colpito è stato il non voler mai parlare di se stesso. In un primo momento, era solito esibirsi con addosso una maschera che gli copriva il viso. Ultimamente, ci spiegherà il perché nel corso di quest’intervista, si è riappropriato del suo volto. E oggi anche della sua identità.

È stato infatti strano cominciare il percorso che troverete sotto perché ha avuto bisogno che si giocasse a carte scoperte. Seppur Pianista Indie non avesse mai rivelato il suo nome, la sua professione e la sua precedente esperienza nel mondo musicale, bastava incrociare qualche dato o informazione per risalire alla sua vera identità, a una sorella famosa, al suo passato sanremese e alla sua professione. E allora è stato facile spogliare Pianista Indie e far uscire fuori dal musicista l’uomo.

Pianista Indie.
Pianista Indie.

Intervista esclusiva a Pianista Indie.

Champions League è l’ultima tua canzone rilasciata in ordine di tempo. Parli di amore facendo una metafora calcistica. Tra l’altro non è la prima volta che parli di calcio in una tua canzone, avevi anche citato Maradona in Urologia. Passione smisurata?

No. In realtà, la mia passione è il basket: il calcio lo odio abbastanza. Il riferimento a Maradona era più che altro un riferimento di costume. Non mi piace il calcio, preferisco il basket: ho anche giovato a pallacanestro per tanti anni. I riferimenti calcistici sono efficaci perché arrivano a tutti, mettiamola così.

In Champions League, come in altri tuoi brani, parli in prima persona.

Parlo in prima persona perché nello scrivere una canzone devi per forza partire da te, anche quando analizzi la vita degli altri. Si tratta sempre di un’analisi fatta attraverso i tuoi occhi e c’è, quindi, una certa soggettiva. È un po’ come il lavoro che fa un regista: è come se avessi una telecamera in mano con cui guardo alle cose sì dal mio punto di vista ma possono riguardare sia la mia vita sia quella degli altri. Quindi, a volte mi capita di scrivere in prima persona, come nel caso di Champions League, cose che non sono riferite alla mia storia ma a quella di amici che hanno vissuto quella particolare emozione di cui canto all’interno delle canzoni.

Come si inserisce Champions League nel tuo percorso? Siamo allo stesso punto di prima o è in atto un’evoluzione?

Credo che ci sia una grande evoluzione nel mio modo di fare musica ma oramai da due, tre anni a questa parte. Ho alle spalle una carriera musicale lunga, particolare, che attraversa due differenti epoche, parte dall’era predigitale e arriva alla musica liquida. Come tutti quelli della mia generazione, sono rimasto sconvolto dalla distruzione del disco e dalla trasformazione a cui è andato incontro il mondo della discografia. Tuttavia, ho preso il tutto come un’opportunità per cambiare io stesso e per fare qualcosa che mi piace davvero fare.

Di recente, hai abbandonato la maschera con cui eri solito esibirti o presentarti al pubblico.

Se devo dare una risposta stupida al perché l’ho levata, dico che quando ho iniziato il percorso di Pianista Indie e mi sono presentato in maschera, non immaginavo di poter incontrare l’interesse di una casa discografica, interesse che poi mi permettesse anche di andare a suonare in tour. Andando in tour, suonare con la maschera sarebbe stato quasi impossibile. Io poi canto e suono, quindi la maschera mi avrebbe impedito anche di esprimermi.

Questa è la risposta più banale, anche se nasconde un po’ di verità. Quella più seria è invece che, quando ho iniziato il percorso di Pianista Indie, volevo proprio nascondermi. Non mi consideravo adatto alla nuova realtà, al nuovo modo di intendere la musica e al nuovo mondo della discografia. Mai avrei immaginato di incontrare il favore del pubblico, di far canzoni vere e assolutamente sul pezzo, di essere contattato da tanti ragazzi, anche più giovani di me, che mi chiedessero di scrivere per loro. E così ho tolto la maschera. Poi, mi son ricordato che non sono il primo caso di avvocato che fa musica in Italia: c’è Paolo Conte. Quindi, mi son detto: se lo ha fatto lui, posso farlo anch’io.

Ecco, non volerlo dirlo ma lo hai fatto tu. Conoscevo la tua professione ma rispettavo il fatto che non fosse mai emersa pubblicamente.

In realtà, non l’ho mai detto non perché non volessi rivelare di fare l’avvocato. L’ho semplicemente omesso, così come ometto il mio vero nome. Poi, se qualcuno mi chiama per nome o mi dice che faccio l’avvocato oltre che il cantautore, non ho nulla da nascondere. Anzi… non è che faccia lo spacciatore di cocaina!

Potrebbe essere solo motivo d’orgoglio.

