Incontrare Pio Stellaccio è come immergersi in una conversazione dove introspezione e passione si fondono in modo autentico. Il suo percorso, tanto personale quanto artistico, racconta di una continua ricerca di equilibrio tra l'uomo e l'attore, tra ciò che è stato e ciò che spera di diventare. E quando si parla di Enzo Scanno, il personaggio che interpreta nella quarta stagione de L’amica geniale, l’attore trasmette un senso profondo di rispetto e di connessione per una figura che incarna dolcezza e resilienza, amore e lealtà.
Enzo Scanno non è solo uno dei pochi uomini a rappresentare un’alternativa positiva nell’universo della Ferrante, ma è anche un simbolo di una mascolinità diversa, che non ha paura di mostrare le proprie fragilità. Pio Stellaccio, erede di un’interpretazione magistrale lasciata da Giovanni Buselli, ha raccolto la sfida con una sensibilità che emerge nelle sue parole: “Non ho dovuto stravolgere nulla, solo trovare un modo per rendere mie alcune sfumature del personaggio, soprattutto quando si infervora”. Enzo è un personaggio che vive e ama visceralmente, e il parallelismo con la vita di Pio Stellaccio rende il dialogo tra attore e ruolo ancora più intenso.
Ciò che colpisce in Pio Stellaccio è la sua capacità di riflettere su come la recitazione abbia influenzato la sua vita. Il teatro, scoperto per caso, è stato il suo rifugio e la sua terapia, uno spazio dove imparare a conoscere e accettare i lati più oscuri di sé. Come Enzo, anche lui non ha paura di affrontare le sfide, sia sul set che nella vita quotidiana. Con serenità, racconta le difficoltà del mestiere, la timidezza che ha dovuto trasformare in forza e l’importanza della fragilità come veicolo per la crescita personale.
Quando si parla di paternità, tema centrale del suo personaggio, Pio Stellaccio non nasconde il desiderio di esplorarla anche nella vita reale. La consapevolezza che il senso della vita possa trovare compimento nel lasciare qualcosa di sé agli altri è un pensiero che avvicina l’attore alla profondità delle storie che ama raccontare. E come Enzo, il "cane fedele" che protegge chi ama senza compromessi, anche Pio Stellaccio si definisce pronto a dare tutto per ciò che conta davvero.
Emerge così ritratto di un uomo che non solo interpreta un personaggio, ma lo vive e lo porta con sé, arricchendo di umanità una figura già vibrante. Pio Stellaccio non si limita a prestare il volto a Enzo Scanno: attraverso la sua dedizione e il suo approccio profondo, restituisce al personaggio più gentile della storia di Lila e Lenù tutta la stratificazione e la delicatezza che merita.
Intervista esclusiva a Pio Stellaccio
“Essendo un personaggio che non ho creato io perché, oltre a essere nei libri di Elena Ferrante, ha già un trascorso dato da chi lo ha interpretato magnificamente in due stagioni, Giovanni Buselli, chiunque ne conosceva già quali erano le sue sfaccettature”, risponde Pio Stellaccio con il sorriso quando gli si chiede di raccontare chi è il suo Enzo Scanno nella serie L’amica geniale 4 in onda su Rai 1.
“Ho sentito dunque l’enorme responsabilità di assecondare quella direzione già intrapresa e, per fortuna, si trattava di rispondere a una sensibilità che sento molto affine alla mia”, prosegue Pio Stellaccio. “Da un certo punto di vista, non mi è stato dunque difficile calarmi nei suoi panni: ho dovuto solo trovare il modo di rendere certi passaggi caratteriali di Enzo leggermente diversamente dai miei, soprattutto quando si infervora. Rispetto a lui, sono più razionale, calmo e verbale: non ho né la sua pancia forte né la sua positiva ferocia in amore. Se dovessi descriverlo come un animale, sarebbe una sorta di cane: dimostra tutto il suo amore a chi vuol bene (Lila, nel suo caso) ma ringhia e morde chi mette in pericolo la vita delle persone a lui care”.
Mentre tutti gli altri uomini di L’amica geniale incarnano i pattern del patriarcato e del maschilismo, fortemente radicati nelle loro convinzioni anche per l’epoca in cui vivono, Enzo è colui che potremmo definire l’anima gentile della storia.
