È uscito lo scorso 20 maggio La vita, l’amore e quello che resta, il nuovo album dei Réclame (Giungla Dischi/Artist First). Arriva a due anni di distanza da Voci di corridoio, l’album di debutto del gruppo prodotto da Daniele Sinigallia. E si caratterizza per avere un unico filo conduttore: l’amore.
Sulla scia del grande cantautorato italiano degli anni Sessanta e Settanta, i Réclame declinano il sentimento, uno dei più cari al mondo dell’arte, ricorrendo a sentieri oggi poco esplorati. Prendendo biforcazioni e direzioni molteplici, le dieci canzoni che compongono il disco dei Réclame rappresentato un’indagine sulle relazioni umane e le loro complessità. Si parla di amori tossici, della fine di una relazione, di ricordi fermi nel tempo, di madri onnipresenti e di amori socialmente non accettati. Le metafore e i riferimenti sono spesso alti. E, cosa non da poco, la scrittura diventa man mano sempre più aulica, fino ad arrivare alla poesia finale che chiude il lavoro.
“Il disco è stato concepito come una serie di variazioni sul tema amoroso”, ha dichiarato il gruppo. “I brani che lo compongono si configurano come diverse declinazioni del tema principale. Analizzano le sue possibili diramazioni ed esiti, a partire da narrazioni differenti e complementari: dal tradimento, alla violenza domestica, a una relazione socialmente inaccettabile, passando per coppie alla deriva e addii difficili da sostenere”.
“Il tono del disco non è univoco, in quanto alterna momenti riflessivi ad altri drammatici, rabbiosi e nostalgici, nel tentativo di restituire la complessità propria dei rapporti umani. Le coppie, che prendono vita nei vari brani, sono molteplici e caratterizzate da sonorità e strutture che cambiano costantemente. L’opera è articolata come un crescendo che, nel finale, porta ad una deflagrazione formale e contenutistica. Qui, il ritorno alla vita ed agli affetti si scontra con l’ambiguità dell’agire umano, la difficoltà di superare i propri traumi e, soprattutto, di fare i conti con quello che resta dopo una fine”.
Pop elegante e ricercato. Questa è la chiave vincente dei Réclame, in un momento in cui la musica sembra non voler andare oltre l’usa e getta dei due minuti. Per chi non li conoscesse, i Réclame sono una band romana nata dall'incontro fra Marco Fiore (voce e testi) e i fratelli Edoardo Roia (batteria), Gabriele Roia (basso), già bassista nella band di Gazzelle, e Riccardo Roia (tastiere), già tastierista di Fulminacci. Conseguenze è il primo singolo scelto per lanciare La vita, l’amore e quello che resta, il cui release party si terrà a Roma il 18 giugno a Le Mura.
A parlare in questa intervista esclusiva del nuovo album è Marco Fiore.
Intervista esclusiva a Marco Fiore, voce e autore dei Réclame
La vita, l’amore e quello che resta è il titolo del nuovo album dei Rèclame, caratterizzato da un pop d’autore che con le sue sonorità ci porta agli anni Settanta. Possiamo definirlo una sorta di concept album il cui filo conduttore è l’amore, cantato nelle sue varie sfaccettature o sfumature. Si passa dalla fine di una relazione al femminicidio o all’invadenza di fattori esterni alle relazioni. Com’è nato?
L’amore è il tema che unisce tutte le canzoni. Ci sono le diverse variazioni di quello che possiamo definire tema amoroso. E ci sono varie figure femminili, non unitarie, che compongono il disco. L’intento letterario delle canzoni era quello di restituire un’immagine complessa, alle volte anche contraddittoria, del rapporto amoroso.
È un tema che spesso la canzone pop, soprattutto contemporanea, relega un po’ alla sciatteria. Il pop d’autore degli anni Sessanta con autori come Tenco, Paoli, Bindi e via di seguito, riusciva invece a restituire bene la complessità del sentimento amoroso: il pop era come una sorta di cavallo di Troia per contenuti densi di significato.
Possiamo usare anche un’altra suggestione per spiegare meglio cosa intendo. Se pensiamo alla poesia d’amore italiana del Trecento, sembra che tutti gli autori parlino tutti della stessa donna, perché l’hanno idealizzata. Nel pop d’autore, invece, accade il contrario: si svincola l’amore da quella che è l’idea comune che se ne ha e lo si porta nella realtà. Ci si rende così conto che non esistono amori uguali.
Quando si parla d’amore, di cosa si parla? C’è modo e modo di amare. E da questa osservazione di fondo è nato il nostro disco. Le canzoni che lo compongono percorrono tutti quelli che sono i sentieri che si biforcano a partire dal tema principale. Cercano di restituirne la profondità o la complessità adottando strutture pop e, quindi, di facile fruizione.
Facile fruizione che però non vuol dire usa e getta. In un momento in cui le canzoni durano due minuti prima di essere dimenticate, voi scegliete invece canzoni che sono fatte per essere ricordate nel tempo, proprio perché sono figlie di quel pop che ancora oggi cantiamo, da Tenco a Battisti. In molte delle canzoni, si parla di amori o finiti o giunti quasi alla fine. È voluto, si lega a qualcosa di personale o è casuale?
