Arriva al cinema il 26 febbraio, distribuito da Lucky Red, Profeti, il nuovo film di Alessio Cremonini. A cinque anni di distanza da Sulla mia pelle, con cui ha guadagnato ben 4 David di Donatello (compreso quello al miglior regista esordiente, Alessio Cremonini ritrova in Profeti Jasmine Trinca, chiamata a dar corpo al personaggio di Sara, una giornalista italiana che nel film finisce nelle mani dell’Isis in Siria nel 2015. Finisce così rinchiusa per 105 giorni in casa di Nur, una foreign fighter convertita all’Islam con cui inizia un particolare rapporto dialettico sulla condizione femminile, sulla sottomissione e sulla religione.
Sceneggiato dallo stesso Cremonini con Monica Zapelli, Profeti è un film che racconta di donne e che è fatto soprattutto di donne. Il reparto tecnico è segnato da tantissimi nomi al femminile: oltre alla già citata Zapelli, troviamo anche Susan Dabbous* (consulente alla sceneggiatura), Sabrina Balestra (scenografa), Angela Tomasicchio (costumista), Asmae Allaoui (truccatrice), Chiara Gherarducci (segretaria di edizione), Rita Favone (delegata di produzione) e Olivia Musini (produttrice per CinemaUndici). Mentre il cast artistico, oltre alla maestosa Trinca (chi può, recuperi la versione originale del film in cui l’attrice recita in inglese), conta sulla sorpresa Isabella Nefar, attrice italo-iraniana al suo debutto in un titolo italiano.
Il motivo è spiegato da Alessio Cremonini nel corso di quest’intervista esclusiva: il XXI secolo è il secolo delle donne, almeno così si augura, chiamate a quell’uguaglianza di diritti negata dagli uomini da migliaia di anni a qualsiasi latitudine. Perché le donne siano il principale nemico dell’Isis, come dice nel film Profeti una combattente curda, ma anche dell’uomo stesso rimane un mistero ancora soluzione. In Profeti Cremonini non offre la chiave di risposta ma tenta semmai una chiave di lettura asciutta, priva di retorica e, soprattutto, attuale alla luce di ciò che sta avvenendo in Iran.
Cinema politico, radicale ed essenziale, il suo. Che ancora una volta parla di prigione e prigionia. Quella di Sara non è lontana dall’esperienza di Cucchi raccontata in Sulla mia pelle, così come si avvicina a quella delle due sorelle narrata da Border, entrambi film diretti dal regista. E siamo sicuri che non sarà lontana dalle altre che Cremonini con il suo punto di vista privo di giudizi e condanne ci narrerà in futuro.
*Giornalista freelance italo-siriana, Susan Dabbous è stata rapita per dieci giorni insieme ad altri tre giornalisti italiani nell’aprile del 2013.
Intervista esclusiva al regista Alessio Cremonini
Profeti arriva a cinque anni di distanza da Sulla mia pelle, il film sulla vicenda di Stefano Cucchi. Hai cambiato totalmente pelle, tanto per giocare con le parole, presentando una storia all’apparenza lontana per ambientazione. Hai anche scelto di girare in lingua inglese e arabo. Il film esce sottotitolato al cinema?
No. Già portare un film in sala è un mezzo suicidio, a meno che tu non abbia un film con effetti meravigliosi come Avatar o titoli del genere. Se già prima era complicato portar un film al cinema, oggi lo è ancora di più. Figuriamoci poi per una storia che, quanto meno per ambientazione, non sembra appartenerci. Uscirà sicuramente qualche copia in originale con i sottotitoli ma la maggior parte saranno doppiate.
Si tratta di abbozzare alle logiche di mercato?
Se avessi dovuto abbassare la testa alle logiche di mercato, avrei fatto tutt’altro genere di film. Semmai è perché mi rendo conto che Profeti affronta un tema già di per sé difficile e complicato. In qualcosa devo favorire lo spettatore.
Partiamo subito dal titolo del film: perché Profeti?