Ed è l’aspetto che ho amato di più della sua personalità. Sebbene io sia originario del sud, della provincia di Salerno, e sia andato via di casa abbastanza presto, sono cresciuto con una madre che mi ha insegnato a cavarmela da solo e che mi ha trasmesso un forte rispetto nei confronti della figura femminile: non mi è mai passata per la mente l’idea per cui una donna debba essere subordinata al volere maschile. E ho riportato sempre nelle mie relazioni quella grande parità che avevo appreso e che sapevo essere giusta. Ciò dimostra come sia sempre una questione legata all’educazione che si riceve: Enzo, come me, non ha timore della sua fragilità, smentendo quello stereotipo per cui gli uomini devono indossare una corazza di protezione per dimostrare di essere veri maschi.
Quando hai cominciato a riconoscere e ad apprezzare le tue fragilità?
Sin da ragazzino. Ero un bel bambino ma non corrispondevo ai canoni estetici che tutti apprezzavano perché avevo qualche chilo in più: ho dovuto quindi imparare a farmi apprezzare più per la simpatia, per la mia giocosità e per la mitezza del mio carattere. Ciò mi rendeva anche un ragazzino molto timido e introverso, che non si apriva facilmente agli altri, soprattutto ai coetanei che, si sa, sanno essere feroci e diretti. Mi è capitato anche di subire qualche episodio di bullismo ma, anziché cercare di far parte di un gruppo per sentirmi più forte, accettavo la mia fragilità e il fatto di essere semplicemente “diverso” d’animo e di spirito da alcuni altri. Accettandolo, ho anche acquisito una sicurezza che perdura ancora oggi… tant’è che non mi importa farmi vedere o riconoscere: da timido, non amo apparire e sto benissimo.
Timido ma hai scelto il mestiere dell’attore…
Lo so che sembra un controsenso… ma a diciotto anni ero così timido che arrossivo persino nel guardare in faccia una ragazza: ho dato il mio primo bacio a diciassette anni ma non ho fatto il primo passo. Poi ho scoperto il teatro: la prima volta che sono salito sul palco e ho cominciato a dire batture e a mettere in atto azioni che non appartenevano a me ma a un’altra persona mi sono sentito libero. È stato l’enorme punto di svolta della mia vita: non mi sono sentito giudicato e non ho provato imbarazzo. Il teatro è stata la mia terapia.
E come l’hai scoperto?
Me l’ha fatto scoprire un’amica che frequentavo. In paese, c’era una compagnia che metteva in scena il teatro di De Filippo, cercavano un ragazzo ed è stata lei a spingermi, del resto era per tre battute. Ho cominciato con quelle ma è stato incredibile l’effetto che mi sortito il salire su quel palco: mi sentivo sicuro, aperto e tranquillo, perché ero altro da me.
Come hanno preso in famiglia la tua propensione alla recitazione?
Per mio padre, è stato un contraccolpo enorme. Aveva uno studio di ragioneria e per dieci anni, da quando ero adolescente, ho lavorato al suo fianco, fino a quando non sono andato a Roma per un provino all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Ho lavorato quindi nel suo studio e dopo il liceo avevo anche intrapreso gli studi di Economia Aziendale assecondando quella direzione che sembrava già scritta.
Per spirito di protezione, mio padre era contrario alle mie nuove aspirazioni per cui all’inizio lo scontro con lui è stato anche molto forte, almeno fino a quando non ha visto la mia determinazione e la mia felicità nell’affrontare quel percorso che nel frattempo restituiva i suoi primi riscontri. Oggi i rapporti sono totalmente distesi e una delle persone più orgogliose del mio lavoro ma negli anni, nei momenti più difficili in cui non lavoravo o non trovavo continuità, sono state diverse le volte in cui mi ha ripetuto che se avessi fatto il ragioniere sarei stato più tranquillo. Ma la sua avversione, ripeto, era dettata dal timore: papà oggi ha novant’anni e ogni nuvola è passata, sono ritornate le carezze e la serenità (si commuove nel dirlo, ndr).
E mamma?
