Pietro De Nova è un talento emergente nel panorama cinematografico e televisivo italiano che sta conquistando il pubblico con la sua versatilità e profondità artistica. Attualmente lo vediamo brillare nella serie tv Sky Call My Agent 2, dove interpreta il ruolo di Evaristo, un personaggio complesso e stratificato che si inserisce nella dinamica vivace di un'agenzia di celebrità. Evaristo è il nuovo volto dell'agenzia, un giovane ambizioso che sfida le convenzioni e porta alla luce la sottovalutazione spesso riservata alle giovani generazioni.
Ma chi è Pietro De Nova al di là dei riflettori? Nato in Svizzera da una madre metà svizzera e metà brasiliana e da un padre italiano e cresciuto a Pavia, Pietro De Nova incarna un melting pot di culture che ha plasmato la sua visione del mondo e la sua arte. La sua capacità di interpretare personaggi complessi, come quello di PiGi in Vivere non è un gioco da ragazzi, testimonia non solo la sua abilità attoriale ma anche la sua sensibilità nei confronti di temi come l'adolescenza, la sottovalutazione e l'accettazione di sé.
Pietro De Nova non si limita alla recitazione. La sua passione per il teatro lo ha portato a fondare, insieme a Maurizio Zucchi, la compagnia teatrale Il Milione, ispirata allo spirito di avventura e di scoperta di Marco Polo. Attraverso il suo lavoro con la compagnia, cerca di lasciare un segno personale nel mondo artistico, privilegiando la libertà creativa rispetto alle convenzioni dell'industria cinematografica e televisiva.
Nel corso dell'intervista, Pietro De Nova parla anche della sua visione del mestiere di attore, vedendolo come un mezzo per trasmettere messaggi significativi e indurre alla riflessione. La sua storia è una testimonianza della potenza della narrazione e dell'importanza di rimanere fedeli ai propri valori.
Preparatevi a scoprire il mondo di Pietro De Nova, un artista che rappresenta la voce e il cuore della sua generazione, e che sta ridefinendo il concetto di celebrità con autenticità e impegno.
Intervista esclusiva a Pietro De Nova
“Sarò in Sicilia tra un paio di settimane: inizio le riprese di un film tra Palermo, Ragusa e la zona di Palazzo Adriano”, risponde Pietro De Nova quando ci si chiede da dove ci si sente. Senza che sia lui a nominarlo, il film in questione è il nuovo lavoro di Roberto Andò, dal titolo provvisorio L’abbaglio, un film in costume che racconta la storia di tre personaggi impegnati nella spedizione dei Mille e che ha tra gli attori principali Toni Servillo. “In questo momento, mi trovo esattamente all’estremo opposto di dove sei tu: sono in Valtellina, nell’estremo nord, alla periferia dell’impero italiano”, continua Pietro De Nova ridendo.
Rimanendo in tema di luoghi, ci spieghi le tue origini? Su internet, le informazioni sono davvero confuse a riguardo.
In teoria, sono di origine svizzera perché sono nato in Svizzera, a Samedan. Mia madre è per metà svizzera e metà brasiliana mentre mio padre è italiano. Possiamo allora dire che sono per metà italiano, per un quarto svizzero e per un quarto brasiliano.
In questo momento, ti stiamo vedendo nella serie tv Sky Call My Agent 2, dove interpreti Evaristo, il nuovo innesto dell’agenzia di celebrities al centro del racconto. Il ruolo di Evaristo è molto sfaccettato e, in una recente intervista, hai dichiarato (senza addentrarti troppo sul perché) che ti aveva permesso in qualche modo di parlare della sottovalutazione dei giovani. Un qualcosa che hai vissuto soprattutto in ambito liceale.
Nella serie tv Vivere non è un gioco da ragazzi, ho interpretato PiGi, il ragazzo secchione e poco popolare della scuola frequentata dal protagonista Lele. PiGi mi offre il destro per sottolineare quanto grave possa essere la sottovalutazione adolescenziale quando si è al liceo, una situazione che ho vissuto in prima persona e che mi ha creato delle difficoltà. Come credo anche a tutti, a chi più e a chi meno. Alle superiori, soffrivo di un complesso di inferiorità legato anche a quella che è la condizione del proprio corpo in crescita e in trasformazione.
