Time Out (Bizzarri Prod/Believe) è il terzo album dell’artista italo-nigeriano Raphael, il primo da lui interamente cantato in italiano. Arriva a sette anni di distanza dal precedente lavoro ed è frutto delle esperienza che Raphael ha maturato in un periodo così lungo: i tour con Roy Paci & Aretuska, la partecipazione a The Voice of Italy su Rai 2, le finali di Sanremo Giovani e le varie collaborazioni (compresa quella con i Punkreas).
E di collaborazioni in Time Out ce ne sono tante: Miriam Masala, Foresta, Awa Fall e Tommy Kuti accompagnano Raphael in un disco maturo e intimo che non ha paura di parlare di amore in varie sfumature. Di un amore che finisce ma anche di amore nei confronti della propria madre, di amore amicale così come di amore verso se stessi, anche quando tutto sembra circondato dal blue della depressione.
“Ho cominciato a scrivere nella mia lingua, l’italiano, paradossalmente dopo un viaggio in California. Poi il lockdown, una separazione...sembrava che il mondo intero e il mio mondo personale stessero esplodendo insieme”, ha rivelato Raphael. “Ho riversato tutto nella musica, scegliendo di non limitarmi ad un unico genere ma di unire tutti gli stili che mi hanno sempre influenzato, cercando di creare un mio sound. Queste canzoni parlano tanto di me e penso che in tanti si riconosceranno nelle storie che racconto”.
Come singolo promozionale, Raphael ha scelto Italiano a metà, un brano che racconta cosa significhi vivere con un aspetto straniero in Italia, pur essendo italiani. Ed è questo uno dei tanti aspetti toccati nella nostra intervista con Raphael, durante la quale abbiamo cercato di capire chi è l’uomo che si cela dietro le canzoni, il suo pensiero e la sua vita. Figlio di mamma calabrese e di papà nigeriano, oggi Raphael è anche padre di due bambini di 9 e 12 anni ma non per questo si è fatto imbrigliare dalle omologazioni. Anzi.
Intervista esclusiva a Raphael
“Sono a casa, sto facendo fare i compiti ai miei due figli”, mi risponde Raphael non appena lo sento. “Vivo a Genova, mille giri per il mondo e poi sono finito a 50 km dal posto in cui sono cresciuto, Savona”.
Time Out è il tuo terzo album ma è il primo totalmente in italiano. Anche perché, diciamolo subito, tu sei italiano a tutti gli effetti.
Mia mamma è calabrese, per la precisione, mentre papà è arrivato dalla Nigeria. Si sono sposati nel 1980, io sono nato nel 1986 a Savona e sono sempre stato qui: l’unica famiglia che conosco è quella italiana. Di quella nigeriano, a parte uno zio, non ho molta conoscenza: era più difficile mantenere i contatti per la distanza.
Time Out è figlio del CoVid e del periodo legato alla pandemia. Come ha vissuto una persona come te, abituata a giri immensi, quei giorni di chiusura?
La verità? È stato più facile di quel che pensassi… In realtà, avevo iniziato a scrivere i brani prima della pandemia, anche se poi la maggior parte è venuta durante il lockdown. Più facile perché valeva il detto “mal comune mezzo gaudio”: un conto è quando sei costretto tu da solo a rimanere in un letto e a guardare i tuoi amici dalla finestra giocare a pallone e un altro conto è guardare dalla finestra e vedere nessuno giocare. Il lockdown era sì un momento difficile ma lo era per tutti. Ed è stata proprio la condizione di assoluta globalità a farmi trovare la forza di prendermi una pausa dalla frenesia di tutti i giorni.
A dirla tutta, con la musica era diventato difficile vivere già da due o tre anni prima del CoVid. L’attacco al Bataclan, ad esempio, aveva causato una serie di conseguenze di non poco conto: c’era la percezione che proporre musica fosse rischioso, i locali dimezzano le capienze e le piazze non venivano più concesse facilmente per gli eventi per motivi di sicurezza pubblica. La pandemia ha solo dato il colpo di grazia.
Prima della pandemia, vivevi solo di musica?
Prima della pandemia, la musica e i concerti erano la mia prima fonte di pane. Facendo parte del circuito underground, non è che vendessi milioni di dischi ma riuscivo a vivere. Dopo il lockdown, ho dovuto invece fare un po’ di lavori differenti (manovale in cantiere, manutentore, operatore sociale con gli stranieri minori non accompagnati) non dicendo mai di no: ho due figli, gli alimenti da pagare, le bollette… le cose da grandi a cui pensare!
Le riflessioni fatte durante la pandemia ti hanno portato anche a ragionare su te stesso. Time Out si apre con un brano che si chiama Va bene così.