Mia madre è sempre stata una grande sostenitrice di ciò che volevo fare. Mi ha lasciato un’enorme libertà di pensiero ed è stata una donna straordinaria: “Fai ciò che desideri, segui la tua strada”, erano le sue parole. Paradossalmente, ho sentito più la responsabilità di assecondare le sue aspettative che quelle di papà: male che sarebbe andata, avrei a lui confermato che aveva ragione ma avrei invece deluso lei. Ed è incredibile come possa far la differenza il sentire maggior peso di responsabilità nei confronti di chi ci ama e ci appoggia, amici compresi.
C’è stato un momento nel tuo percorso in cui hai capito che quelle aspettative stavi per appagarle?
La serenità di vent’anni di carriera al momento mi dice che è un su e giù continuo: la consapevolezza più grande è rendersi conto che non ti puoi gasare quando le cose vanno bene perché può anche essere che l’anno dopo il tutto ti dica che è un’illusione. La razionalità, per fortuna, mi aiuta ad avere fiducia nelle mie capacità: so di essere un bravo attore, per cui ci saranno momenti in cui delle cose andranno meglio di quanto meriti e altri in cui non andranno bene come meriterei. L’importante è riuscire a mantenere salda la fiducia nei propri mezzi, in quello che si è studiato e nella passione per quello che si sta facendo.
Quindi, mai pacca da solo sulle spalle per aver insistito?
Ah, sì, all’inizio, quando mi hanno preso in Accademia: non era così scontato vent’anni fa che accadesse. Ma poi anche quando mi sono ritrovato a prender parte al primo grande lavoro, Il Clan dei Camorristi, e poi dieci anni dopo quando un altro grande traguardo è arrivato con L’amica geniale, con cui ho la possibilità di farmi vedere in più Paesi del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti. Ma ogni volta giro pagina come di un libro bellissimo che, dopo averlo letto, sta riposto nella mia personale libreria, quella che spero di arricchire il più possibile. Anche perché non puoi averne solo uno di libri: ci sarà sempre quello a cui sei più affezionato e che riponi maggiormente in evidenza ma ne vorrai sempre trovare di altri.
Quel bambino con qualche chilo in più quando ha avuto consapevolezza che il suo corpo poteva diventare strumento del suo lavoro e poteva anche essere sfruttato in quella direzione?
Ancor prima del lavoro che avrei poi fatto, ho cominciato a capirlo quando intorno ai 18 anni, durante l’ultimo anno di liceo scientifico (sì, ho fatto la primina), ho avuto una sorta di trasformazione da brutto anatroccolo in cigno. Ho iniziato a notare l’interesse delle ragazze e ciò mi ha fatto accorgere come qualcosa fosse cambiato, un qualcosa che comunque non è stato facile da accettare: in me è scattata quella strana sensazione per cui mi chiedevo come mai mi apprezzassero maggiormente quando ero la stessa persona di prima. Tuttora, ho uno strano rapporto con la bellezza, non ho mai puntato su quella: direi più che altro che sono un “tipo” e non un “bello”… le bellezze oggettive sono palesi agli occhi di tutti mentre il tipo, come mi reputo io, alla parte estetica antepone il fascino.
Lavorativamente, invece, me ne sono accorto un po’ più in là nel tempo, quando cominciavano ad arrivarmi ruoli di un certo tipo, da protagonista o da coprotagonista. Ma non ho ancora fatto tantissimo pace con questo aspetto: non ho mai voluto farmi inquadrare, per cui mi sento un caratterista con la faccia da protagonista. A rischio di darmi da solo la zappa sui piedi, mi sento più portato per come sono caratterialmente per quei personaggi che si possono caratterizzare spingendosi oltre.
Ma per causa di quel ragazzino che non capiva come mai le ragazze cominciassero ad assediarlo?
Forse. Ma perché dentro di me sento che certe volte, per come vengono scelti i protagonisti soprattutto nella serialità televisiva, è più interessante soffermarsi sui colori dei coprotagonisti con le loro belle facce interessanti che hanno molta più possibilità di esprimere il luogo recitativo. Ed è quello che mi affascina di più: sogno un protagonista all’americana, quello che non necessita di un viso bello ma di una faccia interessante per un personaggio molto ricco di sfumature e non dimensionale, come tanti se ne vedono spesso in alcune delle nostre fiction. Per cui, spero di non essere mai definito un “bello”.