Un complesso che ho poi sfruttato per dar vita a PiGi, il prototipo del ragazzo perbene e di buona famiglia con meno possibilità a livello sociale rispetto ai ragazzi più inseriti e più al passo con la moda giovanile. Per Evaristo, il lavoro fatto è stato invece diverso. Rappresenta il giovane al culmine della realizzazione e dell’avanzamento di carriera ma nelle prime due puntate si partiva esattamente dalla posizione antitetica, da quella di un portaborse in pratica, del ragazzo a cui gli adulti nell’ambito di lavoro affidavano compiti senza responsabilità come il fare le fotocopie o cercare il toner. Ho quindi portato anche in lui buona parte della sottovalutazione che ho sperimentato anch’io nella mia vita sul piano fisico prima a scuola e poi quando si è tratto di entrare nel mondo del teatro e del cinema.
Hai cominciato, tra l’altro, a far teatro molto presto…
Ero sì giovane ma non giovanissimo: ero in terza liceo. Ho dovuto però subito confrontarmi con coetanei e con ragazzi più grandi di me che ai miei occhi apparivano decisamente più appetibili e più credibili di me. Quando ho provato a entrare in Accademia, per infrangere il mio complesso di inferiorità, mi sono subito fatto un orecchino perché vedevo che tutti gli altri ne portavano uno: credevo servisse per far l’attore e, quindi, un giorno mi sono svegliato, sono andato in una farmacia e mi sono fatto bucare l’orecchio. Rappresentava per me la rottura di un primo tabù: potevo così far parte anch’io di quella nuova classe di aspiranti attori.
È stato questo senso di inferiorità a spingerti a fondare sin da giovane con Maurizio Zucchi una tua compagnia teatrale?
No, la ragione è stata diversa. A differenza di tanti altri attori che lavorano a scrittura per compagnie terze trovandosi quindi a essere reclutati e inseriti in una realtà già affermata o comunque composita, a teatro preferisco lavorare maggiormente sul lato più creativo che mi permette di lasciare la mia impronta personale. Ho fondato una compagnia per dare un’identità ai miei lavori, sentendomi più emancipato, agile e libero di muovermi… e anche molto più forte e più sicuro di me di quanto non lo sia in ambito cinematografico o televisivo, per cui invece bisogna adattarsi a una macchina e cercare di entrare in sintonia con il giudizio altrui.
Perché avete deciso di chiamarla Il Milione?
Il Milione nasce a Catania l’anno scorso da un’idea mia e di Maurizio e il nome si deve al desiderio di creare una compagnia di ventura come poteva essere quella di Marco Polo, che di tutti i viaggi che fatto ha scritto molto meno di quanto ha visto. Già dal primo spettacolo scritto e tuttora portato in scena, 80 centesimi, volevamo cogliere lo spirito di avventura e di scoperta presente nel Milione di Polo e dar vita a storie il cui racconto supera il dato oggettivo e reale lasciandosi andare alla narrazione e all’immaginazione.
In 80 centesimi, un monologo, porti tu stesso in scena due personaggi, un padre e un figlio. Una situazione vicina a quella di Evaristo: se vogliamo, è anche quello in Call My Agent 2 un doppio ruolo.
Evaristo è uno stratega, è un attore a sua volta. Come dice Lea nel secondo episodio, il lavoro degli agenti è un po’ anche quello di recitare: fa parte del loro 10% di guadagno. Per capire chi ha davanti e di chi fidarsi tra i suoi collaboratori, deve sfruttare sin dall’inizio la situazione a suo vantaggio. Deve dunque prendere le misure di un qualcosa che non conosce: non ha mai fatto quel lavoro prima ma è consapevole di quanto il suo obiettivo sia fare soldi.
Il suo lavoro è sicuramente investire e ricavare, fare il massimo possibile per aumentare il suo fatturato: ha investito in passato in startup, bitcoin e criptovalute, e investe ora nell’agenzia, qualcosa per lui di inedito. A muoverlo è il principio del gioco, che lo porta – scusate il bisticcio di parole – a fare il doppio gioco. A differenza degli altri, non ha nulla da perdere: anche se dovesse andare male, a livello economico una perdita in agenzia non intaccherebbe il suo patrimonio.
E tu quando hai giocato di strategia?
