Piergiorgio Seidita è un giovane regista italiano. Ha 35 anni ma per l’Italia, un Paese per vecchi, continua a rimanere giovane ed esordiente nonostante abbia alle spalle più di una decina di esperienza nel settore, due premi Troisi e diversi riconoscimenti a livello internazionale.
L’ultimo riconoscimento a Piergiorgio Seidita è arrivato la scorsa settimana. Ma da lontano, dall’Australia. Il Pride Queer Festival, che si tiene ogni anno a Perth, dall’altro lato del mondo, gli ha assegnato il Premio Speciale della Giuria per il cortometraggio The Bathroom. Nel corto, Piergiorgio Seidita racconta la storia di un ragazzo, Ethan, che nel cesso di una discoteca, tra luci e suoni roboanti, trova il coraggio di ammettere la propria fluidità e di dichiararsi per telefono al suo miglior amico, Liam.
La storia di The Bathroom, semplice e universale, è trattata da Piergiorgio Seidita con estrema naturalezza, restituendoci i pensieri e le emozioni di chi è chiamato a confrontarsi con un coming out non facile da gestire. Le paure, i timori e i pensieri del protagonista Ethan sono resi vividi e palpabili grazie soprattutto a una scena da incubo, in cui le pareti del bagno si riempiono di scritte e voci che stigmatizzano nel peggiore dei modi la sua nuova consapevolezza.
E Piergiorgio Seidita ha sempre raccontato di giovani nel suo lavoro. Non solo giovani chiamati a gestire un coming out, come nel caso di The Bathroom o di Buona notte, ma anche alle prese con una vita che non dà certezze o appigli, come nel bianco e nero di Teo. La naturalezza dei suoi lavori non necessita di molte parole, non c’è niente da sottolineare se non il difficile processo di accettazione con cui i protagonisti si confrontano.
Ma, oltre che regista e sceneggiatore, Piergiorgio Seidita è anche un grande scopritore di talenti. Tutti noi conosciamo Michele Morrone, il sex symbol internazionale lanciato da 365 giorni. Chiunque sa chi è Laura Adriani, quanto bravo è Giacomo Ferrara o quanto sia da attenzionare il talento crescente di Vittorio Magazzù. Li ha in qualche modo scoperti Piergiorgio Seidita, lavorandoci quando erano ancora alle prime tappe del loro percorso. Li ha scelti, ci ha creduto e li ha accompagnati mano per mano verso il successo. La sua spiccata sensibilità è stata anche al servizio di Niccolò Agliardi, dirigendo per lui nel 2012 il videoclip di Buoni propositi.
E, come se non bastasse, Piergiorgio Seidita è un giovane uomo con i piedi saldi per terra. Spontaneo, diretto e senza troppi giri di parole. È cresciuto in Sicilia, dove il nonno fotografo e proiezionista gli ha trasmesso la passione per il cinema. Un tipo di cinema quello di Piergiorgio Seidita che guarda a Xavier Dolan ma che ancora fatica a concretizzarsi del tutto per colpa di un sistema che non lascia largo ai giovani, a quelli che con sguardo schietto e sincero potrebbero parlare direttamente della loro generazione senza inventarsela.
Chi avesse voglia di scoprire il talento di Piergiorgio Seidita può fare un salto sul suo canale Youtube. Chi invece vuole sapere chi è, lo scoprirà nell’intervista esclusiva che ha rilasciato a noi di TheWom.it.
INTERVISTA ESCLUSIVA A PIERGIORGIO SEIDITA
The Bathroom, il tuo ultimo cortometraggio, è stato presentato al Pride Queer Film Festival, a Perth, in Australia. Ha vinto il Premio Speciale della Giuria. Come ci si sente a essere premiati dall’altra parte del mondo?
È la seconda volta che ottengo un riconoscimento dallo stesso festival. Anni fa, avevo avuto il Critics Choice Award e la sensazione è sempre uguale: stupore. Ti fomenta molto il fatto che un’altra popolazione, con altre abitudini, altre sensibilità e altre qualità (magari superiori alla mia), riconosca il valore del tuo lavoro. Le uniche due volte in cui ho tentato di andare oltre oceano è andata bene. È la stessa sensazione che provo quando ottengo un riconoscimento in Italia. Anche se, ottenere un premio dall’altra parte del mondo, è qualcosa di più “figo”.
Al di là della figata, hai ottenuto un riconoscimento con un tema che in Australia potrebbe essere stato digerito meglio di quanto avviene in Italia: il coming out. Sulle tematiche LGBTQIAP sono avanti secoli.