L'amica geniale 4: Le foto
1 / 32La recitazione permette quasi sempre di scoprire aspetti di sé che non piacciono o spaventano. Quali nel tuo caso?
Un esercizio che mi ha sempre affascinato molto sin dall’Accademia era lo studio di personaggi ambigui: al di là dello sguardo o dell’animo “dolce”, ho dei tratti che sono molto taglienti per cui è facile vestire anche dei panni negativi. Questa possibilità mi ha permesso di giocare, infatti, sulla scelta di personaggi che sembrassero in apparenza in una maniera e che poi si rivelassero in un'altra, sia che fossero buoni o cattivi. Ciò mi ha spinto a entrare in contatto con le mie parti più oscure, quelle che ribollivano dentro e che solo io conoscevo, tenendole a bada.
Sono quelle stesse parti che il teatro o la televisione mi permettono di lasciar emergere e che vanno coltivate proprio per tenerle sotto controllo: più le si conosce, più le si domina. E sarebbe terapeutico per tutti farlo, soprattutto per imparare a relazionarsi meglio con gli altri in un’epoca in cui l’alienazione ha preso il sopravvento soprattutto tra i ragazzi: potrebbero incanalare la loro rabbia su un palco, in un ambito dove è consentito farlo senza far male e senza farsi male.
Quanto è stato difficile non farsi male in adolescenza crescendo tra mille tentazioni diverse?
La verità? Sono stato fortunato perché, pur vivendo in un paese relativamente piccolo, ho avuto la possibilità di crescere per strada tra i vicoli in cui quasi non passavano macchine e in cui si poteva giocare a pallone o costruire le carrettelle. Ho anche visto cose che non avrei dovuto vedere ma ho sempre avuto l’esempio dei miei genitori e la meraviglia di incontrare amici quasi sempre sani, con cui sì stavamo a contatto con altre realtà ma avevamo la libertà di scegliere che via seguire.
Ma il cardine è stata l’educazione dei miei genitori: la libertà da una parte di mia madre e la durezza dall’altra di mio padre con il loro equilibrio mi hanno dato l’indicazione corretta che mi ha aiutato a scegliere le persone di cui circondarmi, quasi sempre dotata di una sensibilità simile alla mia. sono riuscito così a rifuggire da quel tipo di ambienti che potevano farmi male pur crescendo negli anni Ottanta, un periodo in cui nel mio paese c’era la droga, gli attentati e i continui omicidi legati alla camorra. Famiglia, amicizie, scuola e forte senso di comunità riempivano il vuoto facendo da punti di riferimento.
È stato semplice avventurarsi da soli nella capitale quando per studio hai dovuto trasferirti a Roma?
È stato un sogno, un salto che ho fatto con slancio perché comunque non sentivo di voler crescere nel mio piccolo paese, un posto che all’epoca (oggi qualcosa in tal senso è cambiata grazie al lavoro delle amministrazioni) non aveva una storia. E per uno come me grandissimo appassionato di storia, da sempre amante dei borghi medievali e delle chiese, non era il massimo: evoluto dal primo dopoguerra in poi, il posto in cui sono cresciuto non avendo storia non aveva quasi radici, quella cosa che ti tiene anche legato fortemente a un luogo.
Non voglio essere frainteso: ringrazierò sempre il luogo da cui vengo per le amicizie e ciò che mi ha dato ma, ahimè, la storia la si sta costruendo adesso, grazie anche a una serie di iniziative anche culturali a cui spero un giorno di poter prestare il mio contributo. A Roma di tradizioni, dunque, ne ho trovate a non finire ma ciò non vuol dire che non mi sia sentito spaesato per il suo essere policentrica, per cui non sono mai diventato del tutto romano… ragione per cui continuo anche a conservare la mia cadenza: se perdiamo il dialetto, perdiamo le radici e facciamo scomparire la memoria storica dei nostri nonni.
E a livello pratico qual è stato il peso di separarsi dalla famiglia, dagli amici o dalla fidanzata?