È una presa di consapevolezza su come il mondo stia andando sempre più veloce e non si abbiano più le gambe di dieci anni prima per stare al passo e forse nemmeno la voglia di correre. La pretesa dell’essere tutti felici e del fare qualcosa di grande o grandioso è una cornice sì fantastica ma ingannevole. La positività tossica fa sì che nessuno sappia più come vivere i sani fallimenti o comunque affrontare le fasi down della vita.
“Io da questo palco scendo, non trovo più quel senso di conforto”, si dice nella canzone. Ed è vero: c’è stato un momento in cui nel fare musica trovavo conforto ma adesso, pur avendo un mestiere in mano, mi ritrovo a dovermi districare tra ragazzini che si sono svegliati l’altro ieri, che non sanno intonare l’autotune in là e che però portano magari il 75% in più di pubblico rispetto a me. Quindi, tutto quello per cui ho lavorato per vent’anni non vale più: in pratica, è cambiato lo sport. E arriva quel momento in cui, guardando indietro a quello che si è fatto e a quello che ancora si può fare, ci si dice che alla fine va bene così, cos’altro dovrei fare?
Ma è un andare avanti serenamente. Si vive di fasi e mi rendo conto che l’edonismo a tutti i costi del music business non fa per me. L’ho già rifiutato a 16 anni quando ho scelto di fare reggae, una roba che già nel 2002 era vecchia di trent’anni, quando già si affacciavano sulla scena il Mondomarcio e il Club Dogo dell’epoca. Quella roba non la sentivo come mia e non avrebbe senso che la proponessi oggi, a quasi quarant’anni: ogni tanto qualcuno ci prova a dirmi “mettiti un dente d’oro o due perline tra le trecce” ma non ce la faccio. Purtroppo, è il mio grande limite, me ne rendo conto, ma per me la musica ha un’altra funzione.
La positività tossica lascia conseguenze che emergeranno negli anni: è inutile infondere il pensiero nei giovani che vada sempre tutto bene.
Che poi è un problema anche della mia generazione. Siamo cresciuti con tutti quanti che ci dicevano che saremmo stati i ragazzi del Duemila e che avremmo avuto il futuro in mano. A vent’anni però poi ci dicevano di stare zitti perché non sapevamo nulla e a trenta ci considerano già vecchi. Ma nel frattempo, quei dieci anni di differenza li abbiamo impiegati per farci otto master, studiare o lavorare. Siamo la generazione che è rimasta tra l’incudine e il martello, cavie di passaggio.
L’album prosegue poi con un brano molto delicato e bello, Solo per te, dedicato a tua madre. Che rapporto hai avuto con lei?
Mia madre è sicuramente la persona più importante della mia vita. Mi ha sempre sostenuto e ha sempre creduto in Raphael più di me: è lei che da piccolino, accorgendosi della mia inclinazione per la musica, mi ha portato nel coro dello Zecchino d’Oro ed è sempre lei che nel 2006, quando avevo già 19 anni, mi ha iscritto di nascosto al Festival di Castrocaro, dove poi tra l’altro sono arrivato in finale. È sempre stata un drago, oltre al fatto che come tante altre mamme ha dovuto da sola crescere me e mio fratello: quando poi si diventa genitore a propria volta, ci si rende conto di tutta una serie di dinamiche e non si può non essere grati a tutto quello che è stato fatto per te.
La canzone è un ringraziamento in musica per la persona che mi ha permesso di esprimermi e di crescere secondo le mie passioni: là dove altri genitori avrebbero detto di tagliarsi i capelli e andare a lavorare, lei mi diceva di lavorare, di non tagliarmi i capelli e di cercare di suonare il più possibile.
Com’è stato essere cresciuti solo con mamma?
I miei si sono definitivamente separati nel 2000. Mio fratello è nato nel 1990 e ha vissuto papà meno di me: in quei dieci anni, mio padre trascorreva dei lunghi periodi in Africa per lavoro. Ricordo anche che una volta è rimasto per tre anni di fila tanto che siamo dovuti andare noi a trovarlo con non poche difficoltà. Essendo io nato quattro anni prima di mio fratello, ho ovviamente più ricordi con mio padre ma non è stato facile mantenere i contatti: erano gli anni in cui non c’era Skype, non c’erano i voli low cost e non esistevano gli smartphone. Tremila chilometri di distanza erano tremila e si avvertivano tutti.