C’è un tipo di sensibilità o realtà diversa che porta ad avere un’altra visione di The Bathroom, una visione molto più quotidiana. Perché da loro è forse serenamente più quotidiana una realtà come quella raccontata. Lo è anche da noi ma meno. Più che sulla tematica sessuale, conto sempre che venga percepito come un lavoro sull’accettazione di sé, su come si è, a prescindere dal genere, dall’orientamento sessuale. Anche chi non è d’accordo e ha una visione differente sull’argomento omosessualità, vedendola come una realtà lontana da sé, può provare empatia e riuscire ad avvinarsi alla storia, a prescindere dal tema specifico raccontato.
Oltre che di accettazione di sé, The Bathroom fa leva anche sul problema dell’accettazione da parte degli altri. In un momento da “incubo”, Ethan, il protagonista, vede la parola fr**** scritta in ogni dove, temendo il giudizio altrui. Restituisci perfettamente lo stato mentale di una persona che si ritrova a dover fare una dichiarazione importante e ne teme le conseguenze. L’uso di colori e musica è particolarmente azzeccato. Il rosso è prepotente.
Il rosso, secondo me, in realtà racchiude due emozioni contrastanti. Da un lato, è il colore del pericolo, dell’attenzione: aggiunge emozione a una situazione. In contrasto, è il colore della passionalità, di quel sentimento che viene vissuto, negativo o positivo. In quella situazione specifica, c’è un tumulto di emozioni che si contrastano, dalla paura dell’accettazione alla passione e alla semplicità positiva che riceve dalla risposta dall’altra parte. Il rosso è il simbolo di tutte le emozioni vissute da Ethan, contrastanti ma simili.
La camera non si schioda mai dal protagonista, Francesco Venerando. È attaccata a lui e restituisce quelli che sono i suoi cambi di stato d’animo. Dove nasce la decisione di mettere un solo personaggio in scena? È una delle caratteristiche dei tuoi cortometraggi, quasi sempre popolati da pochi attori.
Mi piace molto focalizzare l’attenzione su un soggetto solo o su pochi soggetti perché, già di per sé, una persona ha talmente tante emozioni da raccontare che metterne tante sarebbe fuorviante. In un cortometraggio, che ha già problemi di minutaggio, preferisco che lo spettatore si affezioni al soggetto specifico raccontato. È più semplice, più diretto, più emozionante. Spesso, anche le riprese si focalizzano molto sul soggetto. Nei miei corti, ci sono tantissimi primi piani: mi piace l’idea che lo spettatore guardi con gli occhi dell’attore, come se fosse davanti a lui. Aiuta tantissimo a immedesimarsi, a entrare in empatia e a provare le stesse emozioni. Mi piace molto l’intimità e l’esclusività che si crea.
Perché hai scelto di girare The Bathroom in inglese e non in italiano?
Perché me lo dicevano da un sacco di tempo. Mi son detto: “Facciamolo ora che del domani non v’è certezza”. Era arrivato il momento di farlo, vado sempre a sensazioni.
Rendendo ancora più universale il messaggio lanciato dal cortometraggio. The Bathroom non è localizzato. Non sappiamo in che città si svolge la storia. Tutto avviene nel chiuso di un bagno di una discoteca.
Il bagno è il luogo più comune a tutto il mondo, quello che ci rende tutti uguali.
Non è la prima volta che tratti un tema legato alle problematiche LGBTQIAP. Anche un tuo precedente lavoro, Buona notte, aveva per protagonisti due adolescenti che si relazionano. Lo sfondo non era il coming out ma la convivenza con l’educazione impartita, in quel caso il credo religioso. Tutti sottovalutiamo come una persona, che si ritrova a fare i conti con la propria identità, debba relazionarsi anche con il bagaglio culturale che si porta dietro spesso da un’educazione rigida e formale. Com’è che nasce in te tale attenzione verso determinate tematiche?
Si tratta di tematiche e situazioni che ho osservato spesso intorno a me. Quando scrivo una storia (sono fortunato, scrivo spesso io i soggetti che poi dirigo), non penso mai molto a quello che devo raccontare. Come è successo anche per Buona notte, mi muoveva la voglia di capire quanto la società, quanto la cultura e quanto la religione, potessero influenzare le nostre scelte, anche involontariamente. Chiunque viene educato dalla propria famiglia a credere in qualcosa che magari va in contrasto con il proprio pensiero sul vivere serenamente se stessi.