Una volta, molti millenni fa, la parola profeta veniva utilizzata per riferirsi a cui che parlava del presente. Pian piano, il profeta è diventato qualcuno che guarda al futuro. Da sempre, dunque, i profeti sono coloro che ti spingono a fare delle cose, in qualche modo belle, brutte, giuste o sbagliate. Anche in politica, ci sono sempre stati i profeti. In Europa ne abbiamo sempre avuti e ci hanno portato a dei massacri straordinari: le guerre mondiali sono state volute dai profeti che, in qualche modo, delineavano un futuro spesso orribile e atroce. Quindi, la parola “profeta” contiene tutto e il contrario di tutto, al di là del fatto che c’è anche un capitolo del Corano intitolato così.
Mentre parli, rifletto sulle date. Profeti esce al cinema il 26 gennaio, un giorno prima della Giornata della Memoria. C’è uno strano parallelo che si potrebbe fare tra la Shoah e i nuovi olocausti del XXI secolo.
Tra gli olocausti, la Shoah è stato quello più atroce, anche perché avvenuto in Europa, in un posto che si credeva oramai libero nel Novecento, ha visto uno dei Paesi più avanzati, la Germania, contro il popolo ebraico ma anche contro i gruppi sotto rappresentati, dagli omossessuali ai rom. La costante con i nuovi olocausti è data dal tentativo di distruzione messo in atto da qualcun nei confronti di qualcun altro.
Basti vedere come adesso abbiamo una nuova guerra in Europa quando fino a qualche anno fa i conflitti erano solo alle porte d’Europa, dimenticando come una parte della nostra cultura e non solo provenga da lì e non solo per motivi migratori. A qualsiasi latitudine avvengano, i bombardamenti uccidono. La guerra che si racconta in Profeti, con lo strano rapporto tra due donne – una carceriera e una detenuta – è differente da quella che si vive oggi nelle motivazioni ma la sostanza non cambia: le sofferenze sono sempre le stesse.
Da dove nasce il serio di raccontare la storia narrata in Profeti?
Dal mio interesse a parlare di prigioni e prigionie. È un po’ il filo rosso delle mie narrazioni: sento le prigionie, di qualsiasi forma esse siano, come una somma ingiustizia. E poi dal desiderio di parlare di donne. Spero che questo sia il secolo delle donne perché mi sembra che, purtroppo, la questione femminile debba ancora fare dei passi avanti e trovare ancora una bozza di risoluzione.
Quindi, ho pensato che parlare di Daesh, quella cosa stranissima che era il Califfato, potesse aiutarmi a mettere insieme le due cose, a raccontare in qualche modo la questione femminile. Mi ha dato lo spunto per parlare della sottomissione delle donne agli uomini, un problema che si estende ben oltre il Califfato, che passa per il Medio Oriente e che arriva sin da noi. Ricordiamoci, ahimè, che siamo il Paese in cui c’è ancora un femminicidio al giorno. Anche in questo caso, cambiano le motivazioni sociali, economiche, psicologiche e culturali ma è comune il desiderio dell’uomo di tenere in una condizione subalterna la donna. Un desiderio, credo, millenario.
Avallato sia dal Corano sia dalla Bibbia, dove Eva nasce da una costola di Adamo.
Non mi addentro nelle questioni religiose perché sono sempre molto delicate. Ci vuole una conoscenza particolarmente approfondita altrimenti si rischia di dire cose inesatte.
O di attirarsi antipatie non volute.
Non ne ho mai fatto una questione di antipatia. Come dire, ho fatto film che a qualcuno sono sempre stati molto antipatici, come ad esempio Sulla mia pelle. Se non volessi attirarmi antipatie, come dicevo prima, farei altri generi di film, altrettanto nobili ma chiaramente diversi. È proprio per una questione di precisione: per religione la gente si accalora, meglio evitare inesattezze. Non so giudicare gli scritti del Corano ma nemmeno quelli della mia religione, sebbene io sia credente cristiano.
Credo però che gli uomini nel cercare di chiarire i testi sacri per renderli più puri e pieni di amore abbiano finito per peggiorare le cose. Noi occidentali da un testo come i Vangeli, che sono tutto tranne che violenti, siamo riusciti a fare le Crociate e a sottomettere e uccidere milioni di indios con la scusa di convertirlo. È incredibile quanto l’essere umana riesca a capovolgere tutte le situazioni.
Quanto ti sei preparato per la scrittura della storia di Profeti, sicuramente complessa a livello di tematiche?