Nel nostro lavoro, mi piace sottolinearlo, c’è molto poco di casuale. Proprio perché siamo legati alla tradizione pop degli anni Sessanta e Settanta, siamo legati a una progettualità generale del disco. Molto spesso, lo dico con rammarico, molti autori contemporanei non sono nemmeno coscienti di quello che cantano: non sapendo dare spiegazioni, incappano spesso in situazioni paradossali e lasciano al pubblico la libera interpretazione delle canzoni. È una deriva non molto interessante, che si discosta di molto da quello che accadeva decenni fa. Negli anni Settanta, gli album si basavano su un’idea forte da veicolare sia da un punto di vista musicale sia da un punto di vista letterario. E gli autori sapevano spiegarla.
Il disco parte in un modo e finisce in un altro. La fine secondo me è quella che dà il senso a tutto il lavoro e lo si capisce avvicinandosi all’ultima traccia, Quello che resta, una sorta di monologo. Non la definirei nemmeno una canzone ma un piccolo pezzo di teatro in cui il rumore prende il posto dell’armonia e la melodia cede il passo alla declamazione.
In un certo senso, il disco è anche una messa in discussione della stessa canzone pop. Parte con dei pezzi molto fruibili e pian piano si avvicina a una forma che è altra da quella della canzone. Anche il linguaggio diventa più lirico e si avvicina più a quello della poesia che della canzone. Più che la paura della fine di una relazione, volevamo sottolineare la paura del fare i conti con ciò che resta dopo. E ciò che resta non è sempre chiaro.
Ecco perché l’ultima canzone ha una forma più aperta, dilatata, e non ha un’armonia ma solo rumoristica: ciò che resta alle volte è talmente confuso, è un rumore bianco in cui non c’è assenza di frequenza ma, come un bravo fonico sa, la totalità delle frequenze. Sta a ognuno di noi ricercare un senso all’interno di quel magma generale. Lo si evidenzia anche da un punto di vista grafico: guardando la copertina del disco, quello che resta è scritto in maniera confusa. Non c’è nulla di casuale.
La vita, l’amore e quello che resta arriva a due anni di distanza dal vostro precedente album, Voci di corridoio. Come sono stati questi due anni?
Sono stati due anni di attesa ma abbiamo scritto molto, ci siamo confrontati e abbiamo ascoltato cose differenti da quelle che c’erano all’interno del primo disco. Abbiamo cercato di liberarci dalle influenze passate per portare avanti il nostro discorso in forma differente. Sono però stati anche due anni ovviamente critici perché sono mancati i live. Devo però dire che comunque in tutto il marasma generale abbiamo trovato da un punto di vista compositivo, forse per via della situazione di isolamento generale, un certo piacere nella scrittura in solitaria.
I momenti di isolamento sono quelli in cui ci si ritrova con se stessi e ci si può confrontare con se stessi, con le ansie, le paure, i pensieri, le gioie e le debolezze. Al di là dell’amore, il vostro disco tratta anche di figure singolari che spesso rimangono lontane dal mondo della canzone. Parlate ad esempio di una madre che incombe come una presenza, di lolite, di femminicidio e di violenza domestica (nello specifico in Finché morte non vi separi). Da dove nasce il desiderio di soffermarsi su determinati argomenti su cui spesso si sorvola?
Da fruitore di musica, apprezzo sempre chi trova il coraggio di narrare anche situazioni, non dico difficili ma quanto meno contraddittorie. Sono convinto che la canzone, come ogni forma d’arte, non debba restituire delle verità date: quando ci si avvicina a qualcosa che si reputa “giusta” aprioristicamente, non se ne riesce mai a restituirne la complessità, quella complessità che è insita non solo nei rapporti ma anche nella vita in generale.
Finché morti non vi separi ha il punto di vista del padre di lei che è impotente di fronte a un sentimento che, nella sua contraddittorietà e tragicità, è comunque amore. Lei ne è convinta, continua ad amare il suo aguzzino fino all’estremità più drammatica: in quella violenza, in quella relazione perversa, trova sempre amore. È umano: fa parte della parte contraddittoria dell’umano, quella che rimane più “coperta”.
Lolita si rifà al famosissimo romanzo di Nabokov e racconta di un amore socialmente non accettato. La storia, come in ogni forma d’arte, è un espediente per parlare di temi più generali, universali. L’amore violento e l’amore socialmente non accettato ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Le storie che ne parlano si rifanno ad archetipi che sono insiti nel nostro dna, cambiano solo le declinazioni.
A proposito di figura paterna, torna ma in maniera diversa in Quello che resta, dove si parla di un padre bestemmiatore dalla mano pesante.