Ho pensato che la prima volta di un ragazzo esprimesse bene i timori di chi, educato nel timore di Dio, vive il sesso con una persona dello stesso genere. Il protagonista, Cristiano, si confrontava con un altro ragazzo simile a lui. Si raccontava la prima volta sessuale, l’accettazione, ma mi piaceva che durante il primo incontro tra i due ragazzi ci fosse un confronto che andasse anche oltre. In piena semplicità: ci sono poche battute su Dio o sulla paura.
E il desiderio di raccontare i giovani?
Perché forse sono giovane anch’io (ride, ndr). Molte cose le ho fatte molto tardi rispetto alla mia generazione. Ho vissuto in un piccolo paesino della Sicilia, in provincia di Trapani, che mi ha regalato molte cose ma me ne ha tolte altrettante. Ho iniziato a vivere sul serio quando a diciotto anni sono andato a vivere fuori, a Firenze.
Credo, quindi, di essere sempre un po’ in ritardo con le “responsabilità” comuni. Sono di conseguenza legato a quelle emozioni: penso che i giovani provino delle emozioni che mi appartengono tuttora che sto crescendo. Cerco di rimanere fedele alla mia parte giovane.
Quando si è giovane, per quanto ti possa sentire insicuro o imperfetto, si è nella parte migliore della vita: si hanno tutte le emozioni aperte al mondo, le paure o le gioie al momento giusto. Essere giovani è “figo” proprio per quello, non solo per la libertà che viene citata spesso. È una questione di apertura emotiva al mondo: è qualcosa che mi è rimasta e spero mi rimanga. È una parte che mi fa stare bene con me stesso.
Cresci a Paceco. Con un nonno proiezionista. Quando matura in te il desiderio di fare del cinema il tuo lavoro?
Risposta scontata: da quando sono nato. Non c’è un momento in cui ho deciso che avrei voluto fare questo lavoro. A casa mia si guardavano tanti film, era una passione di famiglia. Mio nonno, già in pensione quando io ero piccolino, mi faceva vedere un sacco di film, mi spiegava quello che faceva: era anche un fotografo. I miei facevano un altro mestiere ma a me è sempre rimasta la passione per il cinema. Mio nonno mi ha sempre detto “È difficile fare cinema ma se è quello che vuoi fare fallo”. Lo stesso i miei genitori: sono stato fortunatissimo, mi hanno sempre appoggiato e sostenuto. Sono stati sempre fedeli alle loro passioni.
Il mondo del cinema è però una realtà quasi aliena alla Sicilia. Passa ma non si ferma.
È vero ma sai che c’è? Credo fortemente che io abbia vissuto un’epoca in cui ci era concesso sognare. A casa mia, c’è sempre stato il permesso di sognare. C’erano grandissime responsabilità ma i miei genitori mi hanno concesso la possibilità di sognare, cosa che oggi non è totalmente permessa. Da una parte, è un bene perché i giovani imparano subito a essere responsabili. Se credi più nei sogni che nelle responsabilità, a volte è difficile vivere quotidianamente, a livello economico. Dall’altra parte, invece, si perdono la magia del sogno. Per la mia generazione, sognare non era un peccato. Viviamo anni talmente difficili, lontani e limitanti, per cui sognare sarebbe l’unica speranza. Ci vuole coraggio a sognare di fronte alla realtà che ti sbatte davanti la sua durezza.
E tu cosa sogni?
A livello pratico, sogno di girare il mio primo lungometraggio. In grande, sogno di riuscire a emozionare le persone così quanto il cinema ha fatto con me. È una grossa responsabilità, una grossa prerogativa, ma è quello l’obiettivo.
A me piace considerare come tuo primo lungometraggio la web serie Mind, la seconda serie web più seguita dell’inverno 2011.
È vero. Ma era una delle prime cose che dirigevo ed era stata scritta da altre persone. La tempistica, però, è uguale. Ho già scritto la sceneggiatura del primo film. La tengo nel cassetto ed è tratta dal cortometraggio Teo. Aspetto l’occasione giusta per spingerla e farla produrre.
Visto che citi Teo, in quel cortometraggio ritorna l’idea dei giovani di oggi quasi senza prospettive, senza certezze. Teo vuole farla finita. Sono giovani che sentono il peso della responsabilità addosso o che hanno smesso di sognare?
Sono giovani che, secondo me, hanno smesso di sognare perché, non voglio essere ripetitivo, i grandi hanno detto loro di non sognare più. Non credo che lo abbiano fatto in maniera autonoma, per un’idea che si sono fatti loro del mondo o della quotidianità. Sono stati i grandi che li hanno spinti a non sognare, anche forse per egoismo. O per ignoranza, intesa nell’accezione di non vedere quella sensibilità o quella personalità che i giovani hanno. Si dà per scontato che i giovani ragionino in una certa maniera e invece non è così. In tutti questi anni di lavoro con i giovani, ho visto che hanno una sensibilità accentuata che sono costretti a mascherare perché li hanno cresciuti un po’ così. I giovani non sono così come li raccontano i giornali, hanno una sensibilità proprio bella.