La fidanzata dell’epoca mi ha lasciato perché avevo deciso di intraprendere lo studio per diventare attore, voleva una famiglia nel nostro paese. Mio padre ha chiuso lo studio di ragioniere prima che sostenessi l’esame alla D’Amico andando, quasi per protesta, in pensione… Roma è stato quindi un grande salto nel vuoto ma il mio desiderio era ancora più grande. Non è stato facile ripartire da zero e senza nessuno a cui aggrapparsi in città ma il fatto di ritrovarsi di colpo dalle 9 del mattino alle 6 di sera con venti altre persone che condividevano i miei stessi sogni, speranze e ambizioni, mi spingeva ad andare avanti.
Per me, è stato anche come ritornare al liceo dopo aver fatto l’università (ero anagraficamente uno degli studenti più “anziani”) e, per quanto bello, anche economicamente non era semplice. I miei mi sostenevano gli studi ma quasi non uscivo di casa per evitare di spendere altri soldi ed essere costretto ad andare a lavorare di sera perdendo eventualmente la mia concentrazione al mattino successivo in Accademia. Molto banalmente, mi preparavo anche in casa ciò che avrei dovuto mangiare il giorno dopo in pausa pranzo pur di non andare al bar e gravare ulteriormente sulle spalle dei miei.
Alla luce del percorso, pensi che la recitazione ti abbia più dato o tolto?
Mi ha assolutamente dato: sarei capace di accontentarmi veramente di poco pur di fare questo mestiere che per me è pura gioia. E, infatti, non ho una casa enorme, non guido un’auto extralusso e non vesto firmato: sono tutti accessori che non ho mai inseguito e mi fa essere felice non averlo fatto, mi basta il minimo indispensabile. Sono stato anche capace di stare una volta fermo del tutto per tre anni perché non mi sceglievano per nessun lavoro, senza pensare di prendere un’altra strada: conoscendo le mie possibilità, ero fiducioso e tenevo duro.
Sapevo che prima o poi le cose sarebbero ripartite, ragione per cui oggi preferisco far la formichina quando ne ho l’opportunità mettendo da parte per gli eventuali periodi di magra. Il mio principio è che la felicità non è data dall’inseguire ciò che è materiale: sembra una frase da cioccolatini ma è vero, mi interessa più la serenità che mi dà qualcuno quando mi chiama a lavorare.
Attore per ambizione o per necessità?
Sicuramente per necessità, perché mi fa semplicemente stare bene. La mia ambizione è semmai quella di continuare a farlo e a un livello sempre migliore: parliamo di un lavoro che ti arricchisce in maniera incredibile anche per ciò che apprendi studiando. E io sono curioso di tutto, dalla storia alla matematica. Fortunatamente, ho fatto in modo che non diventasse mai una fissazione o un’ossessione: mi fa star bene come l’andare a giocare a pallone, anche a 46 anni nonostante mi faccia male fisicamente o sia costretto poi a fare le infiltrazioni al ginocchio!
Il tuo Enzo Scanno si confronta con il tema della paternità. E Pio Stellaccio?
In me, c’è tanto spirito di paternità. È da un po’ di tempo che ci penso e sarei contento di diventare padre, mi sento pronto: da uomo di scienza, mi piacerebbe poter rispondere al senso della vita in chiave non solo biologica cercando di sopravvivere all’eternità. E l’unico modo per farlo è cercare di lasciare una parte di noi che sopravviva anche quando non siamo più ciò che siamo.
Quando ti sei reso conto di essere diventato un adulto?
Fino in fondo, quando ho realizzato che ciò che faceva star bene me non doveva andare in conflitto con il far star bene gli altri. Se penso alle relazioni sentimentali, non vado fiero di aver fatto nel tempo anche soffrire seppur io stesso non ci stessi bene nel farlo. Ma è un aspetto di me che sono riuscito a superare anche con l’aiuto della terapia: lo psicologo mi ha permesso di capire che spesso non affrontiamo certi nostri limiti o certe nostre paure reiterando dinamiche che non ci fanno per nulla star bene.
Affrontarli, mi ha permesso di sentirmi oggi in pace non solo con la donna al mio fianco ma anche con gli altri ed è ciò che mi ha fatto dire che sono diventato un uomo, quello che con chiarezza riesce senza vie traverse o senza compromessi particolari a confrontarsi in maniera onesta con le persone.