Ma magari lo è. Non voglio mai dirlo perché sembra che altrimenti faccia lo spaccone. Soprattutto nel mondo della musica attuale, più si fa finta di essere sfigati più si è cool.

Pianista Indie.
Pianista Indie.

Hai appena detto di aver conosciuto la realtà predigitale. Conosci ora quella liquida. Pensi che la realtà liquida abbia agevolato chi sogna di far musica?

Credo che la realtà liquida abbia regalato una speranza a tutti quelli che volevano far musica. Anche se più che di speranza dovremmo parlare di utopia. È un po’ come quando è arrivato YouTube: tutti caricavano video nella speranza di poter diventare famosi ma a farcela sono stati veramente pochi. La musica liquida regala quindi un’illusione, non solo agli artisti ma anche ai discografici. Sai quanta gente c’è oggi che si improvvisa etichetta indipendente, manager, discografico o editore? Tantissima.

Chiaramente, ciò porta a una grande offerta: c’è sempre più musica in circolazione ma inevitabilmente si è abbassata la qualità sia dei professionisti del settore sia di chi fa musica. Prima i dischi venivano prodotti da Morricone, ora vengono prodotti da un ragazzo nella sua cameretta, usando un software. Come ogni cosa, in definitiva, la musica liquida ha sia un lato positivo sia un lato negativo: tutti oggi hanno una possibilità ma questa democratizzazione della musica comporta un abbassamento dell’asticella qualitativa.

Quando scrivi una canzone pensi a questo fattore?

No, è impossibile. Se mi mettessi a pensare a questa roba, uscirebbero fuori merde. Non penso alle logiche di mercato ma da sempre. Esistevano anche negli anni Settanta, erano diverse ma esistevano. Quando scrivi, devi pensare solo alla tua piccola creatura e non al resto.

L’offerta musicale è davvero stratosferica. Il venerdì mattina la stampa viene sommersa di comunicati sulle nuove uscite. Ma chi ha tempo di ascoltare tutti i brani?

La stessa cosa che mi chiedo io. Ma mi chiedo soprattutto perché i giornalisti, le radio e tutti quanti, siano sommersi da così tanta roba? Si rischia quello che io definisco effetto via Zamboni. Ricordo, che quando sono arrivato a Bologna per frequentare l’Università, andavo in via Zamboni e c’erano un’infinita di annunci appesi sui portici della strada: alla fine, finivo per non leggere niente. La musica oggi è come via Zamboni: se c’è troppa roba in giro, passi dritto e non ti fermi nemmeno. Ci sono talmente così tanti input che alla fine sai che faccio? Ascolto i Depeche Mode o Battiato, come sempre.

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Tu hai iniziato da piccolo a suonare il pianoforte, avevi sei anni. Scherzando, il pianista indie era già dentro di te?

Si, anche se l’ho tenuto represso per tantissimi anni. A mettermi il pianoforte tra le mani sono stati i miei genitori e ricordo ancora l’inizio: è stato bello sofferto, mi dava fastidio. Crescendo, ho messo in angolo il pianoforte per diverse ragioni. Vengo dalla cultura delle chitarre elettriche e chi suonava il pianoforte era come un musicista di secondo d’ordine. Nella musica degli anni Novanta, chi la faceva da padrone era la chitarra: tutti figli di Jimi Hendrix prima, di Kurt Cobain e Slash dopo. In più, ho sempre suonato in band in cui strumenti come tastiere o pianoforti erano già ricoperti da altri. Poiché sono uno che sa stare al proprio posto, facevo sempre un passo indietro e ricoprivo altri ruoli.

Ho riscoperto dopo il pianoforte. Quando mi sono ritrovato solo, ho capito che era il momento di tirare fuori quello che sapevo fare meglio: suonare il pianoforte. E, quindi, eccomi!

Oltre alla musica, hai anche un’altra grande passione: il cinema. Ma non sa spettatore, da regista.

Ho fatto un film quest’inverno. L’ho scritto e ne ho composto la colonna sonora. Si chiama Life. In realtà, il film nasce perché avevo una colonna sonora da utilizzare: vedi che procedimento inverso, contorto e malato! Mi sono ispirato a un film dei Daft Punk e ho realizzato il mio assumendo un regista e uno staff di produzione. Si, sono un grande appassionato di cinema, ho una cultura cinematografica imbevuta di Kubrick (si chiama così anche una sua canzone, ndr) e di Tarantino. Il tempo che dedicato al cinema durante gli anni di università è stato quello di maggior qualità: ricordo i weekend in casa con gli amici a vedere anche quattro o cinque film insieme.

Erano gli anni in cui scegliere un film da noleggiare nelle videoteche sotto casa era di sé un film!

