Dopo la presentazione al Festival di Venezia, arriva nelle nostre sale (prodotto da Wildside con Rai Cinema, in collaborazione con Fremantle, Cinecittà e FilmNation Entertainment, e distribuito da 01 Distribution), il film Finalmente l’alba di Saverio Costanzo con protagonista la ventenne Rebecca Antonaci, al fianco di mostri sacri come Lily James, Joe Keery, Rachel Sennott, Alba Rohrwacher e Willem Dafoe.
Al suo primo film per il cinema, Rebecca Antonaci in Finalmente l’alba interpreta Mimosa, la giovane ragazza che nella Cinecittà degli anni Cinquanta vive una lunga notte di ore per lei memorabili che la trasformeranno in donna. Figlia di un’umile famiglia e da sempre cinefila, Mimosa entra nel mondo delle illusioni e della magia del cinema trovandosi catapultata per caso sul set della produzione di un blockbuster hollywoodiano che si gira a Cinecittà. A volerla nel film in questione è la protagonista, la capricciosa e volubile Josephine (Lily James) che, come Caronte, le apre le porte di un universo in cui si intrecciano fama, rivalità, bellezza, gelosia, arte e persino una misteriosa leonessa in fuga.
Per parlare di Finalmente l’alba, del film e di molto altro ancora, incontriamo Rebecca Antonaci su Zoom e sin da subito veniamo colpiti dalla sua semplicità. Dall’altro lato dello schermo, c’è una ragazza di oggi in tutta la sua semplicità, con una felpa e i capelli raccolti a illuminarle il volto senza un filo di trucco. Dietro al suo sorriso timido si cela la sensibilità di chi di arte ha imparato a vivere presto e non solo di recitazione: ancor prima di essere attrice per il film Finalmente l’alba, Rebecca Antonaci è una performer a tutto tondo. Ha studiato danza classica, si è cimentata con il teatro e la televisione e ha pubblicato un album come cantautrice in cui si svelava tra luci e ombre.
Intervista esclusiva a Rebecca Antonaci
“Sarò sul set a Trieste dal 16 febbraio”, mi risponde Rebecca Antonaci quando le chiedo del film che si appresta a girare, The White Club di Michele Pennetta (affiancata da Costantino Seghi), mentre nelle nostre sale arriva Finalmente l’alba di Saverio Costanzo, di cui è protagonista nei panni di Mimosa. Quello che lo attende è un nuovo ruolo femminile molto tosto, la trama non lascia presagire temi leggeri ma Rebecca Antonaci sembra essere finora dedita all’impegno, considerando che anche Rheingold, che vedremo prossimamente, non concede sconti.
In questi giorni, ti vedremo finalmente come Mimosa, colei che nel film Finalmente l’alba dà vita a una lunga notte di formazione che la trasformerà in donna grazie alla magia del cinema. Avevi conosciuto Costanzo sul set di uno spot ed è lui che ti ha rivoluta per quello che è forse il suo film più grandioso. Com’è stato ritrovarsi sul set al fianco di mostri sacri come Lily James, Willem Dafoe, Joe Kerry e Alba Rohrwacher? Sindrome dell’impostore?
Purtroppo, la sindrome dell’impostore mi appartiene nella vita a prescindere dall’esperienza in sé. Tuttavia, durante le riprese, non c’è mai stato un attimo in cui pensassi di non meritarmi il ruolo: avevo sostenuto un’infinità di provini e Saverio non mi ha affidato la parte di Mimosa con superficialità. Mi ha messo costantemente alla prova, sottoponendomi in pratica a una decina di provini in sei mesi. E più passava il tempo più sentivo addosso Mimosa.
Inizialmente, l’idea di condividere il set con attori di quel calibro mi preoccupava. Ogni mio dubbio o timore è invece poi svanito nella fase di preproduzione: ho lavorato molto con Saverio prima di cominciare le riprese e ho avuto modo di conoscere così bene il cast che quando abbiamo cominciato a girare tutto si è rivelato molto naturale, oltre che bello. Non ho sentito addosso nessun tipo di pressione. Nemmeno nel dover girare in inglese: capisco molto bene la lingua ma per esigenze di sceneggiatura dovevo fingere di non capirla… per estraniarmi dai dialoghi, nella mia testa cercavo parole da mettere a caso per estraniarmi.
Qual è stata la prima scena che hai girato?
Una delle primissime che si vedono nel montaggio finale del film, quella in cui Mimosa è in casa con la sua famiglia. Cominciare dal suo ambiente, nella casa in cui è cresciuta e circondata dai suoi familiari, mi ha permesso di empatizzare subito con il suo mondo, anche se poi nella stessa settimana abbiamo girato la sequenza finale.