C’erano sì le telefonate ma era la mamma quella che si occupava della scuola, di iscriverci alla stagione sportiva, della borse delle scarpe da calcio e di tutto quello che ci serviva, non per ultimo di mettere un pasto a tavola alla fine della giornata. C’è gratitudine anche verso mio padre, è chiaro, ma ci sono elementi di gratitudine ulteriore verso mia madre… e poi per noi italiani la figura della mamma è sempre sacra.
Diventando padre a tua volta, pensi che ti sia mancata qualcosa della figura paterna o, comunque, del rapporto padre figlio?
Sicuramente ma è qualcosa che ho capito solo crescendo. Io, ad esempio, ho trovato la mia realtà a 50 km da dove sono nato ma quella che era la mia quotidianità non esiste più, non ho più gli amici del mio quartiere: ognuno è andato avanti con la propria vita e abbiamo perso un po’ il contatto con quello che eravamo e con quello che era il nostro mondo precedente. È capitato a me a 50 km, figuriamoci cosa deve essere stato per mio padre che è arrivato in Italia dalla Nigeria nel 1977 per studiare: non aveva davanti l’Italia sicuramente più integrata e multiculturale di oggi o quella degli anni Novanta, in cui diventava comune vedere trentenni africani arrivare da noi per periodi di sei mesi di lavoro come venditori ambulanti per poi ritornarsene a casa.
Lui era come una mosca bianca: non era così comune vedere un uomo nero in giacca e cravatta. Prima di salutarlo, gli chiedevano come mai fosse vestito in quel modo. Mio padre non è riuscito mai a adattarsi completamente e a un certo punto della sua vita ha deciso di tornare definitivamente là dove era nato.
Sono tuttavia convinto che le cose vanno come devono andare: era una persona molto severa e religiosa, se fosse rimasto in famiglia molto probabilmente sarebbe stato una figura molto ingombrante per la mia crescita… chissà, non avrei forse nemmeno sviluppato tutto il mio percorso musicale e sarebbe stato lui a decidere per me. Mia madre mi ha sempre lasciato piuttosto libero, anche se ha combattuto parecchio per farmi terminare le scuole superiori: al terzo anno di liceo classico, avrei voluto mollare. Grazie al cielo, ha insistito: oggi senza diploma non si va da nessuna parte!
Dici che la realtà italiana di oggi è un po’ più integrata rispetto a quella del finire degli anni Settanta. Ci credi veramente?
Sì, perché comunque per ogni notizia brutta di odio, casini e così via, che sentiamo ce ne sono altre belle che non vengono portate alla luce. In Giamaica, c’è un proverbio che dice che un barile vuoto, buttato giù, fa più rumore di uno pieno: sembra quindi che ci sia la volontà di mettere in risalto più un migrante che compie un reato anziché uno che dà lavoro a dieci italiani.
Grazie al cielo, con la musica posso viaggiare e vedere molte realtà che mi fanno capire come tutto sia più integrato di prima. Da gennaio a maggio, ad esempio, ho lavorato con le scuole e visto 200 classi tra elementari, medie e superiori. E quasi tutte erano classi miste, quando invece quando frequentavo io il liceo, soltanto vent’anni fa, era tanto che fossimo in due ad avere la pelle un po’ più scura. Oggi negli asili convivono i Bryan e i Ranieri e ai Ranieri non interessa, a meno che qualcuno non glielo faccia notare, la pelle diversa dei Bryan. Saranno loro i ragazzi che tra vent’anni costituiranno i giovani uomini e le giovani donne d’Italia: sapranno meno di Dante Alighieri ma saranno meno attenti alle differenze.
Ma è un processo in atto già oggi: ho visto tanti ragazzi alle superiori truccati o in gonna e nessuno aveva nulla da ridire sul loro conto. Mentre ai miei tempi sarebbe bastato molto meno per essere appellati in maniera dispregiativa. Ecco perché sono ottimista sul futuro e sul bello, anche se il bello fa meno notizia soprattutto in quella fogna che sono diventati i social.
Nel tuo album c’è comunque una canzone intitolata Italiano a metà. Il testo parte da una situazione, purtroppo, abbastanza diffusa: la diffidenza verso chi ha un colore di pelle differente.
La diffidenza è qualcosa che ho notato maggiormente negli ultimi anni, da quando il vento è chiaramente cambiato. Quand’ero piccolo, vivendo nella bolla di protezione della pre-adolescenza e dell’adolescenza, non notavo certe cose. Crescendo, invece, le noto: il Salvini-pensiero e il modo di esporre le sue posizioni ha preso piede. Non si può non notare la diffidenza quando, entrando in un bar, le signore tendono a tenersi la borsa un po’ più stretta a sé: si tranquillizzano solo dopo che mi sentono parlare con un forte accento genovese.