Che ricordi! Adesso è cambiato anche quello. Adesso con le varie piattaforme c’è talmente tanta di quell’offerta che non riusciamo nemmeno a sceglierne uno di film, figurati quattro o cinque. Netflix o Amazon seguono la stessa logica della musica liquida di cui parlavamo prima: c’è talmente tanta di quella robaccia che nulla a che vedere con il livello dei film che vedevamo un tempo noi.

Chi è nato nel 2012 accetta questo mondo così come noi abbiamo accettato quello senza i racconti intorno al focolare, come facevano i nostri nonni: è l’unico che conoscono e non sanno la differenza. Per chi invece ha visto com’era prima tutto, è davvero difficile accettare certe nuove dinamiche. O, meglio, le accetta col sorriso non di chi ne sa di più ma di chi ha oramai una sana rassegnazione.

Sana rassegnazione che però potrebbe portarti a Una vita di merda, come canti in una tua canzone. Pensi che sia davvero una vita di merda?

A distanza di tempo da quando ho scritto la canzone, penso che più si andrà avanti più sarà una vita di merda! È così sia sotto il profilo personalissimo perché la parabola prima o poi inizierà a diventare discendente sia a livello generale. A livello personale, arriveranno gli acciacchi e altri pensieri che prima non si avevano: vedo già che reggere due ore di concerto oggi mi pesa di più rispetto a quattro anni fa! A livello generale, il mondo sta andando davvero a farsi friggere, per non usare un termine non volgare.

Come hai fatto a coniugare Giurisprudenza con la passione per la musica?

Mi sono laureato in quattro anni perché avevo voglia di buttarmi nella musica. Sono uno di quelli che, quando fa le cose senza pensarci troppo, gli riescono meglio. Ho fatto l’Università senza pensarci troppo ed è la cosa che mi è riuscita meglio. Invece, la musica che ho fatto pensandoci tanto mi ha fatto sempre soffrire. Non sai quante volte rifletto su questa cosa, anche oggi con il progetto Pianista Indie. È nato semplicemente per dare sfogo alla mia creatività, senza rimuginarci sopra, e sono finito nelle playlist che contano, mi ha chiamato una casa discografica… Davvero, quando faccio qualcosa senza pensarci, funziona di più!

Per uno che canta “Mi piacciono gli errori, li trovo umani” in Zara, quale miglior modo che lasciarsi andare all’istinto?

Ma infatti Pianista Indie è tutto così, istintivo e non razionale. Sto vivendo un periodo creativo fantastico e ho una casa discografica che mi lascia libero di fare quello che voglio. Sto veramente passando un buon periodo e sono contento della mia musica.

Quali sono invece gli errori che non trovi umani?

Se penso agli ultimi accadimenti, il primo errore che non trovo umano è la guerra: è la cosa che più mi ha scioccato quest’anno. Il mio cervello non si capacita di star rivivendo quello che ha già visto vent’anni o che i miei nonni hanno visto ottant’anni fa.

E a livello pratico?

Un errore che non trovo umane è perseverare. Non è assolutamente umano, come recita la famosa espressione latina. Mi chiedo sempre: se sbagli e capisci che è un errore, che senso ha continuare a ripeterlo ancora? Io non ho mai perseverato: quando mi rendo conto che c’è una porta chiusa, esco dalla finestra e trovo altre strade da percorrere.

Nella tua produzione, mi fa ovviamente sorridere in positivo Ti amo ma, canzone che canti insieme a Quello che le donne non dicono, la pagina Instagram che prende in giro tutti gli stereotipi sulla femminilità o sull’amore. Com’è nata quella canzone?

È nata perché mia sorella Patrizia (Falcone, colei che sta dietro al profilo IG, ndr) è una pazza. Era ovvio che prima o poi dovessimo fare qualcosa insieme perché lo facciamo dentro casa sin da quando eravamo dei bambini. E ne faremo altre: sto producendo delle sue canzoni. Per riuscirci, abbiamo però dovuto trovare un linguaggio comune tra il suo mondo e il mio, due realtà agli antipodi. È la canzone più sofferta che io abbia mai scritto: abbiamo dovuto lavorare tanto per capire quale poteva essere l’imbuto nel quale infilarci entrambi e sentirci a nostro agio.

Chiaramente, la prima parte della canzone rispecchia il mio mood mentre la seconda parte il suo. Azzardo un paragone irrispettoso, non è mia intenzione paragonarmi agli artisti che cito o alla canzone ma solo alla logica del brano: mentre Bohemian Rhapsody dei Queen è strutturata in quattro tempi, Ti amo ma ne ha due.

Com’eravate da adolescenti?