Ogni provino è un gioco di strategia: occorre capire chi si ha davanti, comprendere il suo linguaggio e individuare cosa vuole da te. L’attore è quindi uno stratega nel momento in cui si interroga su che cosa sia più efficace per andare nella direzione che il regista o comunque il creativo che ha di fronte ha per la sua narrazione. A ogni provino, è come se si ripartisse da zero: ci si ritrova davanti a uno sconosciuto che a sua volta vive la stessa condizione: ci si cerca di capire per cinque minuti, a volte mezz’ora e altre volte un’ora. E in quel frangente per l’attore non è tanto importante chi si è veramente ma quello che racconta di sé.
Da ‘relativista’, dico sempre che noi attori siamo pura narrazione e, quindi, quello che raccontiamo di noi, come ci poniamo con il corpo e le parole, come ci prendiamo in giro e cosa decidiamo di dire o di tacere. Come a un provino così come in un’intervista, quello che restituiamo è una fotografia istantanea valida ma non necessariamente il nostro ritratto istituzionale e unico. Consapevoli di ciò, possiamo permetterci di applicare strategie, giocare d’anticipo, bluffare e provare a raccontare qualcosa di diverso che vada in una direzione per l’altro più interessante.
Per quell’istantanea quanto sei disposto a tradire te stesso?
Ognuno di noi ha principi che non tradirebbe mai e che variano da persona a persona, una propria scala di valori che stabilisce quanto si è disposti a cedere all’incoerenza e alla negazione degli stessi. Occorre saper distinguere tra vita privata e vita artistica: non sarei disposto a rinunciare a valori che reputo fondamentali per me. Se dovessero chiedermi ad esempio di rinunciare al mio imminente matrimonio per un provino, sarebbe un ‘no’. Così come sarebbe un ‘no’ se qualcosa minasse la mia dignità o integrità personale. Rifletterei, invece, di fronte a una richiesta di nudo integrale: qualora artisticamente avesse un senso, direi di ‘sì’ ma, ripeto, dovrebbe essere una richiesta argomentabile e giustificabile. Spetterebbe al tuo istinto capirlo, anche se a volte chi detiene una posizione di potere sa anche essere molto subdolo, nascondendo le sue reali intenzioni.
L’evoluzione di Evaristo ci mostra la sua doppia natura: inizialmente timido, poi molto sicuro di sé. Tra timidezza e sicurezza dove si colloca, invece, Pietro De Nova?
Timidezza e sicurezza non si escludono. Gli attori spesso si dicono timidi ma è qualcosa in cui non credo: hanno semmai una timidezza emotiva che è legata a una maggiore sensibilità, per cui di fronte a una sollecitazione reagiscono maggiormente rispetto a una persona più disinibita, cercando la risposta meno problematica tra le venti che possono venire in mente. E, quindi, un attore può aver timidezza ma allo stesso tempo deve ignorarla per mostrarsi più sicuro di sé e restituire il 150% di sé anche di fronte a una richiesta che può essere il nudo di cui prima.
Solitamente, sono molto sicuro di me quando faccio qualcosa. È chiaro che poi sorgono diverse domande su quanto quella cosa possa essere giusta o meno ma, nel decidere di portarla avanti, vado fino in fondo.
Liceo classico, un anno a Giurisprudenza e poi la facoltà di Lettere: è stato facile dire ai tuoi che avresti voluto fare l’attore?
Mia madre era assolutamente propositiva e molto esaltata all’idea che facessi questo mestiere. Anche perché ha lavorato nel mondo del teatro sociale agli inizi degli anni Duemila: ha organizzato degli spettacoli molti belli sulla Costituzione italiana lavorando a contatto con i detenuti in carcere… non dico di essere figlio d’arte ma forse molto mi è arrivato indirettamente anche da lei. Sebbene nella vita faccia tutt’altro, mio padre è anche un bravissimo fotografo e ha una mentalità estremamente artistica, molto sensibile e molto attenta: quando gli ho spiegato cosa vuol dire per me voler fare l’attore, non ha di certo opposto resistenza.
Call My Agent 2: Le foto
1 / 123Cosa vuol dire per te fare l’attore?
Avere delle cose da dire che possano incidere sullo spettatore, trasmettergli qualcosa e indurlo a una trasformazione. Il fine di ogni spettacolo per me è sempre quello di lasciare nella memoria delle persone elementi che le spingano a pensare o a far nascere un dubbio che spinga alla trasformazione. Anche se scettico in un primo momento, ora papà è insieme a mamma colui che mi sostiene maggiormente nel mio percorso. Mi emoziona ad esempio guardare con loro due le puntate di Call My Agent 2: sono separati e mi fa piacere pensare che il cinema, la televisione o il teatro possano essere degli strumenti di riunione della famiglia stessa.