Si sono innescate tante piccole dinamiche che prima non c’erano o che comunque non osservavo. Prima, se avessi avuto un pensiero negativo su qualcuno, saresti stato zitto. Oggi, invece, lo scaraventi in faccia e sei anche fiero di esporlo sui social, per quanto truce possa essere. Tanto un like lo rimedierai sempre, c’è qualcuno che la penserà come te.
Temi la cultura dell’odio per i tuoi figli?
Sì, mi fa abbastanza paura. Ecco perché, un po’ per autodifesa, voglio pensare che tutto migliorerà, almeno da questo punto di vista se non altro. Sicuramente farò di tutto e faccio di tutto per tenerli in un ambiente “protetto”, come quello dello sport o della scuola. Come famiglie, occorre stare dietro ai figli e non lasciare alla società o a internet il compito di crescerli al posto nostro. Il problema di oggi è il vedere tanti genitori che non sono ancora cresciuti e che crescono insieme ai figli, cresciuti nel frattempo dalla rete. Quante mamme e quanti papà fanno a gara con le loro pose e le loro azioni sui social con i figli?
È stato facile per te crescere a Savona?
L’unico mio terreno di scontro per il colore della mia pelle è stato l’universo social, dove il “stai zitto, negro di merda” talvolta nelle discussioni veniva fuori quando, guardando la mia foto, vedevano il colore della mia pelle. I social non c’erano quando sono cresciuto e, a parte qualche volta al campetto, non ho mai avuto alcun problema da piccolo. Quando nasci, mangi e cresci insieme agli altri, non vieni giudicato per come sei ma per chi sei.
Fortunatamente, sono riuscito a disintossicarmi dai social e da chi impavido dietro uno schermo offendeva o faceva male: il disagio è durato poco, uso i miei profili soltanto per le minchiate, per promuovere la mia musica o per guardare la classifica di Mimmo Modem… Nessuno riuscirà mai a farmi sentire italiano o nero a metà.
Gran parte delle canzoni di Time Out affrontano l’amore sotto prospettive differenti. Che ruolo e che peso ha l’amore nella tua esistenza?
Sicuramente, un ruolo centrale ma in tutte le sue forme, dall’amicizia al legame sentimentale. Le tante canzoni che parlano d’amore sono state scritte in una fase delicata della mia vita. Tu, ad esempio, parla di una storia d’amore che stava per finire: non volevo crederci nonostante tutti i campanelli d’allarme. Inevitabilmente, arriva un momento in cui il male è troppo grande e ci si ritrova a dover fare una scelta: quando si ama follemente qualcuno che è totalmente diverso da noi (e viceversa), la rotta di collisione è inevitabile. Qualcuno deve prendersi il patentino di cattivo della storia e fare un passo indietro per il bene di tutti, com’è stato nel mio caso.
Altre di quelle canzoni non sono dedicate a una persona specifica ma a una situazione. Chiunque può ripescare nel proprio memoir di situazioni e rivedersi: è un sentimento universale fatto di emozioni che tutti abbiamo provato, anche se non qui e ora con una persona specifica. Pianeti, ad esempio, in duetto con Miriam Masala parla di massimi sistemi: con quante persone ci rinchiudiamo in camera e basta per fumarsene un paio, raccontarsela e stare così bene da sentirsi su Marte?
Blue è invece una canzone che parla di depressione…
È ancora un tema che le persone si vergognano di affrontare. Soprattutto noi uomini, impregnati da una cultura ancora “machista”. Se ne parla molto poco ma non ho vergogna nel dire che in tanti anni, per un motivo o per altro, mi son reso conto che la depressione era la situazione che stavo vivendo. Quando capita agli altri, soprattutto alle persone a te vicine, ti fa quasi incazzare e li esorti con un “dai, sveglia, forza!”. Ma quando capita a te in prima persona realizzi di quanto sia profonda e non risolvibile in un giorno.
Ci vuole tanta pazienza da parte di chi ti sta accanto e soprattutto l’aiuto di qualcuno che è esperto. Ma te lo devi poter permettere uno psicologo… Dopo la pandemia, c’è stato un gran parlare di salute mentale ma mi sembra che sia uno dei grandi temi che è poi stato accantonato dalla nostra repubblica.
Nella canzone, immagino la depressione come un cane nero vero e proprio, simbolo della cappa di insoddisfazione e di infelicità che ti accompagna da quando ti svegli a quando vai a dormire. Non vedi l’ora che arrivi il tramonto: non so perché ma verso sera ti senti più sollevato… ma nel ritornello ci si apre alla speranza: passerà prima o poi, anche se in molto a volte il tunnel della depressione se lo arredano anche perché trovano quasi un conforto nel crogiolarsi.