Nella nostra famiglia si gioca una dinamica molto semplice. Mio padre era il razionale della famiglia: avvocato di una multinazionale, persona super serie e rigida, anche se quando poi pitturava le pareti di casa fischiettava le canzoni di Celentano e, quindi, si lasciava andare. Mia madre invece era quella con lo spirito artistico: scrittrice di libri, di poesie e di canzoni, faceva anche la professoressa di italiano e cercava di portare l’arte tra i suoi alunni. Quindi, ogni dinamica familiare seguiva una sorta di altalena tra mamma e papà e in noi figli convivono entrambe le realtà, quella razionale e quella artistica. Ho scoperto che questa è una caratteristica comune anche ad artisti come Sting, Jovanotti o Celentano stesso: grandi artisti ma anche grandi manager di loro stessi.

Quanto ti stai fidando in quest’intervista?

Nella mia vita, mi sono sempre buttato. Sai perché? Dimmi che male puoi farmi.

Nessuno, anche perché altrimenti mi porti in tribunale.

È vero: è un’arma che ho a disposizione, ho la querela gratis e non devo rivolgermi a nessun altro collega. Ma, a parte quello, quando sei in pace con te stesso, puoi davvero fidarti del prossimo. Non c’è il rischio di essere fraintesi, qualsiasi cosa si dica. E, anche se accadesse, avresti sempre la possibilità di rifarti.

Quindi, mi stai dicendo tra le righe che sei in pace con te stesso.

Si. Sto vivendo una fase della mia vita nella quale sono assolutamente in pace con me stesso.

Sei cresciuto in Abruzzo, in una città che non è di certo una metropoli. Non era Roma o Milano, dove comunque avresti potuto confrontarti con mille generi differenti. Com’è stato?

Per me ha rappresentato un vantaggio. Ma è una risposta che ti do oggi, nel 2022. Nel 1998, ti avrei dato tutt’altra risposta. Oggi è un vantaggio per l’età che ho, per il posto che ricopro nel mondo, per il fatto che non corro dietro alle classifiche… ho la possibilità di stare nella mia comfort zone e di pubblicare le canzoni che voglio io quando voglio io. Probabilmente, per un ragazzo di 19 anni, l’esperienza della grande città va fatta. Ho avuto modo di vivere tanti anni a Bologna e tanti altri a Milano, ma a un certo punto mi sono reso conto che la provincia è la mia regola.

Tornando al tuo percorso artistico, hai anche aperto i concerti di Bugo. Che esperienza è stata?

Strana perché Bugo è uno di quegli artisti con cui sono nato quasi contemporaneamente a inizio anni Duemila. Avevamo anche la stessa casa discografica all’epoca ma non ci conoscevamo: le multinazionali tendono a separare gli artisti e non a farli conoscere. Ora ci siamo ritrovati all’interno della Mescal, la nostra nuova casa discografica, ed è stato molto bello. Con lui mi sono sentito a mio agio: ero su un palco dove sapevo di essere rispettato anche artisticamente. Dopo aver fatto la prima data, l’ho anche ringraziato dello spazio concessomi e lui era quasi imbarazzato. Ma concedere spazio a un collega non credo sia una cosa da tutti.

Mi sono trovato a mio agio: è importante far musica nella propria comfort zone. Ci sono artisti davanti ai quali non riuscirei nemmeno a suonare proprio perché parlano un altro linguaggio, diverso dal mio.

Visto che parliamo di artisti, con chi ti piacerebbe un giorno duettare?

Ogni volta che mi fanno questa domanda, rispondo che se devo sognare mi piace farlo in grande. Ti dico Damon Albarn, Chet Faker o Brian Wilson: sono i miei tre lumi. Accetterei al volo.

A cosa stai lavorando adesso?

Al prossimo singolo. È quasi pronto. Ho un bel po’ di canzoni lasciate in sospeso e sto scrivendo anche per altri. Ed è molto bella questa cosa perché mi rendo conto che più il progetto Pianista Indie va avanti più ci sono tanti artisti che si rivedono nel mio tipo di scrittura, non necessariamente figlia dell’urban o del rap. Sembra quasi innovativa laddove tutti oggi scrivono copiando le cose che sono andate di moda negli ultimi dieci anni. Chi oggi in Italia torna a canzoni un po’ più cantautoriali, imbevute della cultura della tradizione italiana, sembra che faccia una roba originale!

Continui ovviamente ad esercitare la professione di avvocato. Ti è mai capitato che qualcuno ti abbia riconosciuto?

Spesso e volentieri, soprattutto nei miei primi anni di attività, dopo aver partecipato al Festival di Sanremo. Ricordo anche che quando feci l’Esame di Stato per l’abilitazione alla professione, c’erano delle signore che mi chiedevano gli autografi per le figlie. Me ne sono capitate davvero di tutti i colori… mi è capitato anche da avvocato di fare causa a una delle mie ex case discografiche per tutelare un mio cliente. Ed è stata una vittoria fantastica: ne ero uscito a testa basta come artista e ci sono rientrato ottenendo dei soldi come avvocato.

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