Un cambio di psicologia incredibile nell’arco di pochi giorni che dovevano restituire il processo di crescita che porta Mimosa dall’essere soggetta a dinamiche tradizionaliste al divenire una giovane donna autodeterminata. Ciò inevitabilmente ti avrà richiesto un approfondito lavoro su ciò che ti accomunava o allontanava da lei.
Ho lavorato molto su questo aspetto proprio perché io e Mimosa abbiamo una mentalità diversa ma anche in comune alcune sfumature del carattere. Ciò che è trovato forse più difficile è stata la rimozione di un pensiero e un giudizio proprio nei confronti di ciò che famiglia e società del periodo imponevano. Un aspetto che, tuttavia, comprendo: vivendo in quel particolare momento storico, Mimosa non sapeva realmente quanto ciò che le imponevano, come lo sposare un uomo che non aveva scelto, fosse sbagliato.
L’aspetto più complicato dato dal girare l’inizio e la fine del film in così poco tempo è stato sicuramente il dover elaborare psicologicamente tutto ciò che nel mezzo della lunga notte Mimosa vive. Non avendo ancora girato tutta quella parte di storia, ho dovuto appellarmi solo alla mia immaginazione e alle indicazioni che Saverio Costanzo mi aveva dato.
Cosa hai quindi trovato di te nelle sfumature di carattere di Mimosa?
La tranquillità con cui riesce a essere se stessa anche in situazioni che le richiedono di ostentare o di fingere qualcosa che lei veramente non è. È un atteggiamento che mi appartiene e che cerco di mantenere anch’io: non mi piace fingere di essere diversa davanti a qualcuno che invece si mostra per chi non è. Ma anche la sua timidezza, sono una persona un po’ introversa che fa fatica a essere spigliata con chi non conosce, e la sua innocenza, intesa come bontà interiore.
Nel film, Mimosa è al centro di una scena molto delicata in cui, trascinata a una festa dalla sua nemesi, si ritrova giocoforza a dover dare vita a una performance straordinaria come ‘poetessa svedese’. Quanto è stato complicato lacrimare dal nulla senza proferire alcuna parola?
Non è stato così difficile come sembra. Eravamo già arrivati a metà delle riprese e quella connessione che avevo sentito sin da subito con Mimosa aveva fatto sì che sul set diventassi lei senza pensarci troppo. Mi ha aiutato l’essere nella sua stessa situazione: ero circondata da persone che mi fissavano e dallo sguardo feroce del personaggio di Lily James in attesa di un qualcosa che provenisse da me… era quasi spontaneo che piangessi.
A dirla tutta, il pianto è qualcosa che mi riesce abbastanza facilmente: se anche in questo momento tu mi dicessi di piangere, mi verrebbe naturale farlo pensando a chissà quale circostanza dietro. Tra l’altro, credo che sia qualcosa che abbiamo sorpreso anche Saverio Costanzo a un provino: pur non avendo io nulla a disposizione (non conoscevo la sceneggiatura ancora), mi ha fatto simulare la scena rimanendo colpito dal risultato.
Quali sono le situazioni per cui Rebecca piange nella vita privata?
Non scappo dal pianto proprio perché aiuta mi aiuta a sfogarmi a livello emotivo. Da persona molto sensibile, piango in qualsiasi situazione in cui non mi senta a mio, quando intorno a me percepisco energie negative nei miei confronti o quando si feriscono i miei sentimenti. Tendo a piangere quando mi portano a sentirmi insicura o quando, nei miei tanti momenti di riflessione, affronto quelli che chiamo i miei ‘giri interiori’. Per me, il pianto è catartico e non è da nascondere: la società ci cresce invitandoci a smettere di piangere sin da piccoli quando invece è proprio il pianto a permetterti di entrare in contatto con la tua emotività.
Finalmente l’alba è il tuo primo grande film a livello di sforzo produttivo. Quel è stata la difficoltà maggiore che hai dovuto affrontare a livello pratico?
Il combattere la stanchezza. La maggior parte delle scene sono state girate in orari serali o all’alba, per cui mi svegliavo anche alle quattro del mattino. È stata dura, al di là degli orari tosti, stare sempre sul set, pronta all’azione: ci sono stati momenti in cui sentivo l’esigenza di stendermi o di dormire ma dovevo resistere sia fisicamente sia psicologicamente.
Prima di essere un’attrice, sei una cantautrice. Musica e recitazione sono due canali differenti per esteriorizzare le proprie emozioni.
Sono due processi creativi che, dal mio punto di vista, si aiutano a vicenda. Nel creare musica riesco a parlare di me e di ciò che provo, visualizzando quelle emozioni che poi metto al servizio di un personaggio ogni qualvolta che mi viene affidato un ruolo. ‘Conosci te stesso’ è una delle prime regole di chi studia recitazione: se non conosci appieno te stesso, il tuo modo di essere e la maniera in cui ti esprimi, è difficile che poi tu riesca a calarti nei panni degli altri. Tuttavia, sebbene faccia appello a entrambi i due mondi, tengo anche a tenerli separati: quando scrivo canzoni, parlo di me mentre, quando recito, indosso le vesti di qualcun altro.