A proposito di giovani, hai lavorato con molti giovani che poi sono diventati degli attori affermati, non solo a livello nazionale. Penso a Michele Morrone, Laura Adriani, Giacomo Ferrara e Vittorio Magazzù. Hai quindi fiuto anche come talent scout? Hai portato fortuna a tutti quanti.
Me lo dicono. Non lo so, probabilmente sì. Anche se io la considero una fortuna per me. Sono loro che si sono affidati a me dandomi una possibilità. Probabilmente ho fiuto o sono semplicemente fortunato a incontrare le persone giuste, attori che si affidano a me prima di intraprendere altri percorsi più “fighi”. Se lavoro con qualcuno è perché ci credo tantissimo. Quindi, il percorso che fanno è solo motivo d’orgoglio per loro.
Sei però solito lavorare anche con dei nomi di riferimento che sono quasi sempre gli stessi, da Francesco Venerando a Claudia Cervelli. Perché c’è in te il desiderio di circondarsi sempre delle stesse persone? Solitamente i registi tendono a cambiare e a confondere le carte in tavola.
Ho cambiato attori e attrici per tanto tempo. Ho lavorato con nomi diversi. Ma stavo bene quasi sempre con le stesse persone e mi sono sentito quasi in colpa nello sceglierle. Non per fare paragoni megalomani ma accade anche a Hollywood che ci siano le grandi coppie di registi e attori che lavorano quasi sempre insieme: Scorsese e DiCaprio, Tarantino e Pitt…
Se si riesce a trovare la giusta alchimia, perché no? Per quanto riguarda Francesco Venerando è come se fosse mio fratello. Riusciamo a lavorare talmente bene insieme, a incanalare al meglio le emozioni che voglio raccontare io, che non mi viene il desiderio di cercare qualcun altro. Perché dovrei farlo se mi trovo bene sia a livello personale sia a livello artistico?
Lo stesso discorso vale per Claudia Cervelli: secondo me, è una delle attrici più brave con cui abbia mai lavorato. Hanno delle doti innate che non trovo altrove. A volte, credo più io in loro che loro stessi.
Quanto è difficile fare cinema in Italia per un “esordiente”? Quali sono gli ostacoli maggiori che hai incontrato durante il tuo percorso?
I grandi nomi non si affidano ai giovani che vogliono imparare. In uno staff non ti danno subito la possibilità di imparare o di fare esperienza. All’inizio, questo tipo di atteggiamento mi faceva stare male. Poi, ho cercato di fare un ragionamento rivolto anche a me. Mi son chiesto: “Tu, Piergiorgio, cambi spesso il tuo staff?”. No, mi sono risposto.
Fondamentalmente, è un ragionamento che farei anch’io: non mi metterei mai al fianco un assistente nuovo, che deve ancora imparare, mentre giro un cortometraggio. Seguendo questo pensiero, ho capito che non dovevo rimanerci male: anche i grandi registi su un set vogliono sentirsi al sicuro. Del resto, credo che, in questo campo, siamo tutte persone molto insicure.
D’altro lato, però, faccio anche un ragionamento economico. Con tutto il budget che hanno a disposizione, potrebbero anche aggiungere un ruolo in più per permettere ai giovani di cimentarsi sul campo.
Altre difficoltà sono legate alla produzione. Ci sono produttori che parlano tantissimo sul “volere investire sui giovani” ma che a livello praticano non si adoperano spesso. Così come accade anche a molti miei colleghi, non capisco le ragioni di tutta questa diffidenza. Preferiscono sbagliare, sotto un certo punto di vista, con un nome che ha già provato invece che sbagliare con uno che non si conosce. Se vuoi sbagliare, tanto vale puntare su un nuovo nome.
Parafrasando i Coen, non è un Paese per giovani.
Non sai quanto mi dia fastidio. Le piccole produzioni hanno una realtà totalmente diversa dalle grandi. A volte, le grandi produzioni hanno una gestione delle cose molto più superficiale rispetto alle piccole. Non capisco perché esista questo blocco, questa voglia di non tendere la mano e di non fare gruppo: è la filosofia primordiale di un bambino. Quando comincia a crescere, lo mandi a fare sport per far sì che impari a stare con gli altri.