Come dicevo prima, quella traccia è una sorta di messa in discussione della canzone pop e il linguaggio è volutamente desueto se vogliamo. La vicenda narrata è quella di un amore che non ha via di scampo. C’è una strofa che dice “fosse per me, forse adesso rimarrebbe di più da guardare che il tuo brutto ritratto della seconda elementare appeso alla parete della cucina”. Il brutto ritratto, che rimane appeso anche quando lei non c’è più, è un po’ come un feticcio e ha dietro la logica dell’oggettivazione del tema. Accade anche in Per innamorarsi, dove c’è il rosario al collo che passa dalla madre invadente alla figlia: è il simbolo della ritrosia nei confronti del mondo che va avanti e delle relazioni che cambiano.
Quanto è difficile proporre a un produttore un album in cui le canzoni seppur modernissime parlano di temi senza tempo, non vincolati dalla necessità del qui e ora?
Tocchi un punto per me centrale, quello che considero una vera e propria patologia del contemporaneo. C’è la credenza generale diffusa che per parlare del presente tu debba parlare del presente. Sembra una tautologia ma se ci pensiamo ha del paradossale.
È sempre stato adottato un espediente altro dal contemporaneo per criticare, soprattutto in tempi in cui non ci si poteva esporre politicamente. Penso a quanta commedia dell’arte ha rappresentato vicende contemporanee ambientandole un secolo prima o a quanta fantascienza si è proiettata nel futuro per parlare del presente. Il presente piace solo perché lo si sente vicino da un punto di vista linguistico, l’indie piace perché le persone hanno la sensazione che stia parlando a loro. Ma il punto, però, è sempre lo stesso: ancor prima di storie e situazioni, il presente vive, ancora una volta, di temi.
Spesso parlare di presente è ancora più complicato perché ci si è ancora in mezzo. Si è influenzati da una serie di fattori anche psicologici, gli stessi che influiscono sul racconto di esperienze autobiografiche. Quando si prova a scrivere un’autobiografia, è sempre difficile essere onesti fino in fondo con il pubblico: proprio perché sei di mezzo, cerchi di ingentilire tutto. Trovo invece più interessante prendere espedienti anche un po’ passati che abbiano una aderenza contemporanea, data da temi che magari non vengono trattati da un punto di vista generale. Lo sapevano benissimo i cantautori del passato: parlare di contemporaneo col contemporaneo vuol dire ripetere sempre le stesse cose.
Come ha reagito il vostro produttore?
Sinceramente, non abbiamo avuto particolari problemi. Chi ci circonda sa che siamo un po’ degli animali particolari: alla fine, cerchiamo di fare quello che vogliamo. La nostra è sempre una sorta di battaglia intellettuale: non sempre si deve assecondare l’aspettativa del pubblico e raccontargli ciò che sente vicino o che vuole sentirsi dire. Lo troverei svilente anche nei confronti del pubblico stesso: è come se si partisse dal presupposto che il pubblico non possa mai arrivare a un determinato tipo di consapevolezza che magari tu hai.
Ma, poi, ricordiamo che l’artista ha il compito di fare da mediatore tra realtà e pubblico, filtrandogli ciò che ancora non conosce.
Il problema è semmai come medi questa realtà. Se si proponesse al pubblico ciò che vuole per paura di scontentare qualcuno o per timore di ritorsioni, sarebbe insignificante. Non devi portare le persone verso quello che sentono vicino ma devi portarle verso ciò che è loro più lontano, profondo ed eterno nel tempo. Il presente è già morto domani, i temi universali no.
Tu sei particolarmente giovane, hai 25 anni. Quando hai iniziato a scrivere?
Ho iniziato davvero molto presto, molto presto. Ovviamente, come accade per tutti, la scrittura è inizialmente una palestra che si fa in solitaria. Solo dopo inizi a condividerla con gli amici più fidati, prima di farlo con molte altre più persone. Sono da sempre una sorta di ancella di quello che è il cantautorato degli anni Settanta. Per me rimane un punto focale soprattutto da un punto di vista letterario.
Pur essendo un millennial, non ti sei però lasciato travolgere da tutta l’ondata hip hor, rap, trap e via dicendo…
Non voglio passare per un reazionario o per un passatista. Amo la forma che cambia nel tempo ed è necessario che avvenga, altrimenti l’arte morirebbe. La forma, dunque, deve andare avanti e sono un grande estimatore di tante esperienze contemporanee, anche di nicchia. Il rap per certi versi ha preso il posto del cantautorato perché si regge proprio sulle parole. Ovviamente, ci sono rapper e rapper. Ma c’erano anche cantautori e cantautori negli anni Sessanta e Settanta.
Quali sono i cantautori della tua ideale playlist?
Non mi stancherò mai di citare Fabrizio De André: è probabilmente il più grande cantautore che abbiamo avuto in Italia o, quantomeno, il mio preferito. E poi Nick Cave, probabilmente il più grande autore contemporaneo di canzoni pop. Ma anche un po’ di tutto: sento dall’opera lirica alla new wave o l’hip hop se fatto bene. Come diceva Frank Zappa, non ci sono canzoni belle o brutte… ci sono canzoni scritte bene e canzoni scritte male.