‘Conosci te stesso’: quand’è stato il primo momento in cui ti sei chiesta chi eri?
Le grandi domande per me sono arrivate dopo aver terminato le riprese di Finalmente l’alba. Seppur stancante, avevo vissuto un’esperienza che mi aveva fatto sentire come una bambina in un parco giochi per quanto fossi felice sul set. Ma la realtà, tuttavia, mi riportava alla vita di tutti i giorni: dovevo tornare a scuola, finire il quinto anno e recuperare il programma che per ovvie ragioni avevo perso. Sono dovuta allora tornare nella mia Viterbo con tutte le conseguenze del caso. Non è stato semplice tanto che ho dovuto ricorrere alla terapia, una scelta che si è rivelata giusta: mi ha portata a esprimere tutto ciò che tenevo dentro, a conoscere aspetti nuovi di me stessa (e ancora ne continuo a conoscere) e a crescere in maniera repentina.
Tornare a Viterbo significa confrontarsi anche con i tuoi coetanei e compagni di classe…
Sono sempre stati tutti molto interessati a ciò che da attrice avevo fatto. Mi ponevano tantissime domande e non c’è mai stato da parte loro alcun tipo di atteggiamento invidioso o problematico: essendo al quinto anno, il legame di amicizia tra tutti era molto consolidato e tutti conoscevano e appoggiavano il mio sogno di diventare attrice. Da questo punto di vista, sono sempre stata circondata da amici, familiari e concittadini in genere che sono molto felici per me.
La musica ha comunque segnato la tua adolescenza. Quando è entrata in maniera così preponderante nella tua vita?
Ho sempre studiato pianoforte e sax e cantato delle cover. Tuttavia, non avevo mai scritto e cantato qualcosa di mio prima della pandemia legata al CoVid. Come un po’ tutti i ragazzi della mia età, mi sono ritrovata in quel periodo da sola e sentivo la necessità di una valvola di sfogo. In quel momento, mi sentivo con una persona che scriveva canzoni e quasi per gioco è nata l’idea di mettermi a farlo anch’io: in cinque giorni, vennero fuori cinque canzoni diverse! Realizzando che mi piaceva farlo, ho cominciato sempre più a scrivere fino a pubblicare anche un album.
Nello scrivere di te, non avevi paura di metterti a nudo?
È una paura che ho tuttora. Tutte le volte che qualche mio amico fa partire una mia canzone, mi imbarazzo tantissimo. Non mi crea disagio la pubblicazione della canzone in sé ma l’ascoltarla in presenza di altri proprio perché parlo di lati miei personali che a volte non è facile esternare a parole.
Nelle canzoni, affronti come tema anche quello dei sogni di una ragazza della tua età. Qual è il tuo incubo peggiore?
Forse il dover rinunciare al mio lavoro. Non so se sono veramente brava o adatta a farlo ma temo che possano non richiamarmi più su un set. E io non mi vedo a fare altro, purtroppo: non mi sentirei realizzata e, soprattutto, non sarei felice. Quello di attori è già di per sé un lavoro insicuro e precario, non sai mai quando e quanto lavorerai, ma l’idea di ritrovarmi a rimetterlo in discussione mi spaventa.
Un incubo che al momento allontaniamo il più possibile: Rheingold e The White Club sono i tuoi due nuovi progetti. Cosa ti spinge a sottoporti a un provino anziché a un altro?
La discriminante per me è sempre il personaggio. La sinossi è sì importante ma spesso la profondità dei personaggi esula da quella. Per Rheingold, ad esempio, ho sentito subito un legame fortissimo con il ruolo per cui sono stata poi scelta e lo stesso dicasi per The White Club, che considero una sfida a tutti gli effetti: interpreterò un personaggio molto distante da me, una prostituta di diciannovenne anni. Se sarà facile impersonarla non lo so ancora ma aveva in sé quel tratto che da sempre mi attrae: la distanza da ciò che ho fatto o interpretato in precedenza.
Qual è stato il primo film che hai visto da bambina e che ti ha fatto dire che avresti voluto fare anche tu la stessa cosa che vedevi sullo schermo?
Da piccola, ero un’appassionata dei film Disney: conservo ancora le videocassette e conosco a memoria ogni canzone delle varie colonne sonore. Non saprei indicare un titolo specifico ma so che sin da piccola mi divertivo nel mettere in piedi piccoli spettacoli che recitavo davanti ai miei genitori. È stato questo che mi ha spinta, ancor prima che col cinema, a cimentarmi con il teatro: è stata poi la mia insegnante di teatro a spingermi a fare il primo provino che mi ha portata a scoprire il mondo della recitazione al cinema e in televisione.