Dalle tue parole, emerge la tua spiccata sensibilità: la consideri più un dono o una condanna?
Per me, la sensibilità è una benedizione. Per quanto si possano raccontare situazioni e temi tristi, infelici e spesso complicati e pesanti da affrontare, il teatro e il cinema devono essere veicoli di gioia. L’arte, in genere, deve essere un motore di gioia per chi fa il mio mestiere, mettendo a disposizione la propria fisicità, la propria sensibilità e il suo essere in equilibrio con un mondo che è totalmente in disequilibrio.
Come ripeto spesso ai giovani che si affacciano a questo lavoro, affrontano mille difficoltà diverse e devono adeguare la loro sensibilità a meccanismi spietati, “quando non sapete cosa fare, prendete un foglio e una penna e scrivete”: si ha così la possibilità di rendere partecipi di una propria storia, sicuramente interessante e unica… nessun altro può raccontarla allo stesso modo. In un mondo pieno di persone che vogliono lavorare nello spettacolo, nessuno è indispensabile fino a quando non sa chi è e qual è la propria voce, mettendo da parte il proprio ego.
A proposito di ego: che rapporto hai con lo specchio?
Non ricordo più chi lo diceva ma il mio rapporto con lo specchio è come quello di chi sta per farsi la barba e lascia scorrere l’acqua bollente in modo che questi si appanni al massimo, fino al punto di non vedere nulla. È un rapporto complicato quello che ho non solo con lo specchio in quanto tale ma anche con tutto ciò che figurativamente è uno specchio, come la televisione. Non è che non mi piaccia ma preferisco capire come gli altri mi vedono e osservare la loro reazione: l’immagine riflessa è sì oggettiva ma non veritiera.
Quanta importanza ha avuto per il tuo percorso d’attore l’aver trovato l’agente giusto?
Molta. Matteo Lipani si è rivelato fondamentale, così come la mia primissima agente Federica Agresti, una persona capace, sensibile, talentuosa e molto attenta che, a causa di vicissitudini varie, ha chiuso la sua agenzia di Milano. Avevo già in mente di trasferirmi a Roma quando è avvenuto e nella capitale ho avuto la fortuna di trovare Matteo, sin da subito ricettivo nei confronti di ciò che potevo offrire e di quelle che le erano le mie carte. Sin da subito, mi ha offerto dei ruoli molto intriganti, tra cui quello di Evaristo… un personaggio che definirei un colpo d’asso dal momento che inizialmente il mio ruolo doveva essere per il ragazzino che in un episodio della serie è innamorato di Elodie. A oggi, Matteo è come un pezzo della mia famiglia.
Cosa ti attende adesso, oltre al film di Andò?
Con Il Milione stiamo lavorando a uno spettacolo con i quaranta elementi del Coro alpino di Sondrio, uno spettacolo costruito in buona parte da canzoni del repertorio corale alpino e in parte da materiale drammaturgico che nasce da interviste fatte ai coreuti che si presteranno anche come attori. La prima sarà a Sondrio, appunto, intorno a ottobre o novembre e ne curerò anche la regia.
Come ci si sente ad aver preso parte a un videoclip musicale come The Lonielest dei Maneskin, che ha fatto il giro del mondo?
Si prova una strana sensazione, soprattutto nel pensare a quanta gente lo ha visto. Credo sia stata una delle esperienze più surreali della mia vita: abbiamo lavorato al freddo e al gelo per due giorni e, dal punto di vista lavorativo, è stato molto faticoso, ho rimediato anche una broncopolmonite per aver rifatto decine di volte la scena della pioggia.
Ti generano fastidio le pagine internet che si chiedono chi tu sia o chi sia la tua fidanzata?
Mi fa piacere che ci sia così tanto interesse nei miei confronti: mi lusinga. Però, allo stesso tempo vorrei anche che il mio privato rimanesse tale. Io stesso uso il mio account Instagram solo per questioni professionali: tendo a proteggere tutto ciò che è intimo, dalla ragazza alla famiglia e agli amici. Anche perché il mondo social è spietato: la gente è capace di una cattiveria assurda solo perché è coperta da uno schermo.