Molto. Ed è il motivo per cui sono passati anche molti anni tra un film e l’altro. Il mio interesse per il Medio Oriente c’è da tempo, da almeno una ventina d’anni, da quando scrissi insieme ad altri sceneggiatori, Private, il primo film di Saverio Costanzo. È stato lui a trasmettermi il desiderio di raccontare quelle realtà. Qualche anno dopo, nel 2013, ho anche autoprodotto con poche decine di migliaia di euro un altro film, Border, un film con protagoniste due giovani sorelle siriane profondamente religiose che non è mai uscito in sale ma che è transitato per qualche festival.
È come se ad ogni lustro mi venisse fuori il desiderio di raccontare il Medio Oriente, una parte di mondo in cui è possibile trovare decine di etnie che, affastellate l’una all’altra, ultimamente si ritrovano in lotta per via di diverse religioni e confessioni. Trovo meravigliosa la mescolanza, qualcosa che oramai in Europa si è persa e che temo prima o poi scompaia anche da quelle parti per colpa di noi occidentali: riusciamo a fare sempre la cosa sbagliata, sembra quasi che lo facciamo apposta. Lo dico, ovviamente, ironicamente.
Sul far la cosa sbagliata, c’è un bellissimo dialogo tra Nur e Sara sui cosiddetti “danni collaterali”, ovvero l’uccisione da parte degli occidentali di civili che non erano obiettivi di guerra.
Tendiamo a dire che i morti sono tutti uguali ma non è vero. Quando in guerra muore qualcuno dei nostri (purtroppo ci è toccato), ne siamo colpiti a livello profondissimo. Ma quando siamo noi a uccidere con le nostre armi, i nostri errori e il nostro interventismo, sembra quasi che i morti non abbiano valore: ci dimentichiamo di quelli degli altri. C’è questo trend per cui ci indigniamo molto verso chi uccide i nostri e molto poco quando siamo noi ad uccidere: è come se avessimo una bilancia truccata.
Tra l’altro, proprio di recente, nell’oramai famoso libro del principe Harry si racconta un episodio in cui ha ucciso 25 talebani ma nessuno, almeno in Italia, sembra aver dato peso a quelle parole.
Siamo molto poco abituati ai temi seri. Forse preferiamo sapere su qualcuno che divorzia o tradisce. Sarà forse per voglia di evadere, non so. Probabilmente, è più facile seguire le peripezie della soap opera Windsor piuttosto che le notizie inerenti all’esplosione di una moschea con il numero di morti che ha determinato.
Piccola parentesi: il mondo delle soap opera tu lo hai conosciuto realmente…
Io ho iniziato scrivendo una decina di episodi di Vivere, una soap italiana di tantissimi anni fa. Ma ero veramente negato tanto che mi giustamente non me ne hanno più proposti. Non ho snobismo per il genere o per la forma di racconto: trovo ad esempio ben fatta Un posto al sole: qualche volta l’ho anche guardata!
Sulle donne in guerra o in Medio Oriente sono stati realizzati diversi film negli ultimi anni. Il primo che mi viene in mente è Red Snake con nel cast la nostra Maya Sansa. Li hai visti?
No. Preferisco più vedere o andare sul luogo quando posso la realtà non filtrata da altri. Preferisco i video originali che mi mostrano la realtà filmata senza la mediazione di altri: la reputo il più possibile veritiera.
Dove hai girato?
Ho girato in Italia. Realizzare le riprese nei luoghi della storia sarebbe stato impossibile per vari motivi, oltre che pericoloso. Si tratta in fondo di un film su un rapimento. E nei film sui rapimenti i detenuti di solito non vengono lasciati liberi a passeggiare per i prati. Gran parte dell’azione si svolge dentro una casa mentre gli esterni sono stati realizzati in Puglia.
Scegli come protagoniste Jasmine Trinca e Isabella Nefar. Alla prima ti lega sicuramente un legame fortissimo nato sul set di Sulla mia pelle. Come arrivi invece a Isabella?
Hai detto bene: con Jasmine c’è un fortissimo legame di grandissima stima e affetto, dettato anche da una concordanza su ciò che si vuole fare. Isabella è arrivata per puro caso. Essendo ancora in epoca CoVid, abbiamo fatto i casting attraverso i video che le attrici ci inviavano. Volevo un volto poco conosciuto e ho cominciato a ricevere video da ogni dove, dal centro delle grandi città non solo europee (ma anche dalla Turchia, dall’Egitto o dall’Iran) alle periferie. Fino a quando non è arrivato quello di Isabella.
Di origine iraniana, Isabella vive a Londra. Ho scoperto solo dopo averla scelta che era in realtà italo-iraniana. Parla dunque anche italiano: qualcosa di geniale dal momento che sapevo mi avrebbero fatto doppiare il film. Avrebbe lei doppiato se stessa ma con quello strano accento di chi conosce l’italiano non perché vive in Italia ma perché imparato per altri motivi.
Trovo Isabella un’antagonista perfetta. Non è retorica e non cerca la simpatia del pubblico, cosa che il suo personaggio non avrebbe dovuto fare dal momento che si parla comunque di temi e argomenti che hanno portato anche a stragi eccezionali (pensiamo al Bataclan…). Profeti non doveva essere una favoletta cinematografica che doveva spingere lo spettatore a entrare in empatia con la sua Nur.
Profeti: Jasmine Trinca e Isabella Nefar
1 / 2Profeti è un film di donne in scena ma anche dietro le quinte. A livello realizzativo, sono stante le donne che vi hanno preso parte: dalla sceneggiatrice Monica Zappelli alla consulente Susan Dabbous, dalla scenografa Sabrina Balestra alla costumista Angela Tomasicchia e alla produttrice Olivia Musini. Scelta consapevole?
La mia famiglia è, tutto sommato, una famiglia di donne, ho anche una figlia femmina! Come dicevo prima, mi auguro che sia il secolo delle donne. Se non lo sarà, saranno grandi problemi per l’umanità. Non è retorica ma le donne sono migliori di noi uomini. Mi fa piacere aver realizzato un film con due donne al centro, una protagonista e l’altra antagonista: non è facilissimo che avvenga nel cinema italiano. Il nostro cinema ha scritture più maschili. Capita raramente che ci sia una protagonista femminile: in Profeti, ce ne sono due e molte altre dietro le quinte.
Nur è una foreign fighter e il suo compito è quello di portare Sara alla shahada, alla conversione. Qual è il tuo pensiero sulle donne occidentali che si convertono all’Islam, per salvezza o altro?
Sulla conversione, alzo le mani Non giudico nessun tipo di conversione, figuriamoci una che è del tutto immateriale. Non so perché ma il concetto di convertire assomigli a quello di sconvolgere, ribaltare. Non è un caso che ci sia un’inquadratura con Sara seduta a un tavolo che pian piano ruota.
Per Profeti scegli anche un finale in qualche modo aperto.
Non volevo realizzare un film banale. Profeti può essere brutto, bello o antipatico, ogni giudizio è legittimo, ma non banale. Scegliere di far tornare Sara in Italia sarebbe stata una soluzione di comodo. Ho preferito lasciarla in sospeso proprio perché, per quanto riguarda la questione femminile, non credo ci sia una soluzione in questo momento. Non voglio fare il profeta e non volevo profetizzare una fine positiva. Anche perché al momento non la vedo: ci sono piccoli segnali ma c’erano anche quando dieci anni fa ho realizzato Border.
Ritroviamo Sara anche nelle mani di un esercito regolare…
Si, anche se la parola regolare fa un certo effetto: ci siamo tutti resi conto di cosa fanno gli eserciti regolari, anche quelli occidentali. Basti pensare a La Ciociara di Moravia dove il racconto di un esercito regolare venuto a salvarci si trasforma in quello di uno stupro (non accade a Sara, ndr). Purtroppo, nei momenti di guerra esce fuori sempre la bruttura umana.
A cosa lavorerai adesso?
Sicuramente a un nuovo film sulla prigionia, sperando che non passino nuovamente così tanti anni da un lavoro all’altro.
Perché quest’interesse per le prigioni?
La prigionia è l’esatto contrario di quello per cui è fatto l’uomo. Tuttavia, l’uomo tende spesso a imprigionarsi in gabbie psicologiche. Viene imprigionato o si auto imprigiona: in una relazione, in amicizia, sul luogo di lavoro… anche la terapia intensiva può essere una prigione così come il corpo stesso o l’orientamento sessuale. Pensiamo a quanti adolescenti si sono suicidati perché venivano messi in gabbia dal giudizio altrui.