Come reagivano a quei siparietti mamma e papà?
Mi assecondavano, come si farebbe con qualsiasi bambino. Non ho dei ricordi nitidi ma credo che lo facessero, considerando che non si sono mai opposti al mio desiderio di diventare attrice e che anche mio fratello, sedicenne, è attore.
Ti ha fatto effetto vederti durante la Mostra del Cinema di Venezia sui giornali?
Inizialmente, sì. Ma poi ho pensato che fosse bello riuscire ad arrivare a tantissime persone con ciò che hai da dire su un progetto come Finalmente l’alba in cui credi molto. Era strano anche sottoporsi alle interviste!
L’uscita di un film però ti sottopone anche al peso del giudizio altrui. Cosa ti farebbe più male leggere?
Nel caso di Finalmente l’alba non mi preoccupano le critiche personali sulla mia recitazione: potrei essere arrivata oppure no… Mi farebbe male leggere semmai che il film non ha un senso, come qualcuno ha scritto ai tempi della partecipazione in concorso a Venezia, quando invece contiene in sé un messaggio fortissimo e tantissimi valori.
Quale valore tra quelli propositi senti più tuo?
L’inno alla semplicità, a essere se stessi e a non scendere a compromessi anche nelle situazioni di difficoltà. Ma anche la femminilità che Mimosa porta con sé, piena di sfumature sensibili e insicure: il racconto, sacrosanto di figure femminili forti e in opposizione negli ultimi tempi ha portato a perdere di vista come possano esistere anche altri modi di essere donna. Da femminista convinta, non dobbiamo vergognarci di mostrare anche il nostro lato più sensibile e fragile: non per forza dobbiamo essere incazzate contro tutto e contro tutti senza una ragione. Non è questo che si fa sentire inferiori a un uomo.
Nella sua lunga notte, Mimosa si ritrova sola. Cos’è la solitudine per te?
Qualcosa di bellissimo. Ho sempre cercato di rifuggire la solitudine e di tenerla lontana da me perché mi faceva paura. Ho invece scoperto crescendo che è quando impari a stare solo con te stesso che poi diventa anche più bello condividere il tuo tempo con gli altri. È una banalità detta e ridetta ma non per questo è meno importante o vera: sono molto leopardiana in tal senso.
E che ruolo gioca la luna, per citare una tua canzone, in tal contesto di solitudine?
Ha un peso enorme: sarebbe il posto giusto per me… è come se fosse una mia immagine riflessa, un emblema della solitudine talmente affascinante da averla scelta come musa ispiratrice.
Rimanendo nella tua musica, è stato facile scrivere una canzone come Venere?
No, ma è stato bello farlo perché sono entrata in contatto con una parte di me che fino a quel momento tendevo a nascondere, ovvero la mia attrazione verso le donne. Tra l’altro, ho reso il tutto ancora più complicato ma al tempo stesso divertente con il mio desiderio di rendere difficile da decifrare il messaggio che la canzone conteneva.
Ti pesano gli stereotipi?
Mi pesano perché precludono: se sei a, non puoi essere b… quando in realtà siamo tutti fatti da mille sfumature che ci fanno essere sia a sia b. Il doversi definire in un certo modo è di per sé sbagliato e limitante: siamo in continua crescita ed evoluzione, sappiamo chi siamo oggi ma non chi saremo domani.
Uno stereotipo che torna spesso nei racconti è “una ragazza in gamba”. Chi è per te una ragazza in gamba?
Una ragazza che ha qualcosa di unico e speciale che attrae. Non parlo dell’aspetto fisico ma del lato caratteriale. È anche una ragazza che realizza ciò che vuole.
E tu sei una ragazza in gamba?
Non spetta a me deciderlo o dirlo. Forse lo sto diventando, prendendo tutte quelle scelte che mi fanno stare bene e non pensando a ciò che mi dicono gli altri.
Cosa ti dicono gli altri?
Il lato brutto dell’essere un’attrice donna è il continuo soffermarsi da parte degli altri sul tuo aspetto fisico: devi rispondere a determinati standard. Ho un fisico considerato ‘normale’, non sono né una modella né il suo contrario. Eppure, mi è purtroppo capitato di sentirmi dire che non ero abbastanza magra e che, quindi, non andavo bene. Tra l’altro, in maniera del tutto gratuita: al regista andavo bene ma alla costumista no, per lei ero “grassa”. Non ha minimamente pensato alle conseguenze che avrebbe potuto instillare in una ragazzina minorenne che già aveva tremila problemi di suo nell’affrontare quel lavoro… Non mi ha di certo reso la vita più semplice, anzi: non avevo complessi prima ma me li